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Proponiamo un’intervista a Mons. Paolo Lojudice, Vescovo ausiliare della diocesi di Roma per il settore Sud. E’ stato ordinato sacerdote il 6 maggio del 1989 e Vescovo lo scorso 23 maggio. Per tre anni è stato vicario parrocchiale a Santa Maria del Buon Consiglio, al Quadraro, dal 1992 al 1997 a San Vigilio a Ottavo Colle. Per otto anni ha guidato la parrocchia di Santa Maria Madre del Redentore a Tor Bella Monaca. Quindi, l’incarico al Seminario Maggiore, e infine, quello di guida della parrocchia di San Luca Evangelista, al Prenestino

Tor Bella Monaca, Corviale, Laurentino 38 sono alcuni luoghi simbolo di un urbanizzazione per grandi volumi priva spesso di spazi di socializzazione. Lei è stato parroco per diversi anni della parrocchia di Santa Maria Madre nel Redentore a Tor Bella Monaca, che cosa ha potuto sperimentare al riguardo? Quali ripercussioni hanno sulla vita delle persone scelte urbanistiche di questo tipo? Quali responsabilità abbiamo come cittadini e come comunità ecclesiale?

Non posso dire in assoluto che a Tor Bella Monaca non ci siano spazi di socializzazione, ma la testa dei progettisti difficilmente conosce le modalità di vita delle persone. Si ragiona a tavolino senza tener conto della realtà. Quando ero parroco di Santa Maria del Redentore a Tor Bella Monaca ho conosciuto l’architetto, ora defunto, che ha progettato la Chiesa e parlando mi sono accorto di quanto fosse difficile per lui comprendere la differenza tra la teoria e la pratica. Gli parlai, ad esempio, della difficoltà (quasi impossibilità) della sostituzione delle lampadine di illuminazione della chiesa, posizionate troppo in alto e impossibili da raggiungere e lui mi rispose che quelle lampadine erano state progettate per non fulminarsi mai. Dopo poco se ne fulminarono 4.

Spesso una struttura architettonica da spazio al lato estetico però si dimentica del fatto che deve essere funzionale, a servizio della vita delle persone. Il dramma che si vive in realtà come quella di Tor bella Monaca è che si viene a creare una polveriera sociale perché si accorpano troppe situazioni di degrado. Ci sono spazi verdi ma spesso vengono deturpati. Le stesse abitazioni in alcuni casi sono molto belle e curate e in altri rese fatiscenti. La differenza la fanno le persone che ci abitano. In questi luoghi (qualcuno li chiamerebbe ‘non-luoghi’) manca la capacità di mobilitarsi, la capacità di costruire una vita sociale fatta di ‘relazioni normali’. Ci sono sicuramente delle analogie con la situazione dei cosiddetti “campi-Rom autorizzati” che nascono per essere una risposta a dei problemi ma che finiscono per ingrandire i problemi stessi. Gli organismi decisionali dovrebbero essere più attenti e più lungimiranti. Ovviamente niente è assoluto, e non è mai tutto negativo: per alcune persone questi quartieri più popolari riproducono dinamiche “da paese” con contatti facili: la gente si siede per strada, sui muretti, davanti alle case e passa così il suo tempo, in particolare d’estate.

Lo scorso 8 marzo papa Francesco si è recato in vista pastorale nella parrocchia di Santa Maria Madre del Redentore. In quell’occasione Il Papa ha voluto rimarcare, tra l’altro come il “primo comandamento” sia “la vicinanza a chi è solo”, in difficoltà, emarginato? Quali parole del Vescovo di Roma le sono rimaste più impresse?

Sicuramente la solitudine è una questione molto seria. A Tor Bella Monaca ci sono persone agli arresti domiciliari, situazioni di tossicodipendenza e di degrado umano. Credo che la Chiesa sia chiamata a sostenere le persone cominciando dal farle sentire meno sole. La parrocchia può essere sempre una porta aperta, come la locanda del Buon Samaritano. Nelle mie varie esperienze pastorali, prima da viceparroco e poi da parroco, ho sperimentato quante differenze ci siano tra un quartiere e l’altro, tra una comunità e l’altra. E’ molto diversa l’incidenza sociale di una parrocchia collocata al centro di un quartiere di una che si ritrova, per ragioni di piano regolatore, ai margini, di una parrocchia che è punto di ritrovo e di incontro per comodità geografica da una che nemmeno si nota; da una che può essere raggiunta anche a piedi da un bambino da una dove ci si arriva solo in auto.
Ho anche potuto osservare come vi fossero tuttavia alcune occasioni liturgiche utili, se ben sfruttate, che potevano aiutare ad avvicinare anche chi in chiesa non ci metteva piede. In particolare i funerali. Quando si trattava di giovani (e purtroppo è capitato spesso), si sono rivelati delle straordinarie occasioni di evangelizzazione, di possibilità di avvicinare persone lontane dalla Chiesa. I funerali sono infatti un momento dove si può comunicare al cuore delle persone, toccare i loro sentimenti, la loro sensibilità.

Il Papa, in occasione della veglia di Pentecoste tenutasi nel maggio del 2013 con i movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le aggregazioni laicali, ha dato un indicazione chiara alla sua Chiesa: quella di non chiedersi ma di uscire da se stessa. In quella occasione ha affermato che “quando la Chiesa diventa chiusa, si ammala” invitandola ad uscire “verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano”? Quali sono le implicazioni pastorali di un simile invito?

La parrocchia non può esaurirsi nella quattro mura, nella gestione dei gruppi ma deve essere un punto di riferimento del quartiere. Le parrocchie rischiano di essere delle “Ferrari che mettono solo la prima o la seconda”. Spesso si nota una mancanza di fantasia pastorale, di creatività. E questo in molti ambiti dalla pastorale, in particolare quella giovanile e la preparazione ai sacramenti, che esiste in tutte le parrocchie, ma spesso vissuta come tradizione ripetitiva e abitudinaria. Credo che sia molto importante curare la pastorale giovanile a partire dal costruire un rapporto di forte collaborazione tra catechisti/educatori e sacerdoti. Serve continuità per aiutare i giovani anche a livello vocazionale e cioè un tempo relativamente lungo di presenza di bravi sacerdoti.
Tornando al tema del rapporto con il territorio credo che sia necessario programmare dei tempi, delle ore in cui essere fuori, in strada, nei condomini, nei viali. Quando ero parroco mi prendevo del tempo per camminare per strada, per incontrare le persone, e anche nelle mia esperienza da viceparroco, insieme ai ragazzi della parrocchia, ci ritagliavamo degli spazi di presenza sul territorio andando a incontrare le persone che vivevano nelle baracche toccando con mano le situazioni di povertà e cercando di fare qualcosa per migliorare quelle condizioni aiutando le famiglie.

Nella Laudato Si, al numero 149, Papa Francesco afferma che “…per gli abitanti di quartieri periferici molto precari, l’esperienza quotidiana di passare dall’affollamento all’anonimato sociale che si vive nelle grandi città, può provocare una sensazione di sradicamento che favorisce comportamenti antisociali e violenza…”. Sottolinea inoltre come “…tante persone, in queste condizioni, sono capaci di tessere legami di appartenenza e di convivenza che trasformano l’affollamento in un’esperienza comunitaria…”. La sua esperienza pastorale a quali considerazioni la porta? Quali ostacoli vede su questo cammino indicato dal Papa?

Le considerazioni che fa il papa sono di un realismo quasi ‘disarmante’. D’altra parte il nostro pontefice non è vissuto nei ‘salotti buoni’, ma ha incontrato e toccato con mano la miseria e la desolazione in cui si vive (e in cui ci si abitua a vivere) in una enorme metropoli come Buenos Aires. Nessuno è giustificato nel fare il male, nell’assumere “comportamenti antisociali” o nel “compiere violenze…” ma ognuno è radicalmente condizionato dalla sua storia e, con una battuta potrei dire, dalla sua geografia. La storia condiziona la vita di una persona, così come di un intero quartiere. Non è la stessa cosa nascere all’Eur o a Tor Bella Monaca, a Montesacro o a Corviale, in un campo rom o al Torrino… Gli stessi problemi, gli stessi pericoli sono ovunque ma in alcuni posti sono più numerosi, più a portata di mano. I palazzoni di Tor Bella Monaca (e non solo) sono stati costruiti per risolvere i problemi abitativi degli anni ’80, quando ancora in una città come Roma tanta gente, a causa di sfratti o di altre storie, vivevano nelle baracche o in luoghi di fortuna.

Nei fatti però è accaduto che si sono ritrovate a vivere in uno stesso luogo troppe persone “ a rischio”, riunite da un “comune destino”. Si sono formati dei gruppi familiari che sopravvivevano nell’illegalità anche perché tante case non venivano assegnate ma “occupate”. Non era il Comune e i suoi organismi competenti a destinare gli alloggi a chi ne aveva diritto ma la “legge del più forte”. Ci si è impadroniti delle case che restavano vuote per un certo periodo e questo criterio dura fino ai nostri giorni.
Le persone ‘normali’, quelle che si sono ritrovate a subire uno sfratto, invece, vivono il ricordo dei loro quartieri di origine con nostalgia, non sentendosi mai a casa loro ma piuttosto vivendo una sensazione di “deportazione” per usare l’espressione, che non ho mai dimenticato, di una signora abitante nel quartiere. E’ evidente che vivere in torri di 14 piani con 150 condòmini, con più persone agli arresti domiciliari, con spaccio di droga nell’androne, con immondizia buttata in ogni parte non aiuta, anzi facilita l’aumento delle situazioni di degrado umano. Sicuramente i bambini, i giovani e i ragazzi che stanno diverse ore in strada, anche solo per giocare, rischiano di entrare in giri molto pericolosi (es. spaccio di droga, microcriminalità…). Le famiglie più sane arrivano a non far uscire mai i figli da casa, con conseguenze facilmente immaginabili.

A livello pastorale,
anche se questo può spaventare, è necessario essere vicini a tutti, sani e malati, onesti e delinquenti, ricordando che sceglie di commettere reati è ‘povero due volte’. Ma anche a chi è solo, a chi è anziano… Per i più piccoli vanno creati (e qui la parrocchia può fare molto) degli spazi alternativi, degli oratori seri, guidati, degli spazi educativi pieni, non vuoti e non solo dei campi da gioco da aprire e chiudere ad orario. In ambienti dove la casa non è propriamente il “focolare domestico” che tutti vorremmo, le parrocchie possono offrire dei “centri diurni”, dove accogliere tutto il pomeriggio, per i compiti, per mangiare, ma anche il vestirsi, i più piccoli. Un cortile o un campetto d’oratorio non dovrebbe mai rimanere senza un animatore giovane o adulto (meglio se insieme) capaci di ‘farsi rispettare’ da ragazzini (sempre più agguerriti e poco educati) ma anche di saper educare. Al di la di facili slogan tutti percepiamo l’emergenza educativa ma capiamo quanto sia difficile farsi seguire dai più giovani. Non bisogna aspettare che i nostri ragazzi abbiano 18 o 20 anni, dobbiamo intercettarli prima, dobbiamo evitare in ogni modo che si allontanino dai nostri occhi (anche se non verranno a messa tutte le domeniche), dobbiamo continuare a tessere un dialogo con loro, anche incontrandoli nei loro spazi (bar, sale giochi o centri sportivi che siano).

Sempre nella Laudato Si, al numero 150, il Papa afferma come “la pianificazione urbanistica debba tener conto del punto di vista degli abitanti” e come sia necessario “curare gli spazi pubblici (…) e i punti di riferimento urbani che accrescono il nostro senso di appartenenza, la nostra sensazione di radicamento, il nostro ‘sentirci a casa’ all’interno della città che ci contiene e ci unisce”. Da Vescovo del settore Sud di Roma cosa a suo avviso potrebbe consentire di raggiungere questo obiettivo? Quali sono le responsabilità degli amministratori locali, dei cittadini e dei credenti anche appartenenti ad altre religioni?

Senza ripetere luoghi comuni c’è innanzitutto da dire che la politica è sradicata, è lontana dal vissuto delle persone. Quasi nessuno sente chi ci governa (il governo locale come quello nazionale) come una risorsa a cui attingere, come una “squadra di servizio” al cittadino ma come un nemico da cui difendersi e tutelarsi. Senza un dialogo stretto tra istituzione e cittadino non ci sarà mai questa interrelazione, questo aiutare ed essere aiutati dall’istituzione. Anzi: si percepirà la dolorosa sensazione dell’assenza (…i governanti non fanno niente…!) e ci si staccherà sempre di più da una partecipazione attiva alla ‘res publica’ senza la quale non si va da nessuna parte. Ci sono delle responsabilità oggettive nella (a volte perversa) gestione dei beni (e del denaro) pubblici ma più il cittadino si allontana e più la politica diventa egoista, centrata su se stessa, autoreferenziale (per usare un termine molto in voga) e, ripeto, si crea un circolo vizioso da cui è quasi impossibile uscire. Nessuno ti ascolta e nessuno sente più la responsabilità (e il diritto) di farsi ascoltare. Da credenti non possiamo farci intrappolare da questo sistema, restare a guardare.
Non so se oggi è il tempo di un impegno attivo in politica per il cristiano (sembra che chi ci prova o resta schiacciato, o si compromette o se ne va). Dovremmo, però, a partire dalle realtà locali, non aver paura di una politica fatta (non perché vadano imposti i nostri criteri o i nostri valori) per il bene pubblico, per un bene che superi i confini del “mio e tuo” e arrivi al “nostro”, orientata a migliorare sul serio la vita e il benessere di un quartiere. Mi auguro di sbagliare ma mi sembra che siano fallite le cosiddette ‘scuole di formazione politica’ secondo la dottrina sociale della chiesa. Ma in questo modo anche l’annuncio del Vangelo è inefficace perché resta nei limiti di uno spiritualismo intellettuale (quando va bene) se non diventa uno sterile devozionalismo.
Anche membri appartenenti ad altre confessioni religiose, siano essi immigrati o no hanno il dovere di dare il loro contributo, superando quella tendenza a vivere il loro essere minoranza in modo chiuso ed egoistico.


A suo avviso quali fattori possono contribuire al miglioramento integrale nella qualità della vita umana in città come Roma? Quale ruolo può avere la Chiesa?

Leggere la realtà, conoscere il territorio e le persone che lo abitano è fondamentale. E’ il primo passo per amarlo. E’ importante saper leggere e rispettare il territorio avendo la pazienza di preparare il terreno. Prima di annunciare il Vangelo, o ‘seminare’, secondo l’immagine della nota parabola, è necessario preparare il terreno, che si traduce con l’entrare in una dinamica relazionale positiva. Ogni sacerdote, parroco o viceparroco deve essere consapevole che la parrocchia esiste prima e dopo di lui. Un sacerdote che arriva in una parrocchia, deve innanzitutto cercare di farsi conoscere e di conoscere lui stesso le situazioni, le persone, la storia del quartiere e della gente come anche le fatiche di chi lo ha preceduto nel ministero: solo dopo potrà avviare una promozione e una animazione gioiosa e generosa del quartiere e della comunità che lo abita annunciando ‘esplicitamente’ il Vangelo “opportunamente e inopportunamente”, come direbbe San Paolo.

Non ci sono tempi stabiliti per questo itinerario: dovrà essere il buon senso, il ‘fiuto’, ma anche il rispetto del parroco ad accorgersi di questo. Sarà molto importante per lui chiedere consiglio, a chi lo ha preceduto, a qualche laico maturo… All’inizio è naturale che ci si avvarrà dell’aiuto dei più vicini, dei frequentanti più assidui ma non bisognerà in nessun modo discriminare gli altri, quelli più lontani. Verso questi sarà necessario trovare forme di avvicinamento diverse, attraverso altri strumenti, come la cultura, l’arte ma anche attraverso una carità esplicita e fattiva che può trovare risposte molto edificanti anche da parte di chi non è così ‘fervente’ nella fede (o crede di non esserlo). E’ da questa prossimità che potrà nascere o risbocciare quella ‘nostalgia di Dio’ che tutti gli esseri umani portano dentro. E’ questo il nostro compito come ‘pastori’, sacerdoti o vescovi, come guide del popolo di Dio che a loro volta sanno di dover seguire “l’unico Pastore e Maestro”, Gesù. Le parrocchie possono dare un grande contributo per il miglioramento della qualità della vita delle persone proprio sul terreno della qualità delle relazioni.

Infine le chiedo di darmi un’immagine di quella che, secondo lei, dovrebbe essere la Chiesa e la città di Roma.

L’immagine della “porta aperta” sulla strada è quella che potrebbe descrivere la città, la Chiesa di Roma nel suo insieme ma anche ogni parrocchia. Non a caso ogni Giubileo inizia con l’apertura di una (o più porte). Roma è una città che da sempre (come Gerusalemme) è stata un crocevia di culture, una città dove tutto il mondo passa. Di questo dobbiamo essere orgogliosi. Ma nessuno dovrebbe andar via da Roma e rimanere come è entrato. Mi piacerebbe (ma senza sognare) che tutte (o quasi) le chiese fossero sempre aperte, segni di una accoglienza “primaziale” (la chiesa di Roma ha il primato della carità).

Il Colosseo, come monumento caratterizzante della città, è adatto a descrivere questa immagine con le sue aperture da ogni lato…. Purtroppo oggi Roma è un città che ‘soffre’, dove ogni cosa è un problema, dove ogni situazione da affrontare, anche la più semplice, diventa un dramma… E questo per tante incapacità-incompetenze diffuse, per la famosa, sempre denigrata ma mai superata burocrazia… Dobbiamo recuperare qualcosa che è nel DNA delle nostra città e della nostra fede: la capacità di accogliere e di essere aperti a tutti. San Pietro e San Paolo scelgono di venire a Roma per portare l’annuncio di Cristo nel cuore dell’Impero Romano, per testimoniare la propria fede fini al martirio. Roma è a capo della carità. La carità rimane la dimensione costitutiva del nostro essere cristiani che vivono nella città eterna.

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