La libera espressione della differenza femminile evoca la possibilità che gli oppressi (le oppresse) liberandosi possano liberare anche gli oppressori. Infatti, la promessa più vera del Sessantotto delle donne può riguardare la possibilità di aprire gli spazi ad una libertà maschile finalmente estranea alle logiche del potere e della violenza. Quanto ce ne sia bisogno, ce lo dice la triste e drammatica cronaca di ogni giorno

Una rivolta nella rivolta. Anticipiamo con questa sintetica formula il nucleo dell’analisi (sia pure, per limiti di spazio, non approfondita) che vogliamo condurre in questo intervento a proposito del rapporto tra le donne e il Sessantotto. Occorre infatti riconoscere che la rivoluzione di quell’anno – o meglio degli anni che lo precedono e lo seguono – ha con il contemporaneo processo di liberazione femminile un legame complesso. In parte di filiazione, in parte di oltrepassamento. Se la nota dominante di questi intrecciati, e solo parzialmente sovrapponibili, processi (quello dei giovani e quello delle donne, per semplificare e ridurre ai “generi” e alle “generazioni” le soggettività che irruppero sulla scena pubblica) è certamente un moto antiautoritario che “uccise i padri”, non c’è dubbio che le donne complicarono il conflitto, modificando radicalmente la rappresentazione e l’autorappresentazione dei soggetti della relazione sessuale (cfr. Elda Guerra e Elena Musiani, I movimenti delle donne dopo il 68: eredità o rottura in Storiaefuturo.it).

Fu in quel giro di anni – tra i Sessanta e i Settanta – che maturò un neofemminismo, distinto nei riferimenti teorici e nelle pratiche discorsive da un femminismo dell’emancipazione che sostanzialmente aveva segnato l’intera modernità, dagli albori illuministici (O. De Gouges) al suffragismo ottocentesco e novecentesco. Era stato quello un movimento teso anzitutto alla conquista dei diritti civili e politici (di cui quello del voto fu simbolo) che aveva come retroterra il paradigma dell’uguaglianza, ovvero il raggiungimento della parità uomo-donna nella sfera economica, sociale, politica.

La dimensione emancipazionistica non si esaurì, anzi diede luogo ad una serie di conquiste normative e giuridiche che, per restare al solo ambito italiano, misero capo ad una nuova legislazione destinata a modificare profondamente la vita sociale e democratica del nostro paese. Dalla promulgazione della legge sul divorzio (1970) al nuovo diritto di famiglia (1975), dalla istituzione dei consultori familiari (1975), alla legge di regolamentazione dell’aborto del 1978, confermata con referendum nel 1981, alla legge del 1977 sulla parità nel lavoro. Basta una superficiale lettura dei “titoli” di questa normativa per rendersi conto che essa riguardava temi e problemi della condizione femminile e in generale della società, di diverso tenore, spessore, rilievo problematico. Certamente il legislatore seguì in qualche misura l’onda potente della rivolta e della discontinuità sessantottina, così come le diverse espressioni della società e le stesse formazioni politiche risposero con affanno alla pressione di questi “soggetti imprevisti” (i giovani e le donne) sulle strutture tradizionali che – dalla scuola alla famiglia – avevano retto e in qualche modo resistito alla turbolenta modernizzazione italiana del lungo dopoguerra.

Tuttavia, riteniamo che non è solo e tanto a questo orizzonte della democrazia formale e della codificazione legislativa che occorre guardare per comprendere il “Sessantotto delle donne”. Si trattò di una vera e propria rivoluzione culturale, di lungo periodo e di profonda incidenza sulla vita e sul suo significato, della quale osserviamo ancora le conseguenze e, diciamolo subito, le inadempienze. Proviamo ad indicarne i tratti salienti.

Le donne si organizzarono dando vita a gruppi di piccole dimensioni che ben presto ritennero necessario il metodo separatista. Nato negli USA ed esportato in Francia (dove la non-mixité ebbe nella rivista Partisans il suo organo di diffusione) il separatismo dei gruppi femministi riconosceva che l’appartenenza alla soggettività femminile implicava un radicale ripensamento dell’identità delle donne costruita dal “discorso maschile”, nell’immaginario e (si badi bene) nella scienza. La pratica separatista individuava la genesi della libertà femminile nel partire da sé – altra espressione forte di questa contro-cultura – che istituiva nuovi linguaggi, nuovi rapporti tra corpo e parola, nuova indipendenza simbolica delle donne. E’ opportuno sottolineare il carattere collettivo, o meglio associativo di questa esperienza delle donne: il soggetto femminile si affaccia sul proscenio della storia come un noi, che trae da questa relazionalità la sua forza e la sua capacità di “mettere al mondo il mondo” (come si disse con efficace espressione).

Il neofemminismo, superando il paradigma egualitario e la direttrice emancipazionistica, era dunque figlio del moto contestativo del Sessantotto e della sue istanze libertarie ma veniva scoprendo un più radicale senso della libertà femminile e della liberazione delle donne che metteva in discussione l’intero assetto delle relazioni sociali, a partire da quella esistente tra uomini e donne. Tra gli “oppressi” c’erano, più ancora da liberare, le oppresse, e questo scoperchiava letteralmente la sfera della domesticità, di cui si veniva svelando la struttura patriarcale dei rapporti, della divisione dei ruoli, delle dinamiche relazionali. Fu allora che si proclamò che “il personale è politico”, abbattendo una dicotomia – quella tra sfera pubblica e sfera privata – su cui si era costruito l’intero sistema della cittadinanza moderna. E lo stesso mondo politico-partitico, lo stesso sistema di distribuzione del potere, che sulla differenza sessuale aveva edificato la supremazia maschile e le regole stesse del funzionamento della vita pubblica.

Riteniamo tuttavia che il tratto più innovativo di questo neofemminismo (post)sessantottino fu l’irruzione della categoria della differenza come valore. Scriveva Carla Lonzi nel Manifesto del gruppo “Rivolta femminile” da lei fondato, nel 1970 (il vero anno-zero del movimento delle donn e di questa svolta epocale): “La donna non va definita in rapporto all’uomo…L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna. La donna è l’altro rispetto all’uomo. L’uomo è l’altro rispetto alla donna (corsivo nostro)”.

Per questa via, le donne si inserirono nel Sessantotto dapprima come un soggetto complementare (i famosi “angeli del ciclostile”) e poi con una postura sempre più autonoma, indipendente, riconoscibile. Forse fu quella loro, la rivoluzione culturale più profonda e più gravida di futuro. E forse anche per questo, quanto di quella rivoluzione attende ancora il compimento o, peggio, rischia l’arretramento, è il capo d’accusa più grave che si possa muovere a quell’anno “formidabile” circa la sua concreta capacità di mantenere le promesse di cambiare il mondo.

Ci preme infine sottolineare una fondamentale diversità tra il 68 maschile e il post-68 femminile. Se il primo fu essenzialmente una “rivolta contro i padri” (dalla quale secondo alcuni studiosi discende l’attuale evaporazione della figura paterna) e un moto antiautoriatario che prendeva le mosse dal pensiero critico francofortese, il femminismo della differenza produceva negli anni un esito in qualche misura opposto. E’ nel suo solco che nasce la rivalutazione della madre (L. Muraro) come figura fondamentale, che insieme alla vita ci dà anche la lingua materna, ovvero un diverso e originario ordine simbolico che ci garantisce che il mondo ha un senso, che esiste un rapporto tra le parole e l’esperienza. Questa lingua materna è relazionale e affettiva, nasce all’interno di una disparità non gerarchica, che rende possibile un’autorità generativa, non opprimente e, per dire così, transitiva.

Ci pare che questa scoperta della madre come origine della nostra possibilità di gettare ponti tra la nostra esperienza del mondo e il linguaggio, questa autorità materna che, attraverso il confine labile ma tracciabile con il potere, si rivela come una forza generativa, sia il guadagno più interessante della rivoluzione femminile di questi ultimi decenni. Un contro-potere e un contro-discorso che sembra avere cura della vita, mortificata in senso mercantile e individualistico in questa tarda modernità.

Infine, la libera espressione della differenza femminile pare evocare la possibilità che gli oppressi (le oppresse) liberandosi possano liberare anche gli oppressori. In altri termini la promessa più vera del Sessantotto delle donne può riguardare la possibilità di aprire gli spazi ad una libertà maschile finalmente estranea alle logiche del potere e della violenza. Quanto ce ne sia bisogno, ce lo dice la triste e drammatica cronaca di ogni giorno.

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