Nel 2018 la Legge 180 compie 40 anni, 70 anni la Costituzione e 50 anni il ‘68. Eventi con un comune filo rosso: la lotta per i diritti di cittadinanza e l’uguaglianza per tutte e tutti. La Legge 180 è promulgata il 13 maggio 1978, quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani.
La 180 sancisce la chiusura dei manicomi, la fine del binomio malattia mentale/pericolosità sociale, l’entrata delle persone con disturbo mentale nella cittadinanza sociale. Prevede di norma la volontarietà della cura, di contro alla Legge 36 del 1904 Disposizioni sui manicomi e sugli alienati che prevedeva il ricovero coatto per il malato di mente “pericoloso a se e agli altri e di pubblico scandalo”. Solo in casi estremi, definiti per legge, si può ricorrere al Trattamento sanitario obbligatorio, ma anche in questo caso la persona non perde i diritti, tra cui quello di votare, di comunicare con chi voglia, di richiedere la revoca del trattamento.
Non più quindi “alienati” pericolosi da segregare, vigilare e custodire, incomprensibili, inguaribili, destinati alla cronicità, ma persone, con dignità, diritti e risorse, da curare, supportare, valorizzare, includere. Non più uno statuto speciale per il malato di mente ma questi diventa cittadino, soggetto di diritti fondamentali, inviolabili.
Il focus si sposta dall’ospedale al territorio: non più l’internamento senza fine negli ospedali psichiatrici ma la presa in carico dei soggetti nei luoghi naturali di vita, in servizi nella comunità, aperti, attraversabili. La Legge 180, come dice Franco Basaglia, è alla fine “solo l’inserimento nella normativa sanitaria di un elemento civile e costituzionale”.
Trieste è stata, dopo Gorizia e Colorno, la città della deistituzionalizzazione. Franco Basaglia prende la direzione del manicomio di Trieste nell’agosto del 1971, chiamato dal presidente della Provincia, Michele Zanetti. Un grande manicomio con 1200 internati, per la maggior parte coatti, negati nei diritti civili e politici, silenziati e deprivati di soggettività, oggetti di custodia e di annientamento, non di cura. Il gruppo di lavoro che si forma intorno a Franco Basaglia è costituito da giovani medici non ancora contaminati dalla psichiatria custodialistica manicomiale e da operatori volontari, italiani e stranieri, motivati a vivere una esperienza di impegno antistituzionale.
L’Europa e il mondo in quegli anni sono attraversati da un vento forte di cambiamento, per l’emancipazione dei soggetti socialmente più vulnerabili, per l’eguaglianza delle opportunità, per la ridistribuzione dei poteri, per l’affermazione dei diritti. Basaglia opera da subito a Trieste per la chiusura del manicomio e l’organizzazione di servizi nella comunità capaci di rispondere alla domanda di salute mentale. Il processo di deistituzionalizzazione mette al centro i diritti delle persone e prende avvio dall’abolizione delle pratiche di limitazione delle libertà personali, di violazione dei corpi, dalla fine della segregazione e della separazione tra dentro e fuori. Atti prioritari che richiedono presenza, responsabilità, alleanze, lavoro collettivo. Per contrastare e vincere le paure che sempre si producono nel cambiamento degli internati e la preoccupazione degli infermieri di essere lasciati soli nei reparti a gestire le contraddizioni che derivano dalla restituzione dei diritti. Per liberare gli operatori dalla responsabilità della custodia e promuovere rapporti di presa in carico e di cura.
In quegli anni, l’assunto di base che fonda l’impegno contro le pratiche della psichiatria manicomiale, violenta, segregante e contenitiva è la convinzione che la libertà è terapeutica.
Marco Cavallo, il grande Cavallo azzurro di cartapesta costruito nei primi mesi del ‘73, nel primo reparto chiuso del San Giovanni, nella cui pancia sono depositati i desideri dei ricoverati, nell’ultima domenica ventosa di febbraio, esce dal manicomio. e attraversa la città. Un corteo di seicento persone, ricoverati, operatori, lavoratori, volontari, segue il Cavallo. Simbolo della libertà riconquistata degli esclusi, è pure denuncia delle condizioni materiali degradate in cui versano i ricoverati e i lavoratori nel manicomio.
In quegli anni si lavora con i lungodegenti per restituire loro diritti e soggettività, per la ricostruzione delle storie, per l’uscita dai reparti e dal manicomio, con i nuovi ricoverati, contro la perdita dei legami familiari e sociali e l’avvio di una carriera istituzionale, per un ritorno precoce a casa, seguiti e supportati dagli operatori nei loro ambienti di vita.
Dal 1975 al 1977, in tutta l’area della provincia di Trieste, vengono aperti sette Centri di salute mentale, servizi di prossimità che, in un territorio e su una popolazione definiti, supportano le persone dimesse dal manicomio e rispondono alla domanda di salute mentale della cittadinanza, contrastando l’invio in Ospedale psichiatrico. Nel gennaio 1977 Franco Basaglia in un’affollata conferenza stampa annuncia la chiusura dell’ospedale psichiatrico. In quel momento sono ancora presenti in ospedale circa 500 persone, ma il processo di decostruzione dell’istituto è consolidato, senza possibilità di ritorno e nel territorio è attiva la rete dei servizi alternativi al manicomio. Nel marzo del 1980 l’ospedale psichiatrico di Trieste cessa nelle sue funzioni, primo manicomio al mondo. Nel 1999 chiuderà in Italia l’ultimo ospedale psichiatrico, quello di Santa Maria della Pietà a Roma. Alla fine degli anni sessanta, erano più di 100mila le ricoverate e i ricoverati negli 86 ospedali psichiatrici pubblici.
Oggi l’Italia è un paese senza manicomi e in tutto il territorio nazionale è costituita la rete dei servizi di salute mentale. Nessuno chiede il ritorno al manicomio, ma qualità nella presa in carico e nella cura. Le persone con disturbo mentale hanno opportunità, protagonismo e diritti. I familiari sono interlocutori dei governi locali e di quello centrale. L’impegno per la salute mentale della e nella comunità, oltre ai professionali, si è allargato ad altri soggetti, associazioni culturali e sociali, gruppi formali ed informali, cooperative di inserimento lavorativo e di servizi, professori, intellettuali, imprenditori.
È mutata la rappresentazione sociale della sofferenza mentale. Questa è sempre più vista come condizione umana che ci attraversa e ci riguarda. Nelle pratiche più avanzate, ma anche secondo gli attuali indirizzi scientifici, la presa in carico e la cura non riguardano la malattia ma la persona con sofferenza nella sua complessità di bisogni e inserita nel suo contesto familiare e sociale. Sapendo che i fattori di contesto, quelli legati alle relazioni, alla vulnerabilità sociale influenzano il decorso della malattia molto più dei fattori biologici e clinici. Il permanere di pregiudizi nei confronti del malato di mente risulta per lo più collegato a modalità di cura contenitive e segreganti attuate ancora in alcuni servizi psichiatrici.
Ma pure oggi, nell’attuale impoverimento sociale, culturale, assistiamo di nuovo al ritorno al riduzionismo biologico medico, al ritorno alle psichiatrie delle diagnosi e del farmaco. Al permanere, o al riproporsi, di sacche di abbandono e di pratiche di violazione dei diritti. In alcune aree del paese, fino all’80% del budget della salute mentale è per la residenzialità sulle 24 ore, impoverendosi le risorse per il lavoro territoriale dei Centri di salute mentale, per i progetti terapeutici riabilitativi individuali, per i progetti di inclusione sociale e lavorativa. Appare in salita la strada per la piena partecipazione delle persone con problema di salute mentale nelle istituzioni deputate alla cura. Ancora l’Università forma operatori all’interno di una cultura bio medica e separata dalla realtà dei servizi. Tanto più nell’attuale scarsità delle risorse per la salute mentale, dobbiamo con attenzione porci il problema di come le risorse si spendono e intervenire quindi sul modello organizzativo dei servizi.
Il 2018 volge al termine lasciandoci un bagaglio pesante di responsabilità. Se non si è trattato di inutili “celebrazioni” ma si è voluto fare il punto su dove siamo in questo percorso di democrazia e su come andare avanti, dobbiamo riconoscere che il percorso è ancora lungo ed irto di difficoltà. Molto ancora rimane da fare in riferimento alle culture, ai paradigmi di riferimento, ai modelli organizzativi, alla qualità dei servizi, alle pratiche, agli stili operativi, ai progetti di inclusione. Ma pure guardiamo con fiducia alle tante realtà che nel nostro paese lavorano per l’accesso alla cittadinanza per tutti, convinti che dobbiamo continuare a testimoniare, anche in questi tempi bui, ognuno nelle sue quotidiane pratiche, che è possibile costruire luoghi e spazi di cura, di emancipazione, di inclusione, di relazioni reciproche, di non violazione dei diritti, di accoglienza di costruzione quindi di una città solidale e che cura.
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