“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere” (Franco Basaglia, Che cos’é la Psichiatria, Baldini Castoldi 1967)
Ho deciso di iniziare il mio editoriale citando una frase di Franco Basaglia perché esprime molto bene il senso della nostra scelta di dedicare questo focus al tema della salute mentale, con una attenzione particolare al disagio mentale.
Vogliamo in modo esplicito collegarci al pensiero e alla figura Franco Basaglia che abbiamo ricordato anche nell’ambito dell’Incontro nazionale di studi delle Acli (Trieste 13-15 settembre 2018) e dare rilievo ad una ricorrenza significativa: i quarant’anni dalla legge 180 del 1978 nota appunto come “legge Basaglia”.
Quando Franco Basaglia nel 1973 rompe con una panchina di ghisa la recinzione del manicomio di Trieste permettendo a Marco Cavallo (la grande statua di cartapesta del cavallo azzurro che rappresentava l’animale adottato dal nosocomio psichiatrico l’anno precedente salvandolo dal macello) e ai 600 “matti” dell’ospedale di vedere la luce del sole avvia una rivoluzione culturale che sfocia nella legge 180 del 1978, con la quale viene abolita l‘istituzione del manicomio, ridando ai pazienti psichiatrici la dignità di esseri umani.
Prima della legge 180 vigeva la legge 36 del 1904, per la quale venivano internate nei manicomi le persone “affette per qualunque causa da alienazione mentale”. Dopo un periodo di osservazione, i pazienti potevano essere ricoverati definitivamente, perdevano i diritti civili ed erano iscritti nel casellario penale.
Franco Rotelli, psichiatra e presidente della Commissione Sanità del Friuli Venezia Giulia, che nel 1980 succedette a Basaglia alla direzione dei servizi di salute mentale triestini, sottolinea come ancora oggi il disagio mentale non venga affrontato in maniera olistica e come i soggetti più deboli vengano curati da un sistema sanitario non in grado di gestire i 2 milioni di persone che ogni anno in Italia si ammalano in maniera grave a livello psichiatrico (tralasciando le migliaia di persone che soffrono di ansia, depressione o disturbi della personalità).
Basaglia, 40 anni fa, aveva già intuito tutto questo cercando di lavorare educando le “comunità terapeutiche”. Non basta, infatti, curare il malato, ma bisogna operare a livello terapeutico sul contesto sociale nel quale la persona vive, che si tratti della famiglia, del posto di lavoro o della scuola.
La chiusura dei manicomi, 40 anni fa, è stata la prima pedina di un domino socio-culturale non ancora finito, che sposta le tessere, le responsabilità e le possibili soluzioni tra le istituzioni, la famiglia, gli assistenti sociali e i malati ma finché la terapia non verrà considerata a livello olistico e inclusiva di tutte le sfere dell’essere umano il malato mentale sarà sempre considerato un folle, un pazzo o nel migliore dei casi un poeta.
Il nostro obiettivo è quindi quello di capire come sono cambiate la considerazione sociale e la cura del disagio mentale in Italia. Vogliamo però anche allargare l’orizzonte perché oggi il tema della salute mentale va visto in una positiva più ampia. Come sostiene Ehrenberg la malattia mentale è stata un tempo considerata come una maledizione, poi è diventata una “cosa” da curare e adesso esprime un male della società con cui è necessario fare i conti. E se ne devono occupare tutti. Bisogna convivere con questo male perché la salute mentale e la malattia sono una cosa unica; la vulnerabilità è la nostra nuova condizione.
Abbiamo chiesto ad alcuni esperti e persone che conoscono molto bene il tema del disagio mentale di rispondere ad una serie di domande: A 40 anni dalla legge Basaglia come sono cambiate la rappresentazione sociale e la cura del disagio mentale? Quali nuove forme sta assumendo questo fenomeno? Quali sono i limiti e le carenze dell’attuale sistema sanitario? Come e perché operare a livello terapeutico sul contesto sociale nel quale la persona in disagio vive (famiglia, lavoro, scuola ecc..)? Come valorizzare il ruolo del volontariato, del terzo settore e della formazione professionale (rivolta agli operatori del settore)? In che modo è possibile sostenere le famiglie?
Iniziamo con Erica Mastrociani (Consigliere della Presidenza nazionale Acli con delega alla formazione e alla cultura) che ci racconta la storia di Bianca (la sorella di sua nonna Ada), una “donna buona”, entrata all’Ospedale psichiatrico provinciale di Trieste negli anni 30.
Angelo Righetti (Medico psichiatra e Responsabile di salute mentale della Conferenza Permanente Partenariato Euromediterraneo) – che ha collaborato con Basaglia alla preparazione delle linee direttrici della legge 180 del 1978 – sostiene come sia “la forza del desiderio di inclusione, il voler essere utili agli altri che genera l’innovazione, la bellezza e il senso. Rende concrete e confrontabili le pratiche esperienze ed aumenta il capitale sociale e la coesione delle comunità”.
Per Vincenzo Antonelli (Docente di diritto amministrativo presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e Centro Studi Azione Cattolica Italiana) “la sfida da percorrere è quella di alimentare condizioni sociali capaci di impedire o almeno limitare la diffusione del disagio psichico. La promozione della qualità della convivenza e sul piano giuridico della cittadinanza può produrre una nuova salute mentale “diffusa”. Ciò dovrebbe spingere a ripensare le soluzioni organizzative sino ad oggi adottate nell’ambito del SSN ed in particolare il modello dipartimentale”.
Giovanna Del Giudice (Medico psichiatra, Presidente dell’associazione Conferenza permanente Franco Basaglia per la salute mentale nel mondo), dopo aver fatto memoria della stagione che ha dato vita alla legge Basaglia, fa il punto della situazione sottolineando come “nell’attuale impoverimento sociale, culturale, assistiamo di nuovo al ritorno al riduzionismo biologico medico, al ritorno alle psichiatrie delle diagnosi e del farmaco“. Una deriva da evitare concentrandosi su quello che “ancora rimane da fare in riferimento alle culture, ai paradigmi di riferimento, ai modelli organizzativi, alla qualità dei servizi, alle pratiche, agli stili operativi, ai progetti di inclusione“. Solo in questo modo è possibile raccogliere pienamente l’eredità di Franco Basaglia.
Andreina Garella (Regista teatrale) ci racconta la sua esperienza e quella del gruppo teatrale Festina Lente, osservando come “il teatro ci spinge a conquistare un più dignitoso livello di vita, ad imporre all’esterno rispetto morale e culturale, ad abbattere i confini tra normale e anormale, tra salute e malattia, tra esclusione e integrazione“.
E per metà novembre avremo i contributi di Lucio Rinaldi (Responsabile UOS Day-Hospital di Psichiatria dell’ospedale Gemelli di Roma), Gino Mazzoli (AD Praxis Srl – Esperto di welfare e processi partecipativi e docente presso Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) e Don Paolo Ricciardi (Vescovo Ausiliare della Diocesi di Roma Delegato Centro per la Pastorale Sanitaria).
Ed infine proponiamo alcune poesie di Alda Merini, una donna che ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza drammatica del manicomio, restituendola con straordinaria efficacia nella sua bellissima narrazione poetica.
Concludo con un cenno al titolo scelto che prendiamo in prestito da una canzone di Ligabue: “Urlando contro il cielo”. Spesso al disagio mentale associamo l’immagine dell’urlo, della disperazione che vivono questi malati. Un urlo che arriva a Dio. Alda Merini in una sua poesia dice, riferendosi a Gesù: “un pazzo che urlava al Cielo tutto il suo amore in Dio”.
Credo che il nostro compito sia proprio quello di urlare al cielo il nostro amore verso queste persone, la nostra vicinanza allo loro famiglie, il nostro desiderio di non lasciarle solo in un urlo disperato che nessuno è capace di ascoltare.
Tags: Alda Merini Basaglia disagio mentale legge Basaglia salute mentale