Pre-distribuzione e governo di impresa
Due dei candidati più in vista alle primarie democratiche per le prossime elezioni presidenziali In USA, Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, propongono nelle loro piattaforme forme di democrazia economica che cambierebbero radicalmente l’assetto del governo di impresa nel paese che, a torto o ragione, viene considerato centro irradiatore del modello della “massimizzazione del valore per gli azionisti” e del primato della finanza sull’economia reale. Mentre Sanders proporne un fondo nazionale in grado dare ai lavoratori accesso (parziale) alla proprietà delle corporation, la Warren (più coerentemente) propone di introdurre forme di partecipazione dei lavoratori (in quanto tali, non in quanto azionisti) al governo d’impresa ispirate all’esperienza della co-determinazione tedesca. Proposte in passato impensabili per gli Stati Uniti.
In Italia, nel silenzio assordante sui temi della lotta alle diseguaglianze da parte della politica democratica, di sinistra o riformista, ma anche dei movimenti c.d. “populisti”, una proposta, secondo me più meditata di entrambe le suddette, è stata avanzata dal Forum sulle diseguaglianze e le diversità, cioè la costituzione dei consigli del lavoro e di cittadinanza nell’impresa (CLC) (Proposta n. 13).
Tali proposte (al di là delle differenze) nascono dall’acuta consapevolezza dei meccanismi che generano l’esplosione delle diseguaglianze nei paesi “sviluppati”, ben descritta dal grafico dell’ “elefante di Branko Milanovic”, che mostra come negli ultimi (ormai ) 25 anni le classi di basso reddito non abbiano avuto alcun guadagno percentuale di reddito dal processo di globalizzazione economica, mentre coloro che già stavano al vertice della distribuzione del reddito hanno avuto incrementi verticali (più elevati maggiore era la posizione di partenza). Vi è stato un netto spostamento dai redditi di lavoro ai redditi da capitale, indipendente dalla dinamica della produttività del lavoro; e nei redditi da lavoro vi è stata una polarizzazione a favore delle posizioni manageriali apicali, o dei vertici di organizzazioni professionali che influiscono sulle decisioni finanziarie o di acquisizione e sfruttamento di brevetti tecnologici da parte di imprese e istituzioni. Molte di queste posizioni si autoassegnano remunerazioni del “lavoro” legate alla dinamica (se positiva) dello shareholder value.
Sulla diseguaglianza ha importante effetto la politica redistributiva del welfare state, attraverso la leva fiscale. Tuttavia essa non è in grado di correggere significativamente una sproporzionata disuguaglianza nei redditi “di mercato”, che si forma prima, (i) per effetto della diseguale distribuzione della proprietà e controllo su risorse, capacità e diritti, (ii) e che viene poi amplificata mediante i meccanismi di mercato e delle istituzioni che operano nel mercato – soprattutto le imprese – che non sono affatto neutrali rispetto alla distribuzione della ricchezza e del reddito. Ciò accade effettivamente non solo per effetto della diversa qualificazoine professionale e scolastica dei partecipanti al mercato del lavoro, ma per il fatto che una distribuzione iniziale diseguale dei diritti di controllo e di presa delle decisioni nelle imprese genera diseguaglianze di reddito e amplifica quelle di ricchezza, ben oltre ogni livello giustificabile in termini di merito o contributo personale. Se dunque si vuol porre freno alle diseguaglianze bisogna operare non solo sulla re-distribuzione (via leva fiscale) ma sulla pre-distribuzione di risorse, capacità e diritti (di proprietà, di decisione o partecipazione) con i quali gli individui entrano nelle attività di mercato e che plasmano il funzionamento e gli esiti delle istituzioni di mercato – le imprese prima di tutto.
In caso contrario la redistribuzione si rivela uno sforzo di Sisifo o, come si può anche dire, si cade in una specie di paradosso della tela di Penelope: ciò che di giorno viene tessuto dalla mano visibile del welfare state, viene disfatto notte tempo dalla mano non invisibile, bensì nascosta delle istituzioni di mercato.
Vorrei essere chiaro: la strategia della pre-distribuzione non si limita a dare maggior forza contrattuale ai lavoratori, aumentandone qualificazione e l’occupabilità: buona scuola per tutti non è l’unica strategia. Il problema è l’allocazione del controllo, cioè a chi spettano i diritti di decisione che ammettono o escludono dalle risorse dell’impresa e si esercitano sulle scelte di distribuzione del valore creato attraverso l’impegno delle risorse e delle abilità dei lavoratori, e specialmente del loro capitale umano specifico. La diversa qualificazione fa certamente una differenza, ma non sufficiente per spiegare gli esiti distributivi. Ciò che conta è chi ha il diritto di prendere le decisioni su come il valore congiuntamente creato viene distribuito.
Per questo la prospettiva delle capabilities è così fruttuosa nel discorso sulla pre-distribuzione. Non si tratta solo di formare più abilità, ma assegnare più uguali capacità: intese come libertà di scegliere come utilizzare le abilità e quindi il modo di funzionare anche nella sfera del lavoro. Così da raggiungere elevati livelli di “stare e far bene” (well-being).
Tali capacità sono “libertà positive” dei lavoratori. Implicano pretese valide di non esclusione e partecipazione. E necessariamente limitano l’autorità derivante dalla proprietà, intesa come possibilità di disporre in modo esclusivo delle risorse fisiche dell’impresa. Il governo di impresa dovrebbe allora essere una forma di governo limitato e legittimo, che rispetta l’autonomia di ciascuno stakeholder (cittadino nell’impresa), primi tra tutti i lavoratori.
Si può capire che questo ragionamento (che impiega come teoria economica normativa l’approccio delle capacità di Sen) abbia implicazioni ostiche per economisti e giuristi indottrinati dal credo neoliberale: il governo di impresa è qui essenzialmente una questione di giustizia sociale, che viene prima dell’efficienza (su cui diremo comunque una parola a breve). L’uguale cittadinanza richiede un certo grado di capacità (libertà positiva) nella partecipazione al governo d’impresa. Il diritto privato e commerciale non sono immunizzati dalle richieste della giustizia sociale.
La proposta dei Consigli del Lavoro e della Cittadinanza
Queste premesse stanno alla base della proposta sui Consigli del lavoro e della Cittadinanza (CLC). In assenza di un’ampia riforma del diritto societario, la più nota forma di partecipazione dei lavoratori, la nomina di rappresentanti nell’organo amministrativo, rischierebbe d’essere inefficace a causa del principio che vincola gli amministratori al perseguimento dello scopo “sociale” inteso come interesse degli azionisti.
La forma di partecipazione proposta dal Forum DD (già ampiamente sperimentata in Germania e Olanda) è quindi quella dei Consigli del Lavoro (works council). Si tratta di organismi di rappresentanza istituzionalizzata dei lavoratori, al di fuori dell’organo amministrativo, e dunque sottratti al vincolo al perseguimento dell’interesse sociale (come definito), ma nondimeno intesi come parte della governance dell’impresa per i poteri e diritti legali di varia natura che sono loro attribuiti. Essi avrebbero un collegamento istituzionalizzato con l’organo amministrativo di vertice, tramite uno o più rappresentanti che partecipano alle riunioni del CdA, avendo diritto di parola e proposta su tutte le materie di interesse strategico, ma diritto di voto solo su determinati argomenti.
Rispetto alle esperienze europee la proposta del forum DD ha alcune importanti novità: l’unificazione nel consiglio di tutti i lavoratori che contribuiscono in modo rilevante alla creazione di valore da parte dell’impresa (o del distretto produttivo) indipendentemente dalle forme contrattuali, e la “voce” data nel consiglio ai rappresentanti di altri stakeholder. Infatti la nostra proposta prevede l’estensione dei consigli anche a livello di distretto, di rete contrattuale e di catena di subfornitura e a rappresentanti delle comunità locali su cui ricadono le conseguenze ambientali dell’attività di impresa, nonché dei consumatori o degli utenti. Per questo la denominazione è Consigli del Lavoro e di Cittadinanza nell’ impresa.
Per comprendere la portata della proposta, si considerino le materie di intervento del CLC: a) decisioni strategiche di ordine generale (nuovi prodotti, nuovi investimenti, cessioni e acquisizioni, innovazioni tecnologiche, assetti manageriali); b) scelte di interesse generale per i lavoratori, come piani di assunzione e riorganizzazioni a seguito di processi di innovazione; c) decisioni che riguardano in concreto gruppi di lavoratori. Su tutte queste materie il CLC eserciterebbe un diritto di informazione e di consultazione in tempo utile, che implica la facoltà di formulare controproposte con obbligo di risposta da parte della direzione, ma sulle ultime avrebbe in aggiunta un diritto di veto a meno che non si raggiunga un accordo pieno, cioè potere effettivo di co-decisione.
Non c’è chi non veda l’effetto di un simile cambiamento sulla forza negoziale del lavoro in varie situazioni critiche: si pensi alle recenti crisi aziendali Whirpool o Mercatone o alla cessione del marchio Pernigotti ad altri produttori. In tutti questi casi semplicemente non si sarebbe potuti arrivare alle decisioni unilaterali di chiusura, licenziamento o cessione. Poiché tali decisioni avrebbero dovuto passare attraverso un processo di formazione che prevede l’informazione, la consultazione e la risposta alle controproposte del CLC e alla fine sarebbero state bloccate se non accompagnate a programmi di riduzione del costo sociale della ristrutturazione, da formularsi ben prima di dichiarare i licenziamenti o la chiusura degli stabilimenti. Oppure si pensi al caso dell’Ilva di Taranto, ove la compresenza nella governance di lavoratori e rappresentanti del territorio che subisce l’impatto ambientale delle produzioni, avrebbe obbligato a intraprendere molto prima nel tempo progressive ristrutturazioni e riconversioni tecnologiche volte a rendere compatibili salute e lavoro.
Il consenso delle imprese
Perché allora non si procede in questa direzione? Qualche benevolo commentatore ha domandato quale sarebbe la convenienza delle imprese ad accettare un tale cambiamento. Qui temo che il ragionamento economico debba arricchirsi rispetto al mero ricorso al criterio del reciproco vantaggio (o efficienza nel senso di Pareto). In effetti, molti studi di teoria dell’impresa mostrano che forme di governo volte a garantire il bilanciamento equo tra gli stakeholder fondamentali sarebbero più efficienti di quelle unilaterali. Ciò è evidente, se si pensa che le governance unilaterali in un contesto di investimenti specifici multilaterali (incluso l’investimento in capitale umano specifico da parte dei lavoratori) porta con sé il rischio di abuso di autorità e quindi, assieme all’espropriazione, anche la caduta degli incentivi ad investire, e la conseguente perdita di opportunità di creazione congiunta di utilità.
L’economista giapponese di Stanford recentemente scomparso, Masahiko Aoki, ha mostrato come le corporation nipponiche più innovative e di successo siano caratterizzate da complementarietà tra le risorse cognitive dei lavoratori e del management, e dalla loro reciproca co-essenzialità (le decisioni dell’uno non hanno effetto senza la cooperazione degli altri) e che, rispetto a tale alleanza, i detentori delle risorse finanziarie possono al massimo svolgere una funzione di sorveglianza, ma non effettiva decisione residuale.
Eppure, se il punto di partenza è una governance gerarchica, ispirata al primato dell’azionista, la maggiore efficienza non basta a garantire l’adozione di una forma condivisa di governo. Semplicemente, a fronte del beneficio generale, può mancare l’incentivo privato. Una torta più grande nel lungo periodo può nondimeno offrire a chi ha inizialmente controllo residuale una fetta minore nel breve. A lungo andare ovviamente una strategia manageriale e imprenditoriale volta a garantire il bilanciamento equo tra stakeholder, può avere effetti di reputazione positivi. Ma di reputazioni ce ne sono molte possibili, e in presenza di radicale incertezza sul futuro ed eventi imprevedibili, sono indeterminate le stesse probabilità di poterne acquisire una in particolare.
Così di fatto abbiamo il persistere di forme di capitalismo differenti, caratterizzate da forme diverse di governo di impresa, che hanno proprietà di equilibrio e di stabilità in un dato contesto, senza essere le più efficienti in assoluto. Ciò che gli economisti chiamano equilibri istituzionali molteplici.
Ad esempio, il modello di co-determinazione centroeuropeo e scandinavo, o il modello giapponese coesistono col modello “shareholder value”, ideologicamente egemone nei paesi anglosassoni, cui l’Italia si è associata nettamente almeno dall’ultima riforma del diritto societario, e che è un fenomenale produttore di diseguaglianza. Non è l’efficienza ciò che decide la selezione di un certo equilibrio istituzionale, bensì il prevalere di una norma sociale: una concezione della giustizia sociale o un’ideologia economica e, in ultima istanza, una certa versione del contratto sociale, il quale seleziona il sentiero evolutivo che ci porta a un certo equilibrio istituzionale.
Allo stesso tempo, gli economisti dovrebbero accettare che non tutto può emergere attraverso il cumularsi di comportamenti individuali di mercato (come il consumo responsabile o la finanza sostenibile). Certi equilibri istituzionali non sono raggiungibili se si parte da altri equilibri istituzionali, sebbene meno efficienti e più ingiusti, solo attraverso un processo di adattamento molecolare. Occorre l’azione collettiva (la scelta pubblica basata su valori). Detto altrimenti il cambiamento istituzionale consiste nella selezione di un equilibrio alternativo, mediante un accordo, o l’adozione congiunta di un “modello mentale” che coordini il passaggio da un sentiero ad un altro, lungo il quale poi le micro-interazioni ci portano al consolidarsi di un nuovo modello istituzionale di impresa. Il contratto sociale, un accordo iniziale imparziale tra le parti su principi, è il trigger (innesco) più adatto per imboccare una dinamica che ci può poi portare a nuove istituzioni stabili.
Ciò non significa che l’adesione ai CLC debba essere “imposta” alle imprese. La buona novella, che viene dalle scoperte dell’economia comportamentale e sperimentale, è che una deliberazione imparziale (accordo) genera credenze reciproche di conformità e al contempo attiva preferenze favorevoli alla conformità ai principi concordati del tutto endogene (cioè non imposte); e ciò a sua volta produce un comportamento di sostegno reciproco, attivato dall’accordo inziale. Alla fine le risultanti istituzioni (di governance) sono regole di comportamento cui le parti si attengono perché pensano che gli altri facciano lo stesso.
Processo di attuazione
Il processo di attuazione della proposta dei CLC suggerito dal forum DD è coerente con questa impostazione: l’idea è infatti “attaccare” al contempo “dall’alto e dal basso”, cioè rendere complementare la regolazione via norme imperative generali con l’autoregolazione attraverso accordi tra le parti e sperimentazioni anche a livello di singola impresa, che sfruttino lo spazio dell’autonomia privata. Una completa disciplina legislativa infatti non funzionerebbe. Troppe sono le sfaccettature del problema rispetto alle diverse forme e dimensioni d’impresa, troppo estesa sarebbe l’ignoranza dei dettagli da parte del legislatore. D’altra parte, la pura volontarietà e autoregolazione delle imprese non funzionerebbe (e non ha funzionato per la RSI). La complementarietà degli strumenti regolativi e autoregolativi promette di essere più efficace. Innanzitutto, occorre un fattore di innesco (trigger) di un processo: una norma generale imperativa, che stabilisca principi generali e obblighi minimi circa la costituzione dei CLC e abbia portata prescrittiva e, soprattutto valenza programmatica.
A partire da essa, si può dare spazio all’autoregolazione e alla soft-law, non intesa in modo unilaterale, ma come definizione di regolamenti attuativi attraverso l’accordo tra parti interessate. Si formerebbe perciò un comitato nazionale di rappresentanti delle parti sociali (imprenditori e sindacati) e delle organizzazioni più rappresentative dei consumatori e degli interessi ambientali, con lo scopo di stabilire regolamenti nazionali attuativi. Che sarebbe assistito da una commissione tecnico-amministrativa indipendente composta da esperti di nomina pubblica, la quale vigilerebbe sulla corrispondenza tra regole attuative concordate e norme della legge istitutiva dei CLC, e che potrebbe integrare i regolamenti attuativi qualora le parti non arrivassero all’accordo.
Tali regolamenti costituirebbero la regola di default, che cioè si applica in assenza di una diversa volontà, per l’attuazione nelle imprese. Esse normalmente modificherebbero i loro statuti secondo quanto previsto dai regolamenti. Ma potrebbero non aderire ai regolamenti (opt-out) dietro motivata giustificazione e adottando soluzioni alternative che diano nondimeno attuazione coerente alla legge. In caso tali modalità non fossero coerenti con le richieste della legge, dovrebbero essere adottate correzioni. Assieme agli obblighi di rendicontazione, i regolamenti dovrebbero assegnare ampio spazio al monitoraggio dal basso e alla verifica indipendente svolta da enti di terza parte, creati su iniziativa volontaria di associazioni di cittadinanza attiva, sindacati, associazioni di imprese e soggetti professionali della certificazione – e organizzati in modo da essere al riparo da conflitti di interesse – che verificherebbero la conformità e l’efficacia delle soluzioni adottate dalle imprese.
In sostanza, una scelta collettiva (la norma generale di indirizzo) può costituire l’innesco per avviare un grande cantiere deliberativo a livello nazionale, locale e a livello di impresa sulla sperimentazione di nuove forme di democrazia economica. L’idea è che la deliberazione imparziale ai vari livelli possa a sua volta generare motivazioni e preferenze a sostegno dell’adesione e attuazione della democrazia nel governo di impresa, ben al di là di quanto sarebbe possibile in base alla sola ipotesi di egoismo razionale.
Il consenso del sindacato
Vi è dunque una teoria dell’attuazione piuttosto solida. Cosa manca per partire? Non possiamo nasconderci il fatto che l’ostacolo principale è nel timore, comprensibile ma infondato, che i sindacati possono avere circa il fatto che i CLC ne svuoterebbero il ruolo, almeno sulle materie di contrattazione integrativa, aziendale e territoriale. Tuttavia, la funzione dei consigli di permettere la partecipazione dei lavoratori al governo di impresa è nettamente distinta da quella della rappresentanza sindacale nelle trattative contrattuali. Ciò che si fa con la governance è diverso da ciò che si può fare per via di contratto; e interviene in momenti assai diversi.
La governance interviene nella formazione delle decisioni dell’impresa, prima che esse possano essere portate al tavolo delle trattative. Essere nella governance quindi permette di partecipare alla formazione delle decisioni di impresa prima che se si possa dire “prendere o lasciare”. D’altra parte il sindacato come libera associazione di lavoratori mantiene autonomia giuridica dall’impresa e può intraprendere azioni collettive che il CLC, come organo istituzionale del governo, non può assumere.
Benché quindi la natura, le funzioni e i tempi di intervento della governance e della contrattazione siano distinti, nessuno toglie però al sindacato la possibilità di essere protagonista di entrambe, in particolare organizzando con proprie candidature la partecipazione dei lavoratori al CLC. Cioè la possibilità di operare con entrambe le mani, anziché con solo quella della contrattazione decentrata, che come sappiamo riguarda in Italia solo una piccola minoranza delle aziende. In aggiunta, benché diverse e appartenenti a fasi distinte, le due funzioni sarebbero tra loro complementari.
Si considerino decisioni sulle quali, pur esistendo la possibilità di contrattazione aziendale, le decisioni dell’impresa si formano spesso ben prima di essere discusse pubblicamente e così lasciano ai lavoratori la possibilità dell’acquiescenza o la necessità di correre al riparo contro gli effetti più negativi di scelte su cui non hanno avuto modo di influire:
- Innovazione tecnologica digitale e impiego dell’IA nella riorganizzazione del lavoro, con conseguenti impatti occupazionali (specialmente nell’impiego di applicazioni che possono o meno sostituire posti di lavoro).
- Welfare aziendale, con offerte paternalistiche di servizi che “privatizzano” il welfare, oppure possono essere condivise e integrate nei sistemi di welfare locale.
- Concessione di premi di produzione e parte variabile del salario, in relazione alla valutazione dell’andamento dell’impresa.
- Massimi differenziali remunerativi all’interno dell’impresa (che ha un impatto cruciale sulle diseguaglianze)
Senza partecipare alla governance, il sindacato non può influire sulle decisioni dell’impresa e sui termini che poi vengono ultimativamente proposti all’accordo. (ammesso che la contrattazione aziendale sia attiva). In questi casi il ruolo del CLC nella formazione delle decisioni aziendali, che poi arriveranno alla fase della contrattazione aziendale, è complementare al potere negoziale dei sindacati, poiché fa in modo che le proposte aziendali riflettano maggiormente l’interesse dei lavoratori, e semplicemente non siano inaccettabili dai sindacati.
Il rischio che talvolta gli eletti nel CLC possano avere opinioni diverse dalla rappresentanza sindacale di base, in fin dei conti rinvia alla capacità del sindacato di coordinare ciò che fa la mano destra con ciò che fa la mano sinistra nell’organizzare due diverse forme di rappresentanza dei lavoratori. Ma non si vede come questa eventualità possa far passare in secondo piano i grandi vantaggi ai fini dello stesso ruolo non meramente corporativo del sindacalismo confederale. Infatti i CLC darebbero rappresentanza nello stesso consiglio a tutti i tipi di lavoro che collaborano in una certa impresa, ma che l’0rganizzazione del lavoro e la diversificazione dei contratti tendono a separare o contrapporre: lavoratori a tempo indeterminato, a tempo determinato, parasubordinati e con contratti di collaborazione, finte partite IVA, raiders disciplinati da piattaforme che fingono di esser un mercato imparziale, lavoratori nella filiera di sub-fornitura o nella rete (o distretto) di cui l’impresa fa parte, e che in realtà costituiscono una soluzione organizzativa alternativa al medesimo problema di coordinamento che potrebbe essere affrontato da una organizzazione unificata. Vi sarebbe cioè una sede in cui i lavoratori, separati dalle tipologie contrattuali, possono essere riunificati dalla partecipazione alla governance, e in cui il sindacato può dar loro una rappresentanza unitaria, identificando un programma di partecipazione che esprima una sintesi equa tra i loro interessi.
Al contempo, la presenza nei consigli di rappresentanti del territorio, in particolare degli interessi ambientali, aiuterebbe il sindacato a comporre attraverso la partecipazione, i conflitti possibili tra lavoro e ambiente, nella prospettiva della sostenibilità sociale e ambientale. Non c’è bisogno di pensare che queste rappresentanze debbano avere gli stessi poteri dei rappresentanti dei lavoratori. Potrebbero, ad esempio, aver diritto alla consultazione, ma non alla cogestione sui temi che toccano direttamente le condizioni materiali dei lavoratori. Ciò nondimeno i CLC sarebbero le cellule di base in cui si cercherebbe di identificare proposte di impiego di tecnologie verdi e processi produttivi a ridotto impatto ambientale e consumo energetico, rispettose della salute e al contempo tali da non sacrificare posti di lavoro o crearne di nuovi. Cioè il luogo ove comporre le pretese di giustizia ambientale delle generazioni future con quelle di giustizia intra-generazionale nella ripartizione dei costi della sostenibilità nella generazione presente.
Infine, vi è un punto ancora più generale. Il sindacalismo confederale in Italia non ha mai accettato di ridurre la sua funzione alla negoziazione del prezzo e della quantità delle prestazioni dei lavoratori alle imprese, e si è autorappresentato come strumento di partecipazione dei lavoratori alla vita democratica. La domanda è: perché non anche a livello dell’impresa? In effetti per quanto si voglia estendere la materia della contrattazione, il contratto conserva sempre la natura di una transazione commerciale: una remunerazione contro una prestazione. Ma in questo modo il lavoro rimane un mezzo acquistato dall’impresa per perseguire uno scopo ulteriore e indipendente da quello dei lavoratori. In effetti, anche per i teorici che spiegano l’impresa con la natura incompleta dei contratti, il governo di impresa nasce proprio per il fatto che esistono decisioni inizialmente non contrattabili, che esulano da ciò che si può stabilire col contratto. Tali decisioni rientrano nella sfera di autorità di chi governa l’impresa. E permettono le scelte discrezionali in cui si manifesta l’autonomia imprenditoriale e manageriale. Noi crediamo che, al di là della sfera contrattuale, l’autorità vada limitata o condivisa con i lavoratori, anche se non dispongono del diritto di proprietà sulle risorse fisiche dell’impresa, per il solo fatto di essere persone, ugualmente degne di considerazione e rispetto.
Ciò ha effetto sull’autonomia del lavoratore. Finche’ il lavoratore è solo un fornitore di mezzi, egli non rientra tra coloro che possono stabilire i fini di quella particolare unione sociale che è l’impresa, e non può dunque esercitare autonomia nel senso di partecipare a stabilire gli scopi della forma di cooperazione sociale cui partecipa. Egli è trattato come un mero mezzo. Al contrario la democrazia economica nella forma dei CLC, cioè assai vicina alle concrete condizioni di vita e lavoro, farebbe sì che gli scopi dei diversi stakeholder si compongano nella definizione degli obbiettivi dell’impresa. Che allora tratterebbe ciascuno stakeholder, e innanzitutto i lavoratori – kantianamente – sempre anche come fini, e mai come meri mezzi.
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