Prima di progettare politiche efficaci per ridurre le diseguaglianze dobbiamo capire la loro matrice e i fattori che le hanno influenzate profondamente negli ultimi decenni. Stiamo vivendo un’epoca apparentemente d’oro di convergenza condizionata nella quale i paesi poveri ed emergenti continuano in media a recuperare terreno in termini di Pil pro capite rispetto ai paesi tradizionalmente ad alto reddito consentendo l’uscita dalla povertà estrema di fasce importanti di popolazione in quelle aree. Tuttavia se in realtà andiamo a guardare più in dettaglio ed in profondità i dati ci accorgiamo che il quadro non è poi così roseo.
La storia raccontata recentemente da Fubini sul Corriere della Sera a proposito del settore manifatturiero tedesco che delocalizza la produzione di base nei paesi dell’est Europa mettendo in concorrenza i produttori tra di loro è particolarmente istruttiva. Per poter ottenere la commessa i produttori di base nei paesi dell’Est cercano di offrire le condizioni più convenienti con salari minimi e imposte sulle imprese ridotte. Gli stati di quei paesi mantengono poi l’equilibrio di bilancio aumentando le tasse sui beni di consumo. I lavoratori dei ceti deboli e medi di quei paesi dunque vivono il danno e la beffa di indicatori di crescita del Pil pro capite rigogliosi (la produzione avviene da loro) che si traducono in realtà in una riduzione dei loro salari reali e del potere d’acquisto e dunque in un peggioramento delle condizioni di vita che spiega le pulsioni populiste molto forti in quei paesi.
Dietro il dato della convergenza condizionata dunque si nascondono squilibri distributivi molto importanti all’interno di ciascun paese con caratteristiche abbastanza simili tra paesi ad alto reddito e paesi poveri ed emergenti. C’è una classe di lavoratori ad alta qualifica che beneficia della competizione globale e si difende da sola senza bisogno di sindacati appropriandosi di una fetta crescente della torta. I ceti medi e quelli più deboli vedono invece ridursi il loro potere d’acquisto per via di questa corsa al ribasso sui costi del lavoro che caratterizza la concorrenza globale. Il fattore chiave generatore di diseguaglianze è dunque all’interno di ciascun paese ed è rappresentato dal divario di competenze e dalla possibilità o mano di avvalersi di rendite patrimoniali legate a quote di capitale delle imprese o beni immobili.
I dati sui diversi indici di diseguaglianza confermano queste tendenze. Le diseguaglianze crescono all’interno dei paesi producendo polarizzazioni politiche e aumentando il rischio dell’esplosione di conflitti sociali. Le diseguaglianze tra paesi di riducono e con esse anche quelle nella popolazione mondiale nel suo complesso perché nei paesi poveri o emergenti la crescita è importante e porta fuori dalla povertà un gran numero di persone.
Una domanda da farsi prima di decidere quali politiche adottare è come è possibile che le diseguaglianze non siano rallentate in democrazia e che gli elettori abbiano votato partiti che le hanno fatte aumentare. Il paradosso è simile a quanto sta accadendo in Italia dove i partiti di governo che hanno la maggioranza del consenso degli elettori portano avanti un progetto di riduzione delle tasse (flat tax) che aumenta le diseguaglianze invece di ridurle. Come se non esistessero altre possibili politiche di riduzione delle tasse più progressive e in grado di avere effetti migliori sui ceti medi e sulla maggioranza degli elettori (l’idea del flat benefit costruita sulla riduzione della prima aliquota dell’imposta sui redditi ed illustrata da Marco Bonmassar su Bene Comune ne è un esempio tra i vari possibili).
Se questa è la situazione, l’imperativo delle politiche sociali ed economiche prossime venture deve essere quello di arrestare la corsa al ribasso sui diritti del lavoro e di migliorare la condizione dei ceti deboli e delle classi medie. Per capire in che direzione agire bisogna partire dal fatto che molte delle politiche che usavamo nel 900 per difendere il lavoro sono oggi inutilizzabili. La rivoluzione della globalizzazione ha infatti profondamente mutato il campo da gioco, allargando a dismisura quello delle imprese multinazionali che possono decidere di localizzarsi in qualunque punto del pianeta restringendo l’area di influenza e competenza degli stati nazionali all’interno dei loro confini. Se i membri dei governi nazionali pensano, con le migliori intenzioni, di poter risolvere il problema alzando i costi del lavoro e delle tutele nel loro paese rischiano di provocare l’effetto paradossale di un aumento di delocalizzazioni e di perdite di posti di lavoro e di valore economico.
Se vogliamo risolvere il problema della diseguaglianza dobbiamo pertanto lavorare in due direzioni fondamentali. Primo, trovare ricette “a prova di globalizzazione” ovvero capaci di evitare l’innesco di un’ulteriore corsa al ribasso con delocalizzazioni e perdita di lavoro e di valore economico nei nostri territori. Secondo, comunicarle efficacemente.
Sul primo punto la riflessione deve partire cercando di individuare un terreno sul quale gli stati nazionali mantengono il loro potere contrattuale con le imprese e possono pertanto varare politiche senza doversi necessariamente coordinare con altri paesi e senza favorire delocalizzazioni. Le vie maestre sono tre. La prima è la rimodulazione delle imposte sui consumi. Gli stati nazionali possono decidere di imporre un’IVA più elevata su prodotti che vengono da filiere meno ambientalmente e socialmente sostenibili. Hanno già iniziato sul fronte della sostenibilità ambientale con le ecotasse che discriminano tra auto elettriche o ibride e auto a motore diesel. Possono costruire “ecotasse sociali” utilizzando le informazioni di rating sociale sulla qualità del lavoro dei maggiori produttori mondiali rese disponibili dalle società di rating sociale che vendono le loro informazioni ai fondi d’investimento. E’ possibile ottenere lo stesso risultato costruendo a livello internazionale scale di equivalenza tra soglie che delimitano il lavoro degno e non nei diversi paesi del mondo, chiedendo alle aziende di ottenere certificazioni di qualità del lavoro che danno accesso alle agevolazioni.
Un’altra strategia importante è puntare sul voto col portafoglio dei cittadini e dello stato. Gli stakeholder (portatori d’interesse) forti nel mercato globale non sono i lavoratori ma i consumatori e i risparmiatori. Se questi decidono di votare col portafoglio premiando con le loro scelte le aziende all’avanguardia nella creazione di valore sostenibile il problema della dignità del lavoro si può risolvere perché la sostenibilità sociale diventa economicamente conveniente e sul mercato vincono le aziende responsabili. I limiti al voto col portafoglio sono la consapevolezza, le informazioni necessarie per scegliere, il coordinamento delle decisioni (funziona se lo fanno in tanti non se lo fa uno solo) e il differenziale di prezzo che può esistere tra prodotto di azienda responsabile e non.
Per superare questi limiti si può far circolare più informazione sui rating sociali ai cittadini a costo zero per le istituzioni (un nostro esperimento pubblicato su Oxford Bulletin of Economics and Statistics dimostra che questa decisione può spostare le scelte dei cittadini). Il sistema di ecotasse sociali ed ambientali descritto in precedenza serve proprio a rendere più conveniente il voto col portafoglio. Esiste poi anche il voto col portafoglio delle amministrazioni nazionali e locali che rappresenta attraverso gli appalti quasi il 20 percento degli acquisti complessivi del mercato. Se le istituzioni che per definizione hanno obiettivi sociali ed ambientali non fanno le loro scelte di acquisto in coerenza con tali obiettivi sono masochiste ed irrazionali. Usare solo la logica del massimo ribasso e far vincere la gara ad una società che offre prezzi stracciati perché sfrutta il lavoro o elude il fisco vuol dire incentivare tutti gli altri a seguire quella strada. La sostenibilità sociale, ambientale e fiscale deve dunque essere criterio fondamentale nella premialità e nelle regole di ammissione agli appalti.
Un ultimo punto a mio avviso fondamentale riguarda i sistemi di pagamento dei manager nelle grandi imprese quotate. Il modello oggi vigente prevede una componente fissa ed una variabile (bonus) che scatta al superamento di livelli di performance prefissati sulla base di indicatori di prezzo dell’azione o di profitto. Il sistema diventa inevitabilmente perverso quando l’azienda non cresce. In quei casi infatti i manager sono incentivati ad allargare la loro fetta di torta (profitti, valore per gli azionisti) riducendo le fette degli altri portatori d’interesse (lavoratori, consumatori, comunità locali) visto che la torta del valore creato dall’azienda complessivamente non cresce. La soluzione per la quale da anni la coalizione dei fondi d’investimento etici si batte è quella di utilizzare indicatori di performance sociale ed ambientale assieme a quelli tradizionali. Ovvero il manager intasca il bonus solo se dimostra di aver creato valore socialmente ed ambientalmente sostenibile non aumentando ad esempio gli incidenti sul lavoro o l’impronta di carbonio della propria azienda.
Il contrasto alla diseguaglianza in un sistema economico profondamente mutato dopo la globalizzazione richiede intelligenza e fantasia. E deve trovare soluzioni a prova di delocalizzazione. In questo pezzo non abbiamo approfondito il fatto che la via maestra per cittadini e imprese resta quella del puntare a formazione, competenze, qualità dei prodotti. I lavoratori ad alta qualifica, le aziende creative fatte di camici bianchi più che di tute blu si difendono da sole. Resta però il problema di chi non ce la fa ed è delle possibili soluzioni per questi casi che parla questo articolo.
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