L’elevata disuguaglianza economica, cresciuta significativamente negli ultimi trent’anni in molti Paesi del mondo, costituisce uno dei tratti distintivi ed allarmanti del nostro tempo. Un fenomeno profondamente nocivo per le nostre società che mina le prospettive di uno sviluppo duraturo e sostenibile, ostacola la mobilità inter-generazionale, indebolisce il grado di coesione sociale.
Le crescenti distanze economiche tra individui si trasformano in barriere sociali e alimentano un profondo senso di inquietudine civica e ingiustizia. Le fratture all’interno di una società in cui pochi fanno significativi balzi in avanti mentre molti arretrano, restano fermi o fanno solo passi modesti verso un futuro migliore possono portare repentinamente allo svilimento del patto sociale, a intolleranza, a una sfiducia, non immotivata, nei confronti delle istituzioni, a processi di disgregazione politica, instabilità e derive autoritarie.
Le “moderne disuguaglianze” non sono né casuali né tanto meno ineluttabili. Sono piuttosto il risultato di precise scelte politiche che hanno portato negli ultimi decenni a un profondo mutamento nella distribuzione del potere economico tra lavoro e proprietà d’impresa, all’affiorare di nuovi e potenti monopoli, a un eccesso di finanziarizzazione dell’economia. Un significativo peso hanno avuto l’indebolimento delle funzioni dello Stato, una graduale esclusione di ampi settori della società dalla vita sociale e politica “controbilanciata” da un accresciuto condizionamento delle scelte dei decisori politici da parte di portatori di interessi particolari, a difesa della propria condizione di privilegio.
A scanso di equivoci e indebite banalizzazioni, le misure di contrasto alle disuguaglianze non sono indirizzate, nella visione di chi scrive, alla promozione di un livellamento socio-economico e un bieco egualitarismo, ma alla creazione di una società più dinamica, equa e mobile, in cui le disuguaglianze sono anche contemplabili, una volta affrontata l’accettabilità, sotto il profilo di equità ed efficienza economica, dei processi che producono oggi un’elevata concentrazione della ricchezza al vertice della piramide distributiva e distanze eccessive nei livelli reddituali, riconducibili più a forme di potere, rendita e altre fattispecie di vantaggio indebito che a sforzi e “meriti” individuali.
Accanto alla fondamentali misure di carattere predistributivo (normative del lavoro, tutela della concorrenza, regolazione dei mercati e della governance societaria, ecc.) che intervengono, a monte, sui meccanismi di formazione della ricchezza e sulla distribuzione del reddito di mercato, un ruolo importante nella riduzione delle disuguaglianze è attribuito, a valle, a misure di carattere redistributivo. In particolare, al complesso delle azioni pubbliche di prelievo e trasferimento (e a politiche di welfare), la cui portata di livellamento degli squilibri nella distribuzione del reddito primario è oggetto di solide analisi del Commitment to Equity Institute e trova ampia evocazione nell’ultimo rapporto di Oxfam, Bene Pubblico o Ricchezza Privata?
Pur evidenziando come nel contesto italiano siano i trasferimenti pubblici (e tra questi, in particolare, le pensioni previdenziali, accordandoci di intendere quelle contributive come trasferimento pubblico “puro” e non come reddito differito) a determinare un effetto redistributivo maggiore rispetto al prelievo di contributi sociali ed imposte, l’attualità istituzionale e gli avvenuti e, ancor più, prospettati interventi legislativi in materia fiscale – la riforma dell’IRPEF e il passaggio in più fasi a un sistema impositivo flat sui redditi familiari – richiedono una riflessione particolare, richiamando il concetto di progressività impositiva.
La riduzione delle sperequazioni della distribuzione primaria del reddito e la redistribuzione intesa come aumento delle disponibilità monetarie dei percettori di reddito più basso sono infatti, insieme all’obiettivo di gettito, tre distinti ma convergenti obiettivi della progressività tributaria cui, secondo l’art. 53 della nostra Carta Costituzionale, è improntato il sistema fiscale italiano. Progressività, interpretata dalla giurisprudenza, come svolgimento ulteriore, nel campo tributario, del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Carta.
L’attuale campo di applicazione della progressività è particolarmente circoscritto ed applicato esclusivamente ai redditi personali da lavoro, con trattamenti differenziati e cedolarizzati per tante altre forme di reddito personale, come i redditi da capitale, quelli da affitto di immobili, o quelli IVA rientranti nel regime forfettario, esteso di recente dal governo in carica (con la cosiddetta mini flat-tax per gli autonomi e le imprese individuali).
Una porzione rilevante di redditi è in sostanza esclusa dalla progressività impositiva e fruisce di aliquote legali formalmente più basse. Non solo: con una quota del lavoro sul PIL a livello oggi più basso rispetto al periodo di avvio della riforma dell’IRPEF negli Anni Settanta, l’odierna base imponibile della progressività appare anche meno rilevante.
La progressività è poi riservata maggiormente ai percettori di reddito da lavoro dipendente e pensione per i quali si ha maggiore certezza di prelievo, mentre le figure professionali con elevate capacità reddituali (lavoratori autonomi la cui quota di reddito relativo cresce in rilevanza negli ultimi scaglioni di reddito) sembrano coinvolte meno adeguatamente. Una distorsione su cui riflettere anche alla luce delle stime del gap fiscale del Ministero dell’Economia e delle Finanze pari ad appena il 3% per i redditi da lavoro dipendente ma collocato intorno al 60% per i redditi da lavoro autonomo e da impresa. Un promemoria severo, accentuato dalla Corte dei Conti nel 2018: tra i costi dell’evasione fiscale c’è anche quello di una ridotta portata redistributiva della progressività.
E’ la stessa Corte dei Conti a valutare le funzioni assegnate al criterio di progressività come fortemente distorte nel contesto italiano da una presenza limitatissima di redditi alti dichiarati e un affollamento nella classe di redditi bassi. Una configurazione distribuzionale che non permette un’azione perequativa dai contribuenti più ricchi verso quelli più poveri in termini reddituali con, contemporaneamente, effetti neutri sui redditi medi. Un punto di massima tensione, lo definisce la Corte, che presuppone oggi un carico eccessivo sui redditi medi e medio-bassi e non permette di considerare raggiunto appieno l’obiettivo di equità del prelievo.
La fragile progressività del sistema tributario rischierebbe di essere ulteriormente ridotta se si perseguisse la strada annunciata del passaggio a una tassazione quasi flat (o duale) dei redditi familiari. L’aggettivo quasi non è casuale: i dettagli contenuti nel programma del governo del cambiamento fanno riferimento a un novellato sistema a due aliquote (del 15% fino a, verosimilmente, 80.000 euro di reddito familiare lordo e del 20% oltre) con deduzioni di 3.000 per componente del nucleo familiare fino a 35.000 euro e di 3.000 euro per familiare a carico per redditi familiari compresi fra 35.000 e 50.000 euro.
Un annuncio, quello del governo, che confonde ad arte l’auspicabile (e auspicata dagli elettori-contribuenti) riduzione complessiva del carico fiscale IRPEF con gli effetti della scelta della struttura impositiva sotto il profilo di equità (ed efficienza economica).
Definito il gettito atteso dell’imposta – in relazione al migliore equilibrio tra le diverse fonti di entrate per lo Stato e tra entrate e spesa pubblica e fissato un sistema di deduzioni che garantiscano la stessa area di esenzione – per un sistema flat (ad aliquota unica) o duale chiamato a garantire il gettito fissato, esiste sempre almeno un sistema di aliquote progressive che genera gli stessi introiti, ma fa pagare considerevolmente di più i percettori di redditi più alti rispetto ai contribuenti che percepiscono redditi medi e bassi.
Se l’obiettivo di gettito di una flat tax “pura” (il risultato a cui tendere in prospettiva, secondo una componente della compagine governativa) fosse quello dell’IRPEF attuale non sarebbe possibile – co me sottolineano Massimo Baldini e Leonzio Rizzo nel loro volume, da poco pubblicato, Flat Tax. Parti uguali fra disuguali? (Il Mulino 2019) – realizzare un sistema che generi risparmi significativi sia per i poveri che per la classe media, a meno di non scegliere – ipotesi irrealistica – un livello di aliquota estremamente elevata, intorno al 43%.
Le forze di governo non sono però mai apparse intenzionate ad avallare una “riforma” mantenendo invariate le entrate per lo Stato. I costi, considerevoli, dell’intervento, rischierebbero di essere compensanti con tagli indesiderabili alla spesa pubblica o con aumento su altre forme di prelievo come l’IVA (al netto di un possibile aumento del gettito IVA provocato, come risultato della “riforma”, da maggiori consumi a fronte di maggiori disponibilità di reddito) che, per l’incidenza maggiore che le imposte sui consumi hanno sui redditi più bassi, causerebbe uno shock indesiderabile nella distribuzione del consumable income penalizzando ulteriormente per i ceti meno abbienti.
Difficile credere in un recupero del costo della riforma attraverso la revisione delle spese fiscali (un altro annuncio evocato da alcuni esponenti della maggioranza di governo), processo tuttavia degno di attenzione soprattutto se si intendesse valutare seriamente l’impatto che, ancora una volta sotto il profilo dell’equità ed efficienza, hanno i diversi incentivi e i regimi fiscali preferenziali che erodono la base imponibile “in teoria” assoggettabile a tributo o che permettono di ridurre la corrispondente aliquota.
Un significativo recupero di risorse dal contrasto all’evasione (ed elusione) fiscale desta molte perplessità. Le recenti scelte del governo in materia di condoni e rottamazioni, se da un lato hanno portato utilità finanziarie a breve termine, dall’altro non stanno di certo contribuendo a dare spessore alla cultura dell’onestà fiscale nel lungo periodo.
Sul versante del contrasto all’evasione, il governo in carica sembra inoltre disinteressarsi, in continuità con quelli che lo hanno preceduto, dei nodi strutturali che limitano l’efficienza dell’amministrazione finanziaria, né intende occuparsi del contrasto tra l’esigenza di utilizzo massiccio dei dati da parte dell’Agenzia delle Entrate e i limiti posti dal Garante della Privacy: interventi più volte richiamati dal Prof. Alessandro Santoro, ma rimasti ad oggi ampiamente disattesi.
La leva fiscale rappresenta un importante strumento redistributivo. Dopo anni di interventi spot, appare irrimandabile una riforma strutturale del sistema impositivo italiano orientata, tra l’altro, a un’azione maggiormente perequativa. La riduzione complessiva della pressione fiscale dovrebbe passare per uno spostamento oculato del prelievo dal lavoro e dai consumi verso redditi da capitale e patrimoni e prevedere un ampliamento della base imponibile della progressività. Imprescindibile è anche un serio contrasto a ogni forma di abuso – evasione ed elusione fiscale – il cui prezzo per la collettività diventa sempre più insostenibile.
Interventi di giustizia fiscale costituiscono un potente antidoto alle disuguaglianze: prestiamo attenzione agli annunci di intenti, giudichiamo la lungimiranza delle misure, una volta presentate, e la capacità delle stesse, al netto della retorica dei loro proponenti, di fare la differenza sotto il profilo della giustizia distributiva.
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