L’articolo 38 della nostra Costituzione parla di un “diritto al mantenimento e all’assistenza sociale” per “ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”. L’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani dice che ciascuno ha “diritto a un tenore di vita adeguato”, così che sia lui che la sua famiglia possano godere di condizioni di salute e di benessere. Dice anche del diritto alla “sicurezza in caso di disoccupazione” o quando comunque si verifichino altre circostanze al di fuori del controllo delle persone, tali da produrre una carenza di mezzi di sussistenza. L’art. 34 della Carta di Nizza dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, poi allegata al Trattato di Lisbona, parla del diritto di accedere a “prestazioni di sicurezza sociale”. Gli stati membri dell’UE in effetti si sono quasi tutti dotati di una forma di sostegno al reddito volta a impedire a chi è socialmente debole di cadere in condizioni di grave povertà. La predisposizione di una rete di sicurezza del genere è del resto una delle caratteristiche costitutive del welfare state.
In Italia per lungo tempo è mancata una misura volta a garantire a tutti un reddito minimo. Nel 1997 la commissione c.d. Onofri aveva il compito di analizzare le “compatibilità macroeconomiche della spesa sociale” al fine di delineare una riforma di assistenza, sanità e previdenza che garantisse una riallocazione più equa ed efficace delle prestazioni di protezione sociale, senza incrementare la spesa complessiva. Una delle sue proposte più caratterizzanti fu quella di creare un “minimo vitale”. Era un momento propizio per farlo. Purtroppo, il minimo vitale non ebbe seguito. Nessuno degli interventi successivi (dalla legge 328/2000 alla sperimentazione del reddito mimino di inserimento, alla carta acquisti, al sostegno per l’inclusione attiva) disponeva dei fondi, della copertura e dei requisiti per fornire un sostegno al reddito a tutti i bisognosi. La riforma del titolo V della Costituzione aveva complicato il quadro. La crisi economica iniziata nel 2008 ha causato un forte e brusco innalzamento della povertà.
Il Reddito di inclusione finalmente adottato a fine 2017 e successivamente reso operativo con risorse incrementate ha infine introdotto nel nostro ordinamento il principio secondo cui deve essere pienamente effettivo un vero diritto a un reddito minimo. La dotazione finanziaria era tuttavia ben al di sotto di quanto sarebbe stato necessario a fronte della vasta platea dei soggetti in condizione di bisogno.
Il recente “reddito di cittadinanza” (riporto la dizione ufficiale) di cui al decreto-legge 4/2019 si avvale, rispetto ai provvedimenti precedenti, di risorse ben più cospicue, sebbene inferiori a quelle di cui inizialmente si parlava. In prima battuta, pertanto, si candida a fronteggiare con mezzi più adeguati la grande lacuna che caratterizzava la politica sociale italiana. Occorre ricordare che il beneficio è ufficialmente a tempo: diciotto mesi, che però sono eventualmente rinnovabili dopo un’interruzione.
Come è noto, le persone in condizioni di povertà assoluta sono presenti in tutto il Paese, ma, in proporzione alla popolazione, ve ne sono assai di più nel Mezzogiorno. Pertanto, verso le aree meridionali si indirizzano flussi di risorse relativamente maggiori. Ciò è ovvio e doveroso. Se l’intervento deve alleviare il bisogno, deve necessariamente operare in modo più intenso lì dove il bisogno medesimo è più forte. Sottolineo che, pur trattandosi di una forma di redistribuzione che va a favore di molti soggetti che nel Sud risiedono, è una misura di carattere nazionale, i cui beneficiari sono appunto i bisognosi, che possono, com’è noto, trovarsi anche in Lombardia, in Veneto, in Piemonte e così via.
Sarebbe assai improprio, sia concettualmente, sia nel quadro di una strategia di governo, immaginare e/o lasciare intendere che, una volta varato il sostegno al reddito di cui al d.l. 4/2019, il Sud sarebbe stato accontentato. Al Meridione occorre prioritariamente, peraltro in virtù di norme europee e nazionali (queste ultime di rango sia costituzionale sia legislativo), una politica efficace che crei lì sviluppo, ricchezza, occupazione. Il divario Nord-Sud è ancor oggi fortemente presente, visto il sostanziale fallimento (dagli anni Ottanta dello scorso secolo ai giorni nostri) dei vari interventi che avrebbero dovuto ridurlo a un livello accettabile. Ma da quanto sopra non segue che a questo punto si potrà essere poco attenti alle misure per lo sviluppo, perché tanto le situazioni di bisogno verranno fronteggiate dal c.d. RdC.
Si dovrebbe piuttosto ragionare in modo esattamente inverso: proprio perché nelle regioni del Sud vi sono più poveri, e proprio perché il sostegno al reddito è una prestazione ufficialmente temporanea, nonché ufficialmente volta a spingere i beneficiari a cercare un’occupazione, soltanto se in parallelo ci si impegnerà al massimo per favorire la crescita, gli investimenti e appunto la creazione di opportunità di lavoro lì dove mancano, sarà possibile realizzare quei risultati che si dichiara di voler ottenere [1].
Eccoci dunque alla natura ibrida del RdC. Al momento è un provvedimento di politica sociale (indubbiamente), ma anche di politica attiva del lavoro. Si tratta di dare un beneficio a chi ne ha bisogno, però condizionandolo a condotte virtuose, in particolare all’accettazione di un lavoro, eventualmente lontano da casa propria. In tal modo si prenderebbero i due classici piccioni con una sola fava, e verrebbero così rintuzzate quelle critiche che dipingono il RdC come una misura in definitiva assistenzialistica.
Non è affatto impossibile che una politica pubblica persegua contemporaneamente e con successo più obiettivi. Tuttavia, è intuitivo che quanti più obiettivi abbiamo, tanto più il quadro si complica, sicché le capacità di intervento dovrebbero diventare più mirate e intelligenti. D’altro canto, è naturalmente pure possibile che i diversi obiettivi facciano a pugni tra loro, se non si congegnano bene le scelte.
Non è sempre vero che chi è povero lo è per via del fatto che non lavora, magari perché non vuole farlo. Vi sono soggetti che hanno difficoltà oggettive a lavorare, e non vanno abbandonati. E ve ne sono altri – i working poors – i quali pur lavorando, magari in forma intermittente, vivono comunque un disagio, perché hanno retribuzioni troppo basse.
Il RdC è pensato in modo da spingere i beneficiari a lavorare, ma occorrerebbe tenere in maggiore considerazione quanto ho appena detto. Inoltre, la misura del beneficio non è correlata all’effettivo costo della vita, che varia da un territorio all’altro. Un single potrebbe prendere alquanto di più di quanto gli servirebbe per arrivare appena sopra la soglia di povertà assoluta, mentre un nucleo di tre o più componenti potrebbe restare al di sotto di tale soglia. Va anche considerato che proprio nelle aree in cui vi sono più poveri vi è anche la maggiore quantità di lavoro nero, con conseguenti accordi sottobanco tra datori di lavoro e lavoratori [2] (la cui presenza non si può escludere neppure al Centro-Nord). Ciò dipende anche dalla sotto-dotazione degli apparati di vigilanza e sanzionatori. Non soltanto i centri per l’impiego, ma anche e soprattutto gli ispettorati del lavoro. Vero è che sono state previste sanzioni severe per chi fa il furbo, ma l’esperienza insegna che quando ci si aspetta che non vengano di fatto applicate, l’effetto deterrente non si produce.
Se l’eliminazione della povertà fosse prioritaria, allora ci si potrebbe avvalere di erogazioni minimali e il più possibile automatiche, con ridottissimi costi amministrativi. In Brasile il grande successo di Bolsa Família, che eroga benefici condizionati a compimento di attività socialmente rilevanti in campo educativo o sanitario, è anche dovuto a un programma e un’amministrazione di livello federale (con la collaborazione dei comuni), che garantiscono un’omogeneità di trattamento su tutto il territorio.
Occorrerà riflettere a fondo su quanto peso dare alla riduzione della povertà e quanto alla creazione di lavoro. Quest’ultimo peraltro va generato anzitutto attraverso la politica industriale e di sviluppo. Dopo il ReI, il RdC è un altro passo avanti significativo, che è stato compiuto in via d’urgenza, appunto per decreto-legge. Con calma e attenzione si potrebbe rimettervi mano, per incrementare i benefici generati dalle risorse messe in campo e contenere certi possibili effetti collaterali negativi.
[1] Sul punto L. Bianchi, “Il Reddito di Cittadinanza: l’esigenza di una misura di contrasto alla povertà e i suoi limiti attuativi”, Rivista economica del Mezzogiorno, SVIMEZ, 3, 2018.
[2] Sul punto A. Albanese, M. Picchio, “Più licenziamenti col reddito di cittadinanza?”, lavoce.info, 26/3/2019.
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