La riflessione delle Acli delle Marche ruota attorno a quattro temi: le catastrofi e la gestione del territorio, la valorizzazione delle aree interne, la salvaguardia dei paesi, i centri di comunità come luoghi di ricostruzione del tessuto sociale.
Le catastrofi e la gestione del territorio
Le catastrofi naturali
Abbiamo l’impressione che le catastrofi naturali siano aumentate e che la terra sia diventata più pericolosa. In realtà terremoti, alluvioni, eruzioni vulcaniche, uragani e altri disastri ci sono sempre stati. Secondo gli studiosi è aumentata la vulnerabilità degli insediamenti umani presenti sul territorio. Dopo la seconda guerra mondiale, con il fortissimo aumento della popolazione si sono estese le aree agricole e industriali, si sono ampliate le aree urbanizzate ed è cresciuto in modo incontrollato il consumo di suolo. Ovviamente negli ultimi decenni sta incidendo anche il cambiamento climatico, ma il fattore fondamentale sta nella nostra cattiva gestione del territorio. Il caso delle Marche è esemplare: il dissesto idrogeologico e la fortissima crescita delle frane non sono dovuti al cambiamento climatico, ma al nostro dissennato uso del suolo.
La prevenzione
Dopo il terremoto del 24 agosto è stato scritto che l’Italia sa gestire l’emergenza ma non è capace di fare prevenzione. Il terremoto ci ha trovati impreparati. Il terremo non si può prevedere, ma le aree ad alto rischio sismico si conoscono. Il Giappone ha insegnato al mondo che si possono costruire edifici capaci di resistere a grandi terremoti. Serve una cultura della prevenzione. Lo Stato deve investire in prevenzione: incentivando fiscalmente la costruzione di edifici antisismici e rendendo sicuri gli edifici pubblici (scuole, ospedali ecc.). E questo vale non solo per i terremoti, ma per l’intera gestione del territorio. Investire in prevenzione significa risparmiare sui costi sociali ed economici delle catastrofi naturali. A loro volta i cittadini, al di là dell’operato di chi avrebbe dovuto porre regole e farle rispettare, devono assumere un atteggiamento diverso rispetto ai rischi ambientali: devono convincersi del valore e della necessità della prevenzione. E agire di conseguenza nelle proprie scelte concrete.
La valorizzazione delle aree interne
L’Europa, la Strategia 2020 e le Aree interne
Con la Strategia 2020 l’Europa ha messo al centro delle sue politiche proprio lo sviluppo territoriale e ha indicato tre indirizzi di crescita: Il primo: passare da uno sviluppo esogeno e quantitativo a uno sviluppo endogeno e qualitativo. Il secondo: puntare sulla coesione sociale, perché quella europea è un’economia sociale di mercato che si pone l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Il terzo: puntare a uno sviluppo sostenibile, valorizzando le aree interne. In questa ottica, la vasta fascia appenninica, anziché area fragile e depressa, può divenire il volano di un nuovo modello di sviluppo. Nel passato l’Appennino è stato il luogo dove per secoli si è raggiunto uno sviluppo equilibrato dal punto di vista sociale e ambientale. Oggi può tornare ad esserlo se si affrontano due temi centrali per i territori montani e alto-collinari: la conservazione del capitale naturale e la realizzazione di uno sviluppo sostenibile basato non solo sul turismo, ma anche sull’agricoltura di montagna e sui servizi per l’ambiente.
La Strategia nazionale delle Aree interne
Nell’ambito della Strategia europea 2020 l’Italia ha avviato la sua Strategia nazionale delle Aree interne. In tutta Italia sono state individuate 66 aree che coinvolgono circa mille Comuni e quasi due milioni di abitanti. Come ha scritto Franco Arminio, “l’assunto è che l’Italia interna non è un problema, ma una mancata opportunità per il Paese”. La missione della Strategia nazionale è chiara: riuscire a fermare il calo demografico rafforzando i servizi essenziali di cittadinanza: istruzione scolastica, trasporti e mobilità, sanità e welfare locale. A questi obiettivi di base, si aggiungono poi le Azioni di sviluppo locale che in tutte le regioni hanno come tema centrale il valore dell’agricoltura e del paesaggio. Ci si muove nell’ottica di rendere attrattiva l’Italia in genere che viene considerata più marginale, nella convinzione che i nostri paesi sono la nostra ricchezza.
La salvaguardia dei paesi
La ricchezza dei nostri paesi
Dobbiamo ripartire dai nostri paesi, rendendoci conto della loro ricchezza. I piccoli centri urbani, posti nelle aree interne, non sono i luoghi della penuria, come spesso noi siamo portati a pensare, ma sono i luoghi della ricchezza: ricchezza di biodiversità, ricchezza di sociodiversità, ricchezza di conoscenze, ricchezza di competenze, ricchezza di cultura, spesso anche ricchezza d’arte.
Ripartire dai paesi
Ripartire dai paesi significa operare per un ritorno ai piccoli centri urbani e alla campagna, ridando fiducia a chi vi abita e mettendo insieme le tante buone pratiche che si sono diffuse negli ultimi anni. Nei paesi è più facile realizzare la collaborazione fra pubblico e privato sociale che si è rivelata così importante per la condivisione e la soluzione dei problemi. Come riconoscono le misure contro la povertà introdotte di recente, la rete pubblico-privato sociale può svolgere un ruolo fondamentale nel nuovo Welfare municipale e nella gestione di tutti i servizi.
Scegliere di ripartire dai piccoli centri e dalla campagna può significare molte cose. Ecco alcuni esempi: favorire l’accesso alla terra da parte dei giovani; ridare prestigio ai contadini, valorizzandoli anche come custodi del territorio; salvaguardare gli antichi mestieri con le loro conoscenze; valorizzare gli artigiani del cibo; riscoprire la storia e l’identità dei nostri luoghi. Per tutto questo servono non solo politiche adeguate, ma anche la partecipazione e l’iniziativa delle forze vive del territorio.
Essere popolo e fare comunità
Essere popolo
È difficile dare una definizione chiara e convincente di che cosa sia il popolo. Nell’incontro nazionale di studio del settembre 2016, le Acli hanno scritto che “un popolo è tale quando si riconosce in una storia, una cultura, un nucleo di valori condivisi e una serie di istituzioni di riferimento”. Essere popolo significa sentirsi partecipi di un racconto comune. Un popolo si sente unito dentro una storia se è capace di fare memoria, di abitare in modo consapevole il presente e di avere un progetto comune per il proprio futuro. Un progetto comune inizia a maturare dentro una cultura civica che valorizza la realtà municipale in quanto è la più vicina ai cittadini. Ma poi promuove la partecipazione alla vita delle istituzioni, perché un popolo deve sentirsi dentro un quadro istituzionale più ampio e riconoscersi in valori condivisi: quei valori che in ogni Paese sono riconosciuti e sanciti dalla Carta costituzionale.
Fare comunità
Con riferimento ai paesi distrutti dal terremoto, Aldo Bonomi ha scritto che “identità e voglia di comunità non sono solo il ricostruire dov’era e com’era per non perdere storia e memoria”. Come in tutti i luoghi, anche nelle aree interne l’identità del territorio è un processo in continua trasformazione. Si tratta allora di coinvolgere gli attori di questa trasformazione: le istituzioni locali e regionali, gli enti parco, le realtà del Terzo Settore, le forze sociali, i Gal, le imprese. Ma servono anche dei luoghi fisici dove costruire la comunità: la Caritas e le Acli li chiamano Centri di comunità. In molti paesi da decenni i Circoli Acli sono stati veri e propri (spesso gli unici) Centri di comunità. Nei luoghi dove tutto è stato distrutto, nelle tendopoli o nei nuovi insediamenti provvisori che verranno costruiti in sostituzione delle tendopoli, servono Centri di comunità: luoghi di aggregazione, luoghi di incontro, luoghi di confronto, luoghi di costruzione di un nuovo domani. Solo così si potrà far rinascere le comunità distrutte, ricostruire rapporti solidali fra le popolazioni terremotate e ridare un futuro ai paesi dell’Appennino.