Nel suo libro Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista mette in evidenza come il nichilismo sia stato capace di stringere un’alleanza con la tecnica ed il capitalismo che ha messo a repentaglio proprio quella libertà che, a parole, viene quotidianamente celebrata. Quali sono le conseguenze di questo processo? Il capitalismo tecno-nichilista è destinato a vincere? Questo paradigma va cambiato radicalmente o è sufficiente operare dei correttivi?
Attraverso la combinazione tra il denaro e l’innovazione tecnologica aumentano potenzialmente i mezzi per raggiugere i fini che ci si immaginava. Questo produce la nascita di un soggettivismo sulla base del quale ognuno decide in base ai propri gusti. Apparentemente questo dovrebbe descrivere un mondo di libertà tendenzialmente infinite. La verità è che il soggettivismo tecnologico ha le sue leggi – una tra tutte la velocità – che richiedono ad ognuno di noi di adeguarsi ad esse. Ad esempio nel lavoro viene chiesto di essere il più possibile flessibili. L’idea di fondo sottesa a questa visione del mondo è che ciascuno abbia la forza di costruire un senso a livello soggettivo. Ma questa idea è un’illusione. Non è possibile cambiare questo paradigma tecno-nichilista, non abbiamo nè le possibilità nè gli strumenti. Tuttavia qualcosa si può fare. Si può, prima di tutto, comprendere il problema e confidare sul fatto che l’uomo sia in grado di cogliere le contraddizioni del tempo come è già accaduto nel passato. Ma per far questo serve una consapevolezza maggiore, servono delle forme sociali e politiche che ci aiutino ad andare avanti. Segnalo in particolare tre temi che mi sembra stiano attivando questa consapevolezza: quello della sostenibilità, quello della disuguaglianza economica e sociale e la questione migratoria messa alla ribalta dalle reazioni fondamentaliste rispetto alla necessità di accogliere i profughi. Si tratta di impulsi che vanno analizzati e che danno il senso della dimensione di questi cambiamento. Un cambiamento ancora in fieri che va colto e incoraggiato.
Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ propone interessanti spunti di riflessione sul ruolo della tecnica e sulle conseguenze dell’applicazione dell’attuale paradigma tecnocratico sia sul piano sociale che su quello economico (capitolo 3 paragrafi 1 e 2). Cosa le ha suggerito la lettura dell’enciclica ed in particolare il capitolo terzo? E’ possibile opporsi all’attuale paradigma tecnocratico sul piano culturale, sociale, politico ed economico? Quali strade percorrere?
L’enciclica è importante e si colloca in una tradizione che parte dalla Rerum Novarum (1891), che affronta la questione del lavoro operaio, che prosegue con la Pacem in terris (1963) e con la Populorum Progressio che si interroga sul rapporto tra il Nord e Sud del mondo e che arriva alla Centesimus Annus (1991) negli anni che segnano la fine del modello sovietico. La Laudato si’ pone al centro il tema dell’ecologia umana e ambientale come questione di fondo. L’enciclica coglie il nodo di fondo: la presenza di un paradigma tecnocratico che separa ed estranea. Le tecnologie applicate al campo umano sono un esempio evidente di questa operazione di separazione. Il papa sottolinea, come aveva già fatto nell’Evangelii Gaudium, che tutto è connesso, unito, cattolico ossia universale. Il papa dice che la scienza e la tecnica sono buone, positive se mutuano questo principio relazionale che è costitutivo dell’universo oltre che dell’essere umano. L’enciclica ci invita a contrastare le derive disumanizzanti che distruggono la natura e propone una critica lucida al modello tecno-nichilista indicando un principio diverso: quello dell’unità.
La scienza e la tecnica sono due esperienze con grandi potenzialità generative ma anche distruttive? Come possono essere orientate? E’ possibile metterle finalmente a servizio dell’uomo?
Non bisogna operare una demonizzazione della scienza e della tecnica. Un atteggiamento oscurantista e luddista non va bene, non aiuta. La scienza e la tecnica e la stessa economia hanno dimostrato di essere in grado di produrre cose buone. Quello che bisogna combattere è l’assolutizzazione delle forme dell’economica e dell’organizzazione sociale che tendono ad escludere tutto il resto, come ad esempio la religione che, se torniamo al suo significato originario derivante dal termine latino religio, tiene insieme le cose, le lega. Tutto quello che non corrisponde agli standard viene scartato. Non si tratta di essere contro ma di cercare dei pesi e dei contrappesi valutando le conseguenze di alcune applicazioni tecnico-scientifiche.
Nel suo libro L’infarto dell’economia mondiale, introducendo il volume, lei afferma “L’uscita dalla crisi comporta di cambiare i nostri paradigmi mentali che ne sono il presupposto e di avviare una fase di innovazione economica, sociale, istituzionale” (p. 9). Quali sono questi paradigmi mentali a cui fa riferimento? Come si può ristabilire una relazione virtuosa tra economia e società, tra efficienza tecnica e sviluppo umano?
Dal 1989, ossia dalla caduta del muro di Berlino, abbiamo vissuto un ventennio in cui si è registrata una dinamica espansiva dell’economia e quindi un periodo fecondo di crescita collettiva. Nel settembre 2008 con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, questo processo si è interrotto ed è iniziata la grande crisi che in questi anni ha prodotto tanta sofferenza. Si è trattato di un vero e proprio infarto del cuore del sistema finanziario mondiale che si era fondato sull’illusione di un’espansione illimitata. Per venti anni è stata portata avanti l’idea che la liberalizzazione avrebbe fatto crescere l’economia e conseguentemente anche la società. Quest’idea si è dimostrata falsa. Il problema che abbiamo di fronte è come stabilire una relazione tra sviluppo economico e sociale. Senza sviluppo umano non ci può essere un sviluppo economico duraturo. Un vero sviluppo economico deve andare di pari passo con lo sviluppo sociale che in qualche modo ne costituisce il limite. La finanza non può andare per conto suo.
Il libro Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi, scritto con sua moglie, sostiene che il tempo in cui viviamo è ricco di opportunità da cogliere e propone cinque linee di indirizzo per investire sul futuro che chiamano in causa le capacità, la responsabilità personale e la voglia di collaborare per la costruzione del bene comune. Quale messaggio intendete lanciare? A chi è rivolto il vostro invito?
Il pensiero generativo è una risposta al tecno-nichilismo, è un modo per uscirne. I processi sono collegati tra loro. Il pensiero generativo riscopre il fatto che gli uomini e le donne sono liberi di agire. Nel tecno-nichilismo questa possibilità di libertà dell’uomo viene schiacciata. L’idea della generatività è tratta dal pensiero di Erikson che utilizza il concetto nello studio delle fasi evolutive dell’uomo e lo utilizza per qualificare lo stadio adulto della vita. La generatività è quindi un concetto che ci consente di superare l’idea esplorativa del mondo che corrisponde alla visione tecno-nichilista ossia l’idea di libertà intesa come possibilità di fare tante cose.
Nella prospettiva del pensiero generativo è importante invece scegliere di fare qualcosa che sia legato al mondo circostante, decidere di fare qualcosa per le generazioni future. In sostanza questo modo di concepire il mondo ci richiama alla nostra responsabilità personale e ci consente di applicare un criterio regolativo che può formare una base culturale che è in grado di andare al di là del soggettivismo e di correggere le storture del tecno-nichilismo: la crisi demografica dei Paesi occidentali, l’indebitamento che pesa come un macigno sui destini di interi popoli e nazioni, la questione ambientale e della sostenibilità. La soggettività del tecno-nichilismo pensa di sapere tante cose della nostra condizione ma in realtà non comprende in profondità. Bisogna fare lo sforzo di arrivare ad una comprensione delle principali tematiche sociali del tempo presente. In questa prospettiva occorre superare l’illusione di avere già pronte le chiavi interpretative della realtà.
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