È innegabile che i media, nell’ultimo secolo, abbiano rappresentato non soltanto un universo simbolico popolato da uomini (e donne), ma siano stati percepiti (dagli stessi uomini) come opportunità qualitative per alimentare la propria relazionalità e conoscenza. Eppure, nonostante questa loro centralità (o forse proprio per questo), i media soffrono di una palese mancanza: non si sa bene che cosa siano. Tutti ne parlano; si sprecano terminologie e interpretazioni. Si sa che sono digitali, che possono essere “caldi” o “freddi” (secondo una delle celebri descrizioni di McLuhan), personal, social, mobile, smart, open e anche educational. La riflessione sulle fenomenologie dei media, quindi, si traduce in tante spiegazioni parziali che invece di dipanare le controversie, erigono barriere, alimentano la confusione e impediscono una riflessione organica dell’oggetto in questione. Dunque, pur parlandone molto, è evidente che si sa davvero poco di cosa essi siano realmente.
Sono certamente strumenti e come tali vanno trattati, dispositivi tecnici, algoritmi complessi risultanti della ricerca e delle competenze dell’uomo. Ma sono anche ambienti (secondo la concettualizzazione più in voga negli ultimi anni), autentici territori abitati dall’uomo in una sorta di continuum esistenziale con quelli materiali, tangibili, offline. Questa dualità interpretativa attribuisce ai media uno status di “soggetto”, li rende capaci di azioni, li etichetta come attori sociali e culturali. Questa lettura che “soggettivizza” i media dimentica che i media altro non sono che la determinante dell’azione dell’uomo; essi sono proiezioni (da proiĕctus) dell’umano, ossia un loro progetto. Riflettono istanze, desideri, gioie e angosce di coloro che li pensano, progettano e creano.
Decodificare i media alla luce dell’umano, intenderli come mera rifrazione delle sue intenzioni, è l’unica chiave possibile per non cadere nella spirale di quello che Francesco (nell’Enciclica Laudato si’) definisce “paradigma tecnocratico”. Elevarli a soggetti, a idoli, a propulsori di consumo, di tendenze, a esclusivi soddisfattori di bisogni, orientare cioè la nostra vita in loro funzione e direzione, determina una “logica del dominio” da cui Papa Bergoglio mette certamente in guardia: «Di fatto la tecnica ha una tendenza a far sì che nulla rimanga fuori dalla sua ferrea logica, e “l’uomo che ne è il protagonista sa che, in ultima analisi, non si tratta né di utilità, né di benessere, ma di dominio; dominio nel senso estremo della parola”. Per questo “cerca di afferrare gli elementi della natura e insieme quelli dell’esistenza umana”. Si riducono così la capacità di decisione, la libertà più autentica e lo spazio per la creatività alternativa degli individui».
I media non possono dominarci perché i media siamo noi. Questo è l’assunto da cui partire, la consapevolezza che ci rende in grado di vivere con bellezza e libertà gli ambienti mediali. Ogni resa verso derive autodominanti smentisce il senso autentico di questo legame (tra media e uomo) sacrificando e scarnificando quella cultura dell’incontro e della prossimità tanto auspicata da Francesco e che i media (come proiezioni dell’uomo) possono contribuire ad affermare e diffondere.