Chi sta cercando di farlo è invece la società civile: la questione delle spese militari è divenuta, negli ultimi anni, uno snodo centrale del lavoro delle aree pacifiste anche in Italia grazie all’azione di diverse campagne. L’obiettivo è quello di esplicitare il naturale legame tra la volontà di costruzione di un futuro di Pace – magari con una prospettiva nonviolenta – e le azioni di disarmo e di abbattimento della spesa per acquisti armati. Complice anche la crisi economica dei tempi che viviamo, sottolineare in maniera negativa gli investimenti armati e agire quindi per una “pars destruens” informata ed efficace di quella che è la situazione attuale delle scelte pubbliche su armamenti, guerra, strutture militari è apparso ed è risultato più semplice che in passato.
Anche grazie alla situazione di crisi economica generalizzata, è semplice dimostrare l’inutilità e insensatezza del complesso di spesa militare, mondiale ed anche nel nostro Paese, che non riuscirà mai a sanare le situazioni di chi si trova in difficoltà quotidianamente nella propria vita, con il proprio lavoro e nella propria famiglia. Questa concreta dimostrazione di insensatezza, che si può legare anche alla sottolineatura degli ingenti interessi privati connessi alla produzione di armi, è una strada che bisogna continuare a percorrere. Ma bisogna farlo fino in fondo: sbagliato sarebbe fermarsi alla lettura che vede nel disarmo e nelle sue campagne solo uno strumento “tecnico” di contrasto alla guerra e alle imponenti risorse che vengono messe a disposizione delle forze militari tutto il mondo.
Gli armamenti, o meglio l’industria a produzione militare che li sforna, non si “usano” solo durante i le guerre ma forniscono base al consolidamento di un sistema che punta alla risposta armata come unica strada (mostrata quasi come “naturale”) per risolvere i conflitti. Una lunga fase di preparazione, culturale e politica oltre che economica e strutturale, in cui ingenti risorse si perdono e vengono bruciate. E’ in questo momento, magari anche molto lontano da quello dell’esplosione di violenza, che le politiche di guerra vengono tracciate e le risposte possibili vengono accuratamente selezionate: solo quelle “armate” verranno messe a disposizione delle scelte della politica nei momenti in cui una necessità internazionale o una problematica particolare saranno sotto gli occhi di tutti e non potranno più essere “ignorate”. E magari verranno anche condite con strumentali considerazioni di ordine economico ed occupazionale, opportunamente ben gonfiate.
Uno scenario che ci deve far riflettere per arrivare ad una nuova elaborazione di pace, figlia diretta di un’azione di disarmo, che deve essere chiaramente e correttamente considerato come una strada privilegiata ed una forma di liberazione imprescindibile. Perché si tratta di un processo che pone in questione e problematizza, come mai fatto fino in fondo, un impianto politico internazionale complessivo ed una prospettiva di scelta che ci viene falsamente somministrata, al contrario, come un dato di fatto.
Quella che dobbiamo costruire è un’alternativa “sistemica” di natura economica, politica, sociale... capace di agire non solo nel momento del conflitto, o solo con l’idea banale delle armi “brutte, sporche e cattive”, ma in tutte le fasi che preparano la guerra e le sue drammatiche conseguenze.