Data la complessità del fenomeno migratorio, poiché diversissimi fattori vi concorrono, c’è una evidente difficoltà a proporre un’unica teoria esplicativa, allo stesso tempo onnicomprensiva ed esaustiva, che chiarisca le motivazioni di fondo degli spostamenti delle persone. Sussistono invece delle visioni parziali, generalmente provenienti dai diversi settori disciplinari di studio, in grado di spiegare alcuni aspetti del fenomeno senza però avere pretese onnicomprensive. In questo contributo si tenterà di fornire una davvero sintetica prospettiva geografica e geopolitica della mobilità umana.
In via preliminare, va specificato che la maggior parte delle interpretazioni degli studiosi punta a spiegare le cause scatenanti i flussi migratori in base a fattori di spinta e di attrazione. Le cause che spingerebbero ad abbandonare il proprio Paese sarebbero molteplici: peggioramento delle condizioni economiche, squilibri demografici, degrado ambientale, mancanza di prospettive professionali per il futuro, instabilità politica, violazione dei diritti umani, trattati internazionali e confini arbitrari. Tra le cause di attrazione verso un certo Paese ci sarebbero: aspettative di migliori condizioni di vita, presenza di opportunità di lavoro, minore densità demografica, conoscenza di modelli di vita occidentali e di sviluppo industriale, maggiore modernizzazione, divario tecnologico.
Nella combinazione tra fattori di spinta e attrazione le condizioni geografiche giocano, naturalmente, un proprio ruolo, sia come essenza stessa del movimento delle persone attraverso diversi spazi geografici – basti ricordare termini evocativi, associati all’esperienza del movimento: nomadismo, colonizzazione, esplorazione, viaggio, conquista, pellegrinaggio, esodo, traversata – sia come costituenti di un “contesto” storico-ambientale. D’altronde, l’individuazione di contesti territoriali di migrazione è antichissima: l’esodo biblico, il mito di Itaca, le Colonne d’Ercole, ci parlano di aree di fuga rimaste nelle tradizioni prima che nella storia, nonché di terre agognate, “promesse”, dove ricominciare o dove tornare.
Le teorie “geografiche” sulla migrazione cercano, dunque, di correlare la mobilità delle persone al territorio come spazio organizzato dalle società umane e all’ambiente naturale e costruito. Dalle teorie del geografo Ernst Ravestein (1885 – nel ritratto a fianco), pioniere degli studi geografici sulle migrazioni, fino a quelle più moderne, diverse motivazioni sono state prese in considerazione: la strutturazione del sistema-mondo in centro e periferia, la peculiarità delle zone di confine, le aree di gravitazione, l’utilità del sito, i cambiamenti climatici e il degrado ambientale, la transizione demografica della mobilità, il passaggio dalle zone rurali a quelle urbane e così via.
In effetti, i movimenti di popolazione hanno reso possibile la diffusione della specie umana nei continenti, dall’Africa, ritenuta la culla dell’uomo anatomicamente moderno, all’Asia occidentale, all’Europa e poi verso l’Asia orientale, arrivando nelle sue fasi finali alle Americhe e poi all’Australia. La dispersione e distribuzione geografica dell’umanità hanno quindi permesso la colonizzazione da parte dell’uomo di vari territori, passando attraverso diverse abitudini, così affinando tecniche di sopravvivenza e contribuendo a complessi processi di selezione umana. In definitiva, dalla mobilità indotta dal cercar cibo a quella legata all’attività agricola, dall’occupazione di terre alle invasioni barbariche, dalle scoperte geografiche al colonialismo, dagli esodi di massa all’attuale globalizzazione migratoria, la storia della popolazione è stata segnata da spostamenti geografici.
Da quando, però, quasi tutto il territorio del mondo è controllato dagli Stati e tra di essi non ci sono più spazi geografici non sottoposti a sovranità – le cosiddette terre nullius – migrare non significa solo cambiare luogo ma anche varcare un confine. È chiaro quindi che uno dei principali attori nel processo migratorio, oltre ai migranti stessi, è lo Stato, quale organizzazione territoriale di partenza o di accoglienza. E malgrado oggi la triade proposta più di cento anni fa dal fondatore della Geografia politica Friedrich Ratzel nel suo monumentale Politische Geographie (1897) “suolo, popolo, struttura politica”, mostri le sue crepe sotto i colpi dei flussi migratori e di quelli finanziari, il binomio Stato-confini proposto dallo stesso Ratzel resta un riferimento concettuale solido nella mente di molti e nelle pratiche degli attori delle relazioni internazionali.
Infatti, nonostante le diverse forme di interconnessione planetaria e gli accordi di integrazione sovranazionali che avrebbero dovuto indebolire la struttura statale facendola divenire non più esclusiva e primeggiante nello scenario globale, gli Stati continuano a mostrare attenzione al controllo del loro territorio. Anzi, si può affermare che dopo anni di apparente – almeno in alcune aree del mondo – distensione, si assiste a ciò che il geografo Michel Foucher (2007 – nella foto) ha definito l’«ossessione per le frontiere». Insomma, lo Stato tramite i suoi confini, siano essi ben controllati o meno, solleva questioni di jus territoriale che frammentano le dinamiche migratorie. Malgrado ciò, tutti i grandi imperi così come gli Stati moderni che hanno lasciato il loro marchio nella storia, sono stati organizzazioni territoriali dotate di grande diversità culturale, derivante appunto da movimenti e incroci tra popolazioni.
La recente globalizzazione migratoria ha poi esteso, velocizzato e intensificato i movimenti delle persone. Fino a qualche decennio fa, infatti, tale fenomeno è stato circoscritto a qualche paese di accoglienza e a qualche altro di partenza, in uno spazio di relazione spesso caratterizzato da un passato coloniale. Dagli anni Ottanta, una nuova modalità migratoria si è verificata grazie soprattutto a innovative e meno costose forme di mobilità e a ampliate tipologie di migranti, originari di zone geografiche riconducibili principalmente all’Asia Centrale e Orientale, all’Africa e all’Europa dell’Est. Al momento, nessun paese del mondo può essere considerato estraneo al fenomeno della globalizzazione: come per altri flussi quali commercio e investimenti, il numero crescente di persone che attraversa le frontiere può essere considerato tra gli indicatori più efficaci della globalizzazione. Se è vero, però, che la maggior parte dei flussi migratori si è diretta verso i paesi del Nord del mondo, è altrettanto evidente la crescita della migrazione verso quelli del Sud del mondo, un fenomeno trascurato e probabilmente sottostimato, data la difficoltà di trovare statistiche affidabili.
In ogni caso, la mobilità delle persone si è diffusa su parti molto vaste del mondo, cambiando il volto di quasi tutto lo spazio dell’ecumene e diventando un poderoso fattore di comunicazione interculturale. Resta evidente, però, che alla globalizzazione degli oggetti si è contrapposta una “tribalizzazione” delle persone spesso identificate, negativamente, con i territori di provenienza. Vale a dire che la globalizzazione migratoria è avversata: l’economia richiede migranti, la società tende a respingerli.
In Europa, l’Accordo di Schengen, consentendo la libera circolazione delle persone all’interno dei paesi aderenti, ha radicalmente modificato la geografia politica delle migrazioni e, di conseguenza, la geopolitica migratoria degli Stati interessati, conferendo loro una dimensione sopranazionale prima di allora sconosciuta. Dopo l’Accordo, infatti, le frontiere esterne si sono “spostate” nel senso che ora esse coincidono in gran parte con quelle dell’intera area Schengen. Tali frontiere, su cui preme un significativo numero di aspiranti migranti, risultano molto più facilmente controllabili quando sono costituite soltanto da aeroporti, com’è il caso, ad esempio, della Germania (che accoglie, comunque, il maggior numero di richiedenti asilo), mentre lo sono molto meno quando sono anche terrestri, com’è il caso della Polonia, e marittime, come nel caso dell’Italia.
In sostanza, con l’accordo di Schengen nasceva in seno all’Europa quella che è una contraddizione in termini: da un lato si aveva la pretesa di creare, per la prima volta nella storia del Vecchio Continente, un confine sovranazionale, dall’altro si relegava a un ristretto numero di Stati, quelli confinanti con gli Stati extra-UE, l’onere di sorvegliarlo facendosi carico dell’individuazione e del rimpatrio di eventuali clandestini provenienti da paesi terzi. Evidentemente, il “peccato originale” insito sin dall’inizio nell’Accordo di Schengen ha avuto pervasive conseguenze geopolitiche, sociali e giuridiche, non solo per gli Stati membri dell’UE confinanti con aree extracomunitarie, in particolare con paesi terzi del Mediterraneo, ma indirettamente per tutto il resto dell’Unione.
In conclusione, appare evidente non solamente che i movimenti migratori alle frontiere dell’Europa non abbiano ragione di arrestarsi nel prossimo futuro, ma anche che la gestione di questi movimenti e delle loro conseguenze politiche, sociali ed economiche, debba essere necessariamente europea. Occorre una nuova e più forte consapevolezza da parte di tutti gli Stati europei volta a superare gli egoismi nazionali al fine di continuare a garantire quel complesso di valori, acquisiti grazie anche al processo di integrazione europea, come pace, democrazia, diritti dell’uomo, Stato di diritto, libertà e mobilità. Valori per i quali i migranti decidono di attraversare le frontiere dell’Europa per inserirsi nelle sue società, e irrinunciabili, si spera, per gli europei stessi.
Per approfondire
Alfonso Giordano, Movimenti di popolazione. Una piccola introduzione (Luiss University Press, Roma 2015.
Alfonso Giordano, Limiti. Frontiere, confini e la lotta per il territorio, Luiss University Press, Roma 2018.
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