La mobilità sociale è uno dei miti fondanti delle società occidentali. Nei trent’anni che Thomas Piketty ha definito “gloriosi” – gli anni compresi tra il 1945 e il 1975 – essa ha permesso a molti figli delle classi meno agiate di raggiungere, attraverso l’impegno e lo studio, una posizione sociale migliore di quella esperita dai genitori. Negli ultimi tempi, però, la mobilità sociale sta conoscendo all’interno delle società atlantiche un deciso arresto, che non accenna ad attenuarsi. Con la grande recessione del 2008, i meccanismi di avanzamento sociale si sono inceppati, generando nei cittadini la consapevolezza che alle generazioni future saranno destinati minor benessere e minori opportunità di quelle conosciute dai padri e dalle madri; questa consapevolezza ha provocato il diffondersi di profondi sentimenti di insicurezza, concretizzatisi nella “paura di cadere”, di perdere quanto con fatica acquisito.
L’idea che le generazioni future staranno peggio di quelle precedenti incide profondamente sulla psiche individuale e sui vissuti collettivi, soprattutto se accompagnata dalla sensazione che i figli delle cosiddette élite non si trovino ad affrontare le stesse difficoltà. La paura, fondata su dati oggettivi, determinati dall’arresto del progresso sociale, provoca reazioni soggettive di difesa, rancore e risentimento sia nella classe media, sia nelle classi popolari, accomunate dal timore di essere trascinate nelle spirali della mobilità sociale discendente.
Molti scienziati sociali usano il termine “mito” per indicare la mobilità sociale ascendente perché conoscono la grande stabilità intergenerazionale che caratterizza le classi sociali, come insegnano, per esempio, le ricerche di Gregory Clark, storico inglese, che ha effettuato delle analisi longitudinali sullo status socio-economico in otto paesi (Cile, Cina, Corea del Sud, Giappone, Inghilterra, India, Stati Uniti, Svezia), trovando che la mobilità sociale è ovunque più bassa di quanto comunemente creduto. I cognomi delle famiglie dominanti secoli fa risultano, infatti, ancora associati alle élite in modo statisticamente significativo anche nei paesi più egualitari, come la Svezia. Risultati simili sono reperibili in Italia; due economisti, Guglielmo Barone e Sauro Mocetti, hanno confrontato, per esempio, i dati del catasto di Firenze del 1427 con i redditi dichiarati dai contribuenti fiorentini nel 2011, trovando che le posizioni sociali delle 807 famiglie i cui cognomi sono ancora presenti in città (sui 1885 del 1427) risultano molto simili nelle due rilevazioni.
Nei paesi OCSE, la mobilità nei guadagni attraverso le generazioni si sta abbassando negli ultimi decenni; l’elasticità di guadagno intergenerazionale, vale a dire la probabilità di ereditare il reddito dei genitori, risulta elevata nel Regno Unito, in Italia e negli Stati Uniti, più bassa in Australia, Canada e nei paesi scandinavi. L’economista canadese Miles Corak ha nel 2013 dimostrato l’esistenza di un preciso legame tra disuguaglianza e scarsa mobilità sociale: i paesi a più alta disuguaglianza, come l’Italia e gli Stati Uniti, sono anche quelli in cui si registra una minore mobilità sociale.
Nonostante tali dati, la mobilità sociale continua a essere invocata come un valore centrale delle società occidentali e della società statunitense in particolare, un valore che risulta però funzionale all’accettazione delle disuguaglianze. Un’indagine condotta nel 2015 negli Stati Uniti da Shai Davidai e Thomas Gilovich, con l’ausilio di un campione rappresentativo della popolazione, ha posto in luce l’esistenza di una diffusa sovrastima dell’entità della mobilità sociale ascendente, accompagnata da una parallela sottostima dell’entità della mobilità sociale discendente. Si tratta di risultati facilmente comprensibili, se si pensa al mito del “sogno americano”, per il quale la ricchezza deriva dall’impegno e dalle capacità individuali e la povertà dalla loro mancanza, idee che rafforzano il sistema e pongono in luce un profondo e condiviso desiderio di credere nella sua legittimità.
Lavori recenti hanno, da un lato, confermato la sovrastima della mobilità sociale ascendente e la sottostima della mobilità sociale discendente e, dall’altro, evidenziata una relazione tra le credenze relative alla mobilità sociale e le tendenze alla giustificazione del sistema: pensare che esista un’elevata mobilità sociale va infatti di pari passo con la fiducia nella meritocrazia e la credenza che il mondo nel quale si vive sia un mondo giusto, in cui ciascuno ottiene ciò che merita. Le credenze relative alla mobilità intergenerazionale non sono tuttavia omogenee nei paesi occidentali; una recente indagine su tali credenze e la loro influenza sugli atteggiamenti relativi alle politiche di redistribuzione in cinque paesi (Francia, Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Svezia) ha rivelato che gli americani sono più ottimisti degli europei e gli italiani i più pessimisti di tutti (Alesina et al., 2018).
Come è noto, alcuni imprenditori politici stanno cavalcando i timori cui si è accennato, strumentalizzandoli e manipolandoli a fini di propaganda politica, aiutati dal fatto che i partiti di centro e di sinistra non hanno colto in tempo l’impatto e la pericolosità della perdita di fiducia. Populisti e sovranisti stanno così riuscendo a far leva sul risentimento provocato in ampi strati della popolazione dalla sensazione di essere stati abbandonati di fronte a difficoltà sempre più grandi e difficili da affrontare. Il risentimento è un’emozione complessa, che trae origine da sentimenti di debolezza, impotenza e autosvalutazione, i quali vengono repressi e trasformati in ostilità verso chiunque sia percepito come concorrente nella corsa per l’accaparramento delle risorse, percepite come sempre più scarse. Questo stato d’animo è esacerbato dalla sensazione di precarietà, veicolata dalla globalizzazione, per cui tutti si sentono potenzialmente superflui e facilmente sostituibili. Una consapevolezza diffusa anche tra coloro che godono di una posizione relativamente agiata, ma temono di perdere i vantaggi acquisiti.
Sono questi vissuti negativi a far sì che oggi molti individui si stiano allontanando dalle identità sociali tradizionali, basate sulle appartenenze lavorative, per cercare la propria identità in appartenenze in un certo senso più primitive, legate alla nazionalità, all’etnia, alla religione, al genere. Si tratta di forme che ricordano il nazionalismo tribale, descritto da Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo, che attribuisce alla comunità di sangue la base per l’inclusione e l’esclusione dalla cittadinanza e nasce proprio da un vissuto di inadeguatezza e inferiorità, a cui si reagisce moltiplicando l’ostracismo nei confronti delle minoranze. Nel clima di disorientamento che ci circonda, queste identità stanno purtroppo ridiventando fonti attraenti di significato e autostima e contribuiscono a diffondere ostilità verso i più deboli, gli immigrati soprattutto, e fiducia nei partiti sovranisti che delle identità tribali si ergono a difensori.
E’ interessante notare che gli atteggiamenti negativi verso gli immigrati e il sostegno ai partiti contrari all’immigrazione sono reperibili in due gruppi tra loro molto diversi: il gruppo di coloro che vivono in una situazione socio-economica precaria e vedono quindi, più o meno realisticamente, negli immigrati dei competitori e il gruppo di coloro che, per la loro favorevole collocazione sociale, non dovrebbero sperimentare tali sentimenti, ma sono angosciati dalla paura di perdere i vantaggi acquisiti. L’instabilità economica influenza infatti tutti: sia chi ha poche risorse, sia chi ne ha molte sperimenta una profonda inquietudine causata dall’incertezza del futuro. Proprio agendo su tali sentimenti i partiti populisti di destra si rivelano capaci di attrarre voti in regioni prospere e meno prospere, sia tra i votanti delle classi avvantaggiate sia tra quelli delle classi meno avvantaggiate.
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