Con la locuzione “mobilità intergenerazionale” si fa riferimento alla misura in cui le condizioni socio-economiche dei padri influenzano quelle dei figli. Molti – e noi tra questi – ritengono auspicabile un’elevata mobilità, come segno di una società che tende all’uguaglianza delle opportunità. La mobilità intergenerazionale non ha però conseguenze solo in termini di equità ma anche di efficienza: qualora infatti le posizioni sociali fossero in qualche modo predefinite, si affievolirebbero gli incentivi all’investimento in capitale umano e si osserverebbero sprechi nell’allocazione delle risorse, ovvero nelle posizioni occupate da individui dotati ma privi di occasioni di ascesa sociale.
Gli economisti misurano la mobilità attraverso la correlazione tra lo status del genitore e quello del figlio (elasticità intergenerazionale). Prendiamo, per esempio, il caso del reddito. Un’elasticità pari a 0,5 (stima prevalente per l’Italia) indica che, preso un individuo medio, se il padre avesse avuto un reddito più elevato del 10% di quello effettivamente goduto, tale individuo avrebbe oggi un reddito più elevato del 5% (pari a 0,5 × 10%). Più in generale, un’elasticità prossima a 1 indica che le differenze iniziali si perpetuano tali e quali, vicina a 0 che lo status del genitore non influenza quello del figlio. L’Italia, per inciso, risulta tra i paesi meno mobili nel confronto internazionale insieme a Stati Uniti e Regno Unito.
Un quesito rilevante è se l’influenza delle condizioni familiari di origine si limiti a una generazione. Alcuni studi recenti hanno iniziato a mostrare che anche la correlazione tra lo status dei nonni e quello dei nipoti è significativamente maggiore di zero (sebbene inferiore a quella relativa al legame padre-figlio). Anche il ruolo dei nonni è pertanto importante: milieu familiare, sostegno economico, rete di conoscenze, etc. si trasmettono direttamente tra le due generazioni, oltre a quanto mediato dalla generazione di mezzo. Questa evidenza rinforza la vischiosità dei movimenti lungo la scala socio-economica: considerando due persone in punti diversi della scala, le differenze tra i loro discendenti impiegheranno più tempo ad annullarsi.
In un nostro recente studio (“Intergenerational mobility in the very long run: Florence 1427-2011”) ci siamo chiesti se frizioni alla mobilità possano persistere nel lunghissimo periodo (quasi 600 anni, circa 20 generazioni da poco meno di 30 anni ciascuna). Per rispondere a una tale domanda, i dati disponibili sono evidentemente molto scarsi. Vi è però un’eccezione rilevante, quella della città di Firenze, sulla quale abbiamo quindi concentrato la nostra analisi. Si tratta di un carotaggio su 6 secoli che, pur limitato a una singola città, riteniamo rappresentativo di diverse realtà. Firenze è una città dell’occidente europeo dal grado di prosperità medio-alto sia nel ‘400 sia oggi e non dissimile dal molte altre città; inoltre, studi recenti mostrano che la mobilità oggi nella provincia di Firenze è non lontana dalla media nazionale. I risultati, quindi, possono avere una validità più generale e non limitata al solo caso di studio.
Abbiamo preso in esame i dati contenuti nel catasto della città nel 1427, che riguardano la ricchezza, l’occupazione e il reddito da lavoro dei circa 10.000 capifamiglia dell’epoca. Abbiamo quindi associato a queste informazioni, quelle provenienti dalle dichiarazioni dei redditi dei fiorentini per il 2011, collegando questi ultimi agli pseudo-antenati attraverso il cognome. Infine, abbiamo calcolato l’elasticità intergenerazionale relativa al reddito da lavoro e alla ricchezza per i circa 800 cognomi risultanti dall’incrocio delle due basi dati. I risultati sono davvero sorprendenti: la correlazione nei redditi tra pseudo-antenati e pseudo-discendenti non decade dopo un lasso di tempo così ampio. Infatti, l’elasticità intergenerazionale risulta statisticamente significativa e positiva (0.04), anche se ovviamente è inferiore a quella stimata per una sola generazione. Una correlazione analoga vale per la ricchezza immobiliare.
Nel nostro lavoro presentiamo diverse analisi di robustezza di questi risultati. Alcune riguardano la possibilità che i redditi e la ricchezza misurati nel 2011 siano sottostimati a causa dell’evasione fiscale, altre il fatto che la condivisione del cognome non assicura l’esistenza di un effettivo legame di parentela, altre ancora la possibile distorsione derivante dal fatto che i cognomi sopravvissuti nei sei secoli non siano rappresentativi dell’universo delle trasmissioni intergenerazionali possibili. In tutti i casi, i risultati sono confermati.
Tali evidenze condensano l’immagine di una società molto poco mobile nei secoli. Questo è particolarmente sorprendente se si pensa che nello stesso periodo la città è stata interessata da enormi sommovimenti politici, demografici e economici, come la riunificazione nel Regno d’Italia, il boom demografico del ‘900, la rivoluzione industriale e la terziarizzazione dell’economia, solo per citare quelli più rilevanti in tempi relativamente recenti. Com‘è possibile, dunque, che tracce di ereditarietà socioeconomica non trascurabili persistano nel lunghissimo periodo? Nel caso della ricchezza immobiliare, l’interpretazione è relativamente semplice: è la trasmissione per via ereditaria a rendere plausibile una tale, elevata, persistenza. Per il reddito le cose non sono così immediate. Le stime correnti sull’elasticità padre-figlio e su quella nonno-figlio non permettono di spiegare la persistenza su di un orizzonte così lungo: i valori sono tali che l’effetto delle condizioni di origine dovrebbe scomparire nell’arco di poche generazioni.
Una prima possibile interpretazione è che le stime oggi prevalenti non si applichino al passato, quando la mobilità era minore e, quindi, l’elasticità era maggiore (magari prossima all’unità). Vi sono ragioni forti per ritenere che le cose stiano in questi termini. Per esempio, l’accesso all’istruzione, fattore tradizionalmente associato all’ascesa sociale, è diventato di massa solo nella seconda metà del ‘900. Alcuni nostri risultati corroborano, dal punto di vista empirico, questa ipotesi mostrando che la mobilità nella Firenze del ‘400 fosse significativamente minore di quella odierna.
Una seconda possibile spiegazione risiede in un particolare aspetto della struttura della società. Ci spieghiamo meglio con un esempio. Immaginiamo il caso estremo di una società strutturata per blocchi sociali: gli individui si muovono tra generazioni solo all’interno del gruppo di appartenenza, con redditi che possono essere maggiori o minori di quelli dei padri, ma che restano comunque nell’intervallo del proprio blocco di appartenenza.
In un caso come questo si potrebbe avere un’elasticità intergenerazionale complessiva nell’ordine di grandezza di quella stimata oggi per l’Italia (0,5), senza però che questa decresca col succedersi delle generazioni. Naturalmente non vogliamo sostenere che la società fiorentina sia stata e sia di questo tipo estremo. Tuttavia potrebbe condividerne, in forma sfumata, alcuni tratti quali la bassa porosità tra blocchi. Queste caratteristiche potrebbero spiegare perché l’elasticità decade molto lentamente.
Cosa dicono i dati al riguardo? È difficile avere certezze. Tuttavia alcune evidenze riportate nel nostro lavoro suggeriscono che Firenze presenti, almeno in parte, questi tratti. Abbiamo considerato alcune professioni esistenti sia oggi sia nel ‘400, caratterizzate da prestigio sociale medio-alto, elevata specializzazione e reddito medio-alto e per le quali sono disponibili dati nominativi su chi le pratica. Si tratta di avvocati, banchieri, medici, farmacisti e orafi.
Collegando nuovamente, tramite i cognomi, i nominativi odierni a quelli degli pseudo-antenati, emerge che la probabilità di praticare una delle professioni appena elencate è significativamente maggiore se gli pseudo antenati erano “specializzati” nella stessa professione. Siamo, pertanto, di fronte alla narrazione statistica di dinastie professionali che si conservano nel tempo e ciò dà conforto all’ipotesi dell’esistenza di una struttura a blocchi, tra loro poco comunicanti, nel mercato del lavoro e, quindi, nella società.
* Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su Il Menabò di Etica ed Economia 30/2015; si ringrazia la redazione per aver permesso la riproducibilità del lavoro. Le opinioni espresse sono quelle degli autori e non possono in nessun modo essere riferite alla Banca d’Italia.
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