Come sarebbe questa Europa se, anche solo più banalmente, questi dieci milioni di cittadini avessero la percezione del proprio posto nella Storia e remassero tutti in una stessa direzione? Se a loro si aggiungessero tutti coloro che all’estero hanno fatto una breve o meno breve esperienza, ma poi sono tornati nel loro paese? E quelli che, in tutto questo movimento, magari si sono sposati, e hanno avuto dei figli bi-cittadini? E quanti milioni saranno, tra pochi anni, gli europei con una doppia cittadinanza in tasca, magari sin dalla nascita, come mio figlio?
Tra sessant’anni, saranno di più coloro che avranno vissuto questo genere di esperienze o quelli che non le avranno vissute? Ed ora, in mezzo al guado, come rispondere ai cori di sirene che ci vogliono riportare a riva? E quella riva, poi, tra l’altro, esiste ancora? Quel concetto, di Stato Nazione, ha viaggiato anche lui. Possiamo ragionevolmente pensare che possa tornare nei suoi confini?
Questo viaggiare, abbiamo imparato a chiamarlo con un nome, forse meno romantico, non sempre associato a casistiche fortunate: mobilità.
La mobilità è forse il frutto più evidente e bistrattato di questa nostra Unione. Più evidente perché l’abbiamo voluto intensamente e perché una generazione, la mia, l’ha spremuto fino a trovare normale continuare a militare in associazioni e partiti italiani pur vivendo all’estero, tenendo insieme due fili del viaggio e spesso tessendone una propria tela originale.
Più bistrattato, perché in questo viaggio tanti altri perdono le radici e l’appartenenza, e smettono di darsi da fare in un contesto collettivo, perché non conoscono a sufficienza i codici del paese d’adozione e/o perché recidono i legami con i codici del paese d’origine (spesso pieni di stizza per il modo in cui sono stati trattati, ci dicono gli studi, nel caso dei giovani italiani che emigrano).
E tanti, troppi, di quei più di dieci milioni di europei che vivono in un paese diverso da quello di nascita, finiscono per essere sospesi tra due mondi, senza riuscire a far sentire la propria voce né qui né lì e, soprattutto, non nell’Unione Europea. Nessuno ha mai detto loro che emigrare non necessariamente deve fare rima con ripiegarsi nel proprio privato, anche se ovviamente una prima fase di assestamento è necessaria. Nessuno spiega a chi parte come trovare l’aiuto dei connazionali all’estero, o che come cittadini comunitari abbiamo tanti diritti, per esempio quello di votare alle elezioni comunali e di scegliere, per il Parlamento Europeo, se votare per candidati del paese di origine o di residenza.
Cioè i frutti dell’Europa della mobilità rischiano di non essere colti perché si è piantato il seme, ma non si è predisposto il raccolto. Possiamo permetterci questo spreco, visto il contesto? E se non possiamo permettercelo, come evitarlo?
Da aclista non posso non pensare al ruolo dei famosi “corpi intermedi”: moltiplicare per i nostri militanti le occasioni di toccare con mano l’esperienza dell’Europa, nella profondità della sua storia di guerre, e poi per fortuna di pace stabile, con la prospettiva di una normalità raggiunta, che è quella di poter considerare tutto il territorio Comunitario come il luogo dove esprimere i nostri talenti e la nostra affettività, così come potremmo farlo in qualsiasi città italiana diversa da quella d’origine. Come fondatrice di Exbo, rete di bolognesi nel mondo, progettando (così come anni fa agganciammo alla questione della cittadinanza italiana all’estero, il tema della cittadinanza italiana per chi viene dall’estero) un incontro sulla mobilità intra e extra Italia, per lavorare insieme sui punti politici comuni delle esperienze, “normalizzare” l’esperienza dell’estero, e fare avanzare il più possibile le amministrazioni nella considerazione dei giovani in mobilità (votare e partecipare è complicato per noi all’estero, ma anche per chi vive fuori sede in Italia…).
Come presidente della Commissione Nuove Migrazioni e Generazioni Nuove all’interno del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero creando ponti coi nostri confratelli degli altri paesi dell’Unione (portoghesi all’estero, francesi all’estero…), come ci siamo impegnati a fare anche in sede di Commissione territoriale Europa e Nord Africa dello stesso Consiglio, magari partendo proprio dalle grandi metropoli in cui collettività di tutti i paesi dell’Unione vivono stabilmente da tempo, fondendosi nel tessuto sociale urbano, ma senza dimenticare i contesti non urbani, spesso più sinceramente europeisti, grazie a tradizioni di gemellaggi, scambi, perché no, pellegrinaggi medievali….
E questo, per elencare solo le prospettive ristrette del mio operare quotidiano. Ma una volta scosso l’albero dei frutti della mobilità, il raccolto resterà ancora da fare, perché si sposterà su un terreno politico. Quante strutture sono disposte a valorizzare le esperienze di mobilità all’interno delle proprie compagini? Quante liste alle amministrative, alle regionali, alle politiche, alle Europee penseranno, finalmente, a lasciare un piccolo spazio di espressione anche a chi ha vissuto l’Europa e la può testimoniare con la propria vita e il proprio sguardo? Non sono certo vie nuove. Una critica feroce a tutti i partiti, diciamo, Novecenteschi, che avrebbero potuto già pensarci e farne un tema da tempo, ha la sua legittimità. Ma l’orizzonte dei nuovi movimenti, che nascono come potenziale alternativa ad essi, non mostrano certo una vocazione spiccata per queste tematiche.
Eccoci qui, dunque. Con frutti maturi sull’albero che l’agricoltore non vede nemmeno. Forse queste tempeste (che a mio avviso non sono nemmeno i populismi o le minacce terroristiche, ma, a monte, una perdita del senso del vivere insieme) servono davvero a far cadere per terra una parte del raccolto perché qualcuno si decida a organizzarne il salvataggio. O magari, visto che nella parte della mela spiaccicata al suolo non mi ci vedo, queste tempeste serviranno a sfrondare un po’ di foglie e aiutare a vederci meglio. Sicuramente se non saremo noi per primi ad associarci e a risplendere al sole con la nostra grinta e le nostre proposte, limitiamo di gran lunga la possibilità di un riconoscimento. E questo, ovviamente, vale per tutti. Per chi vive all’estero (che di modi per impegnarsi ce ne sono, non fate gli struzzi!) come anche per chi non ha avuto certo bisogno di passare le frontiere per sentire nel proprio cuore l’urgenza dell’incontro con l’Altro e per capire che, nel contesto geopolitico mondiale, marciare da soli, significa perdersi nel bosco, non guadagnare un raccolto in più.