Ondate di populismo che rischiano ormai di diventare fiumi in piena hanno gioco facile, ai nostri giorni, nell’addebitare all’Unione Europea ogni motivo di insoddisfazione, additandola come la causa di tutti i mali: crisi economica, perdita di migliaia di posti di lavoro, impoverimento del ceto medio, scivolamento di larghi strati della popolazione verso l’indigenza, taglio del welfare, sfiducia nella classe politica, forse persino il terrorismo internazionale e le catastrofi naturali trovano nell’UE la propria supposta origine. Non si tratta, solo, di un evidente insulto all’intelligenza umana, ma anche del venir meno del concetto di ‘responsabilità’ che già il Max Weber de La politica come professione ci ricordava dover essere necessariamente associato alla teoria e alla pratica politica, onde evitare che prevalga l’etica della “convinzione pura”, che favorirebbe – questa sì! – l’emersione di radicalismi ed estremismi. Alla domanda se l’UE sia (ancora) un beneficio per i cittadini è sufficiente rispondere, provocatoriamente, che essa rappresenti una necessità, una tappa inevitabile dell’evoluzione dello Stato-nazione. Non il traguardo finale, purtroppo, quanto uno step intermedio. Ecco, dovremmo rispondere – aumentando il livello della provocazione – che serve “più Unione Europea”, non meno!L’UE è semplicemente un intralcio e una delle cause delle difficoltà che imbrigliano l’azione dei Governi nazionali, rendendola poco efficace? Come farebbe oggi uno Stato-nazione europeo a competere nello scenario globale? Con il mondo multipolare dei nostri tempi non è più sufficiente “scegliere” tra il modello capitalista e quello socialista, che non esiste più, se non nella forma del capitalismo di Stato cinese. Paesi con risorse immense – dal punto di vista naturale, minerario, energetico, demografico – sono ormai diventati protagonisti dell’economia, non più semplici comprimari: l’India, il Brasile, la Corea del Sud, il Sudafrica, un domani il Sud-Est asiatico e le avanguardie africane. La Cina continua a crescere a un ritmo impensabile per i Paesi europei – anche se sarà fatalmente destinata ad aumentare il livello dei salari – mentre i Paesi del Golfo Persico ormai hanno acquistato una decisa autonomia in politica estera. Non si può prescindere da un’unione continentale: l’Europa, d’altronde, lo ha insegnato ad altre macro-aree, che si sono andate formando in Africa, Latino America, Asia. Sarebbe paradossale che proprio noi tornassimo indietro, magari alla dimensione “sovranista”, di cui in tanti si riempiono la bocca, come se fosse una rassicurante coperta di Linus.Come è possibile rinnovare e rilanciare il patto fondativo che è alla base dell’UE?Portandolo finalmente a compimento nella pienezza delle sue premesse e nella consequenzialità del proprio percorso storico, che in origine certo non si limitava alla dimensione economica e meno che mai a quella finanziaria, che oggi continua a condizionare completamente l’economia reale. La vita di una comunità, però, vuol dire ben altro: vuol dire solidarietà, vuol dire mutuo aiuto, vuol dire progetti comuni, vuol dire sicurezza. Vuol dire, soprattutto, valori condivisi, sicuramente plurali, ma non sbiaditi o addirittura taciuti, in nome di un male interpretato relativismo che produce società grigie, depresse e deboli, nelle quali, purtroppo, la vita sembra valere poco.
Che ruolo può avere il recupero delle radici cristiane?
Mi permetto di fare riferimento all’esauriente saggio di Flavio Felice all’interno de Per un nuovo inizio, il volume recentemente pubblicato con la curatela del sottoscritto e la volontà, da parte dell’Istituto, di indurre la comunità scientifica e la società civile a una riflessione sul progetto comunitario. Flavio Felice ricorda la pastorale europeista dei diversi pontefici, l’ispirazione tratta dalla dottrina sociale della Chiesa, il ruolo degli statisti cattolici, soprattutto l’evidenza per cui le radici cristiane sin dall’origine siano state il traghetto per l’inclusività, il rifiuto della guerra, la solidarietà, l’aiuto verso i più deboli. Anche dentro l’Europa unita ‘cristianesimo’ ha significato ‘libertà’: per questo motivo le comuni radici ebraico-cristiane e quelle greco-latine non sono in contraddizione, quanto complementari. Una lezione ancora più importante, ai giorni nostri.
Come si possono riconquistare i popoli ad un progetto europeo volto al futuro e ad una missione di pace e di sviluppo sociale nel mondo?
Sembra impopolare ricordarlo oggi, ma nel corso di questi sessanta anni popolazioni europee di diversa sensibilità politica – a volte con ideologie addirittura opposte tra loro – sono state convintamente europeiste, “a turno” oppure in contemporanea. Vogliamo forse dimenticare il grande anelito all’Europa pacificata che caratterizzò l’immediato secondo dopoguerra? Oppure la richiesta per un incisivo e autonomo intervento europeo, quando gli opposti imperialismi Usa e Urss esportavano i conflitti nelle rispettive aree di influenza? Dobbiamo ricordare come la destra – per la quale non nutriamo alcuna simpatia – abbia a lungo chiesto un’Europa protagonista, che non omogeneizzasse le identità nazionali e che fosse capace di emanciparsi dalla logica dei due blocchi contrapposti? Anche la sinistra, ancora all’inizio del Terzo Millennio e persino presso le sue più giovani generazioni, guardava con speranza all’Unione Europea, nel momento in cui il radicalismo islamico aveva compiuto il terribile attentato delle Torri Gemelle e gli Usa avevano risposto esacerbando il conflitto: diverse ricerche empiriche condotte presso i partecipanti al Forum Sociale Europeo di Firenze, nel 2002, descrivevano le aspettative per un’Europa che potesse guidare il mondo intero verso il traguardo della pace, ovviamente insieme a quelle autorità religiose, non solo cristiane, che non fossero affette dal virus dell’estremismo. Dove sono andati tutti quei giovani? Hanno radicalmente cambiato opinione? Sono irrimediabilmente persi, rispetto alla causa europea?
Pensiamo di no. Siamo fermamente convinti che vivano solo una fase di confusione e di incertezza, la stessa – peraltro – che a volte coglie anche noi. Per riconquistarli è necessario ripartire, a livello europeo, dalla pace e dai diritti. Un volume che l’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” ha recentemente pubblicato (La costruzione della pace nell’Europa del secondo Novecento, curato da Umberto Gentiloni Silveri, Gianni La Bella e Stefano Palermo) riassume con completezza il binomio tra ‘pace’ ed ‘Europa’ lungo l’intera seconda metà del XX secolo. Una lezione per il presente e per il futuro, non solo un ricordo del passato.
Perché il progetto di costruire un’unione politica dell’Europa rischia di fallire?
Non si può dire che stia fallendo, ha subito sicuramente colpi potenzialmente ferali con la crisi economica del 2006-2007 e poi con la cosiddetta “Brexit”, ma non è stato annichilito. Lo dimostra il recente voto olandese, nel quale l’anti-europeista – oltre che xenofobo – Geert Wilders non ha avuto l’exploit che si temeva. Ovviamente, purtroppo, i voti pro-Europa sono meno “mediatici” di quelli “anti-” e fanno meno rumore, ottenendo un’attenzione inferiore a quanto meritano. Altrettanto ovviamente le altre votazioni attese per i mesi che verranno (Francia e Germania in particolare) descriveranno un quadro più nitido sul futuro dell’Unione. A tal proposito è bene precisare un aspetto: ‘Europa unita’ non significa un continente senza radici, svincolato dai confini, privo di valori. Non significa neanche un territorio esposto passivamente ai trafficanti di morte, che lucrano sulla disperazione dei migranti in fuga da guerre, persecuzioni religiose e fame.
Non significa, infine, un’unione sovranazionale che promuova la “guerra tra poveri”, europei contro migranti, tedeschi contro greci, italiani contro rumeni, tutti impegnati ad “arraffare” gli ultimi brandelli di uno Stato sociale che non esiste più. Se ciò accadesse gli anti-europeisti, i razzisti e i fanatici dell’autoritarismo avrebbero vita facile e l’Unione Europa conoscerebbe un’esistenza estremamente breve. No: il progetto politico del continente unito non può essere scisso da una profonda riflessione sui limiti da porre al capitalismo sfrenato, alla finanza che domina sull’economia, al calo drammatico dell’occupazione, al totale ritiro dello Stato dall’intervento nel mercato. La crisi economica che ci affligge ormai da quasi un decennio può ancora essere, paradossalmente, “un’occasione” per l’Unione Europea, se Bruxelles riuscirà a invertire la tendenza, fino a poco tempo fa premiante per i derivati e altre tipologie di speculazioni finanziarie, e indurre gli imprenditori e le imprese a produrre valore attraverso il lavoro e non la “finanza creativa”. Anche da qui passa il ripristino della fiducia verso la classe dirigente europea, esattamente come l’invenzione del welfare produsse, per gli Stati-nazione usciti in macerie dalla II Guerra Mondiale, un clima sociale favorevole, che si tradusse nei cosiddetti “Trenta [anni] gloriosi”.
Cosa sta minando il progetto dell’unione monetaria ed economica dell’Europa?
In un bel lavoro recentemente pubblicato dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Il sistema monetario internazionale: dall’approccio egemone a quello multivalutario, i due curatori – Olga Marzovilla e Gian Cesare Romagnoli – ricordano come tanto l’era di Bretton Woods, quanto quella del dollar standard siano terminate, in favore di una stagione caratterizzata dal pluralismo valutario. All’interno di un sistema monetario pienamente globalizzato, i due economisti fanno notare come l’euro abbia oscillato in misura addirittura maggiore del dollaro, nonostante questo sia la moneta dello Stato da cui è partita la terribile crisi finanziaria dei mutui subprime. È la debolezza della governance comunitaria la motivazione di tale oscillazione, da cui la nostra ferma convinzione della necessità, per la politica, di tornare a “imbrigliare” l’economia all’interno di regole certe, eque e condivise. A coloro che pensano che ciò non possa accadere dentro l’UE rispondiamo che, al contrario, può avvenire solo dentro l’UE!