Sarebbe bello pensare a quel 25 marzo 1957 come all’inizio di una storia irreversibile ed inattaccabile ma, dopo 60 anni, il dibattito istituzionale e pubblico è lanciato sulla confutazione dell’idea di Europa come luogo di governo e di comunità. Dalla scelta (termine non casuale) di coltivare spazi politici comuni aldilà dei confini nazionali, siamo passati ad un messaggio di costrizione che le regole continentali danno sulle policy dei singoli stati.
Se diamo uno sguardo alla storia del nostro continente, i decenni di pace sono stati pochissimi e solo l’Unione Europea è stata una garanzia per la convievenza pacifica. Oggi la “retorica populista” sta introducendo una dinamica nuova di separazione quando un leader rivendica una sorta di monopolio morale nella rappresentazione della realtà per la quale chiunque vi si opponga diventa nemico della gente. È il rigetto del pluralismo, dove le mediazioni sono tradotte come un impaccio.
La dinamica di rancore si sviluppa intorno ad alcuni concetti chiave sui quali scaricare le tensioni e far ripartire la giostra del conflitto. Sembra una dinamica astrusa, fuori dal tempo ma è assolutamente reale ad attuale. Regole, burocrazia, integrazione. Questi sono i feticci utilizzati da chi ha iniziato ad attaccare con violenza verbale il processo di integrazione europea, senza nessuna cura di analizzare in profondità le sfide che i processi economici globali ci pongono e per le quali è necessario ripartire dalla storia e dalla cultura europea.
Esattamente storia e cultura, perché anche noi europeisti convinti non riusciamo a declinare profondamente le ragioni dello stare insieme. “Lo spazio culturale del Continente è sempre stato più ampio dello spazio economico e politico” come scrive il saggista Christian Salmon. Invece abbiamo costruito lo storytelling europeo sui trattati economici, come se la creazione di un grande mercato fondato su una unione doganale e sulla libera circolazione delle merci e delle persone costituisse di per se’ una visione salvifica. Adesso, però, cosa c’è di ispirato quando la politica e la pubblica opinione si confrontano, in gergo burocratico, su tappe, compensazioni, deficit? Ancora peggio: per quanto continueremo a cercare di definire, con conseguenti conflitti, l’identità culturale dell’Europa senza tenere conto che Dante, Joyce, Picasso, Pasolini mescolavano tempo, spazio ed hanno attinto fuori dalle frontiere identitarie.
Allora, se proviamo a dare questa chiave di lettura al futuro politico del continente per i prossimi cento anni diventa sempre più urgente uscire il più velocemente possibile dalla logica del momento per cui la politica legge e corregge trascinata solo dalla contingenza. Le ricette costruite con questi criteri sono destinate ad essere superate dalla società ancor prima che vedano la luce. Le sfide del nostro futuro sono tre e tutte legate indissolubilmente: mantenere la pace e promuovere la convivenza tra popoli, abbattere le disuguaglianze economiche e di accesso alla cultura e alla educazione, salvare il pianeta dalla mano invasiva dell’uomo.
Gli strumenti del passato non sono più sufficienti per garantire la pace. Le nuove dinamiche mondiali che vedranno Cina e USA (con la presenza attiva e ambigua della Russia) confrontarsi sul piano della leadership mondiale aprono spazi di politica impressionanti. Il protagonismo europeo, unico interlocutore che potrebbe essere capace di equilibrio, sarà fondamentale. Non solo, quindi, l’organizzazione di un sistema difensivo europeo integrato (finalmente) ma anche una presenza unica all’interno della NATO per bilanciare il peso di un America che cambierà segno nelle relazioni con l’Europa, scommettendo sulla sua disgregazione. Una presenza di stabilità sempre più forte nel continente africano perché, aldilà della retorica, sarà la vera sfida per una crescita globale giusta e nella pace in un continente cruciale anche per il futuro economico e demografico dell’Europa.
Poi c’è la grande questione del governo dell’economia mondiale: rimanere uniti è l’unica speranza contro una dinamica nazionalista che porterà solo minus nelle economie dei singoli stati. Come è possibile pensare di passare da un governo sovranazionale che media con potenze molto più coese, demograficamente ed economicamente forti, ad una serie di accordi tra nani e giganti che avvantaggeranno solo i secondi? Questo però non può significare investire solo per essere competitivi: il pilastro economico, come abbiamo visto vero motore e motivo dell’integrazione europea, deve agganciarsi al pilastro sociale che permetta a tutti i cittadini europei di riconoscersi tali: educazione, cultura e sostegno. Gli Stati diano gli strumenti all’Unione Europea per raggiungere l’obiettivo della consapevolezza, perché non sono più sufficienti i progetti Erasmus a costruire integrazione.
Anche se la sensibilità ambientale è notevolmente cresciuta negli ultimi anni, il modello economico e i governi delle potenze mondiali fanno pensare ad una incredibile retromarcia sugli obiettivi e gli standard che faticosamente erano stati fissati. Solo l’Europa più tenere la barra dritta sul mantenimento degli impegni presi e, soprattutto, nell’innalzamento degli standard produttivi ambientali. Ci carichiamo sulle spalle un problema di dimensione planetario ma, a quanto pare, siamo gli unici che ne comprendono il valore. Per questi obiettivi i trattati non sono sufficienti e chiedono una rivisitazione, come auspicato dallo stesso Presidente Mattarella nel suo discorso alle Camere.