Se la dignità di ogni essere umano è la stessa, non dovremmo sforzarci di superare ogni differenza di pesi e misure che incentivi o tolleri la “delocalizzazione” di pratiche vietate perché considerate incompatibili con il suo rispetto?

Il 2 febbraio, al termine di un convegno organizzato da tre diverse associazioni, è stata firmata in una sala dell’Assemblea Nazionale a Parigi la Carta per l’abolizione universale della maternità surrogata. È un testo che usa un linguaggio molto duro, ma che ripropone nella sostanza due ben note obiezioni, che il filosofo Michael Sandel, nel suo fortunato volume Justice. What’s the right thing to do?, aveva indicato come il problema del vizio del consenso e il problema della mercificazione e svilimento di «cose che il denaro non dovrebbe comprare» (si parla, è evidente, della forma a pagamento di questa pratica, che va comunque distinta dalla maternità surrogata oblativa o per solidarietà, che è a titolo gratuito). Il vizio del consenso: nella Carta si sottolinea come dietro questi “contratti” sia spesso fin troppo facile trovare non un vero esercizio di autonomia, ma le pressioni multiple di «rapporti di dominazione familiari, sessisti, economici, geopolitici». La mercificazione e lo svilimento del «valore intrinseco» delle persone, che non può essere ridotto a quello d’uso o di scambio: è «in nome dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani» che si chiede di agire con fermezza per raggiungere l’obiettivo dell’abolizione universale.

Sono gli argomenti utilizzati dal giudice Wilentz, presidente della Corte suprema del New Jersey, per ribaltare il verdetto di primo grado su un celebre caso dal quale Sandel prende le mosse per la sua riflessione su questo tema. Il carattere autenticamente volontario di simili accordi può essere irrimediabilmente inficiato dal bisogno di denaro: è lecito dubitare che coppie sterili con un reddito basso possano rivolgersi con successo a madri surrogate «appartenenti ai ceti che godono di un reddito più alto». E il consenso – conclude il giudice – non avrebbe comunque nessuna rilevanza, appunto perché «in una società civile vi sono cose che il denaro non può comprare». È la linea seguita dal legislatore italiano nella Legge 40 del 2004, senza distinguere fra la forma dietro compenso e quella oblativa della pratica: l’art. 12, comma 6, punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro «chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità».

Ci sono allora due domande alle quali rispondere. La prima è semplice e chiara: è giusto chiedere che questa proibizione subisca la sorte di molte altre, che erano previste appunto dalla Legge 40 e sono state smontate pezzo dopo pezzo dalla Corte Costituzionale e dalla magistratura? Ed è giusto immaginare che questo avvenga sia nell’ipotesi di un rapporto fra le parti gratuito (che sembra peraltro essere rara nella pratica) sia quando c’è chi paga e chi viene pagato? Anche l’art. 3, comma 2, della Carta di Nizza sancisce «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro», ma sono in molti a sostenere che questa limitazione della libertà individuale sottende una concezione paternalistica o senz’altro oppressiva della nozione di dignità, che non dovrebbe essere utilizzata per impedire scelte che non comportano violazione dei diritti e della libertà di altri. E se è vero che il disagio economico può rappresentare un condizionamento tale da creare asimmetrie fra ricchi e poveri nella realizzazione di pratiche che possono risultare moralmente controverse, è ugualmente vero che la maternità surrogata, nel linguaggio degli economisti, può apparire un accordo win-win, a maggior ragione nella sua dimensione di mercato globale. Essa – questo è un esempio ricordato da Sandel – può consentire alla cameriera di un paese lontano dall’Europa e che ha uno stipendio di 25 dollari al mese di guadagnare venti volte tanto, mentre il committente realizza il suo desiderio ad un costo per lui vantaggioso. La maternità surrogata a pagamento è un problema di mezzi e fini. Questi sono i mezzi. Il fine (soddisfare il desiderio di avere un figlio da amare) non può essere voluto e realizzato a prescindere da essi. E dunque anche dei mezzi dobbiamo parlare.

La seconda domanda riguarda la maternità surrogata come ultima frontiera del cosiddetto turismo procreativo. Non c’è più bisogno di andare all’estero per praticare la fecondazione eterologa e lo smantellamento di questo divieto ha aperto semmai un problema diverso: la commercializzazione dei gameti continua ad essere impossibile e la scarsità di donatori ha costretto i Centri a cercare di ovviare al problema rivolgendosi all’estero. Chi sceglie la strada della maternità surrogata continua a farlo andando in uno di quei paesi dove essa è consentita. E questa pratica non rientra fra i comportamenti e le azioni che vengono sanzionati dal Codice penale anche quando vengono commessi all’estero da cittadini italiani. Deve essere considerata legittima la richiesta di quanti, in attesa di un efficace bando universale, ritengono che, in questo caso, il nostro legislatore non dovrebbe disinteressarsi completamente di quel che gli italiani fanno lontano da casa, essendo in gioco diritti umani fondamentali che abbiamo il dovere di proteggere per tutti? I problemi sono evidentemente enormi, anche perché deve essere garantita in primo luogo la tutela del “terzo debole”, dei bambini venuti al mondo attraverso un accordo di questo tipo. E cresce il numero dei casi e delle sentenze che aprono scenari complessi e non sempre coerenti.

Se la dignità di ogni essere umano è la stessa, non dovremmo sforzarci di superare ogni differenza di pesi e misure che incentivi o comunque tolleri la “delocalizzazione” di pratiche vietate perché considerate incompatibili con il suo rispetto? Anche questa domanda può avere risposte diverse. È però doveroso porla.

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