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Proponiamo un’intervista a Dario Sacchini, docente di bioetica presso l’Università del Sacro Cuore e consigliere nazionale dell’Associazione Scienza & Vita, già  consigliere nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo per l’ambito famiglia

E’ lecito parlare di diritto al figlio?
Per rispondere alla domanda occorre riferirsi anzitutto ai termini. Qui il termine diritto si riferisce alla sua dimensione soggettiva, comunque intesa: “un potere o una signoria della volontà, attribuita al singolo dal diritto oggettivo”, “un interesse protetto”, “la facoltà accordata dal diritto oggettivo a un singolo individuo di esigere una determinata condotta da altri soggetti, ovvero la garanzia normativa di una utilità (bene, prestazione) sostanziale e diretta a favore del soggetto titolare” (cfr. www.treccani.it). D’altra parte, il termine figlio lessicalmente è il “generato rispetto ai genitori” (cfr.www.treccani.it) in riferimento ad un essere umano frutto dell’atto generativo da parte dei generanti, per l’appunto i genitori. La parola dice anche sia della comune esperienza di ogni uomo per la quale siamo tutti figli (pur se non tutti genitori) – sia del rinvio al nostro ingresso nel mondo così come alla realtà della persona umana, che rappresenta il valore per eccellenza di una qualsiasi società che voglia definirsi a misura del “valore-uomo”.

Pertanto, l’espressione “diritto al figlio” pone una immediata questione pre-giuridica, cioè antropologica, ovvero se un essere umano possa essere “oggetto” di diritto da parte di terzi, perché ammettendo ciò si intuisce immediatamente il rischio di strumentalizzazione (reificazione) della persona, pur fatte salve le migliori intenzioni e il desiderio della prole da parte di chi pone tale diritto come, ad es., una coppia che soffre di infertilità/sterilità. Dunque, una persona umana, un figlio eccede senz’altro la sfera dei diritti soggettivi ponendosi al contrario come valore eminente, intangibile, irrinunciabile e inalienabile, soggetto (e non oggetto) di diritti. Ecco perché allora il pur comprensibile e lodevole desiderio di genitorialità non può realizzarsi a costo del profondo rispetto – indipendentemente ed oltre le personali visioni del mondo – di ogni uomo, del valore-uomo che è il figlio. Risulta allora antropologicamente più adeguato parlare del figlio come “dono”.

Quali questioni sociali ed etiche apre la pratica della maternità surrogata?
Le questioni socio-etiche poste dall’affidare ad una donna estranea alla coppia committente, comunque assortita, la gestazione di un embrione fecondato “in vitro” con ovulo e/o sperma di terzi sono rilevanti, senza considerare le criticità generali poste dalle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) extracorporea che possiamo così sintetizzare: a) la “perdita” programmata di embrioni prima durante e dopo l’effettuazione della PMA; b) la “dis-umanità” del luogo e del modo in cui viene generata una vita umana: gesto tecnico e non frutto di un atto personale dei due membri della coppia; c) nel caso delle tecniche eterologhe (cioè con utilizzo dei gameti esterni alla coppia), sia la rottura dell’unità parentale e familiare sia la mancata coincidenza dell’identità biologica del concepito con quella sociale; d) le possibili derive eugenistiche.

A questi aspetti critici, per la maternità surrogata se ne aggiungono di ulteriori. In primo luogo, la manipolazione corporea del nascituro che riceve il patrimonio genetico da due persone (non necessariamente i futuri genitori sociali), mentre riceve dalla madre surrogata nutrimento e comunicazione vitale intrauterina che crea un attaccamento (bonding) del bambino con la mamma. Ne consegue pertanto un abuso sul figlio, trattato “de facto” come un esemplare animale e non quale persona che ha il diritto di riconoscere i propri genitori e ad identificarsi con essi. Di non minore rilievo è anche la strumentalizzazione tanto della madre surrogata quanto dello stesso nascituro in nome di una logica mercantile, senza omettere il violento riduzionismo della donna a mera incubatrice.


Lei è favorevole alla sua regolamentazione?

Per le ragioni che abbiamo provato a spiegare in precedenza, ritengo non vi siano giustificazioni per una legislazione sulla materia, dal punto di vista dell’irrinunciabile valore di ogni persona umana all’interno di una comunità civile maturamente laica.

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