Limitandomi alla mia disciplina, la psicoanalisi, vorrei aggiungere qualche pensiero al bel libro di Giuseppe Laganà, così esauriente e originale, in modo da poter suscitare ulteriori riflessioni.
Partendo dal mio lavoro, l’ascolto psicoanalitico mi ha portata a pensare, forse anche a causa della mia vecchia formazione kleiniana, che l’attitudine invidiosa è propria della competitività degli esseri viventi. Come si dice proverbialmente l’invidia muove il mondo ed essa non riguarda soltanto colui che invidia ma anche chi si fa invidiare.
Muove il mondo nel senso che la competitività estrema, che è mossa dall’invidia, è sempre alla ricerca di una vittoria onnipotente o della distruzione della cosa (la chose) invidiata e desiderata. L’invidia primaria deriva dall’onnipotenza della madre che il neonato inerme (hilflosigkeit) sente nei suoi confronti quando non condivide l’illusione di essere un tutt’uno con lei (Winnicott) poiché, diversamente dagli animali che nascono e subito acquisiscono un’autonomia, l’uomo morirebbe se non ci fosse qualcuno pronto ad accoglierlo e ad accudirlo.
Questa relazione profonda madre-bambino, che dovrebbe durare fino alla pre-adolescenza, dà origine ad un crescente sviluppo del funzionamento mentale ma è contemporaneamente anche causa di deviazioni o di patologie psichiche.
Se la relazione madre-bambino, aiutata da un ambiente sufficientemente buono e da un padre protettivo, può tollerare e vivere la disillusione, il bisogno di onnipotenza sarà abbandonato e l’invidia si placherà. L’invidia secondaria, che tutti proviamo verso gli altri più capaci di noi, non è così insidiosa e distruttiva come l’invidia primaria, essa anzi può essere uno stimolo a migliorarci, una speranza che ci sprona a diventare più simili a coloro che invidiamo.
L’invidia primaria, che Giotto ha dipinto a Padova nella Cappella degli Scrovegni tra i sette peccati capitali, è la fonte di tutte le calamità umane: la guerra, i massacri, le rapine, la corruzione e la sopraffazione.
L’individuo mafioso si identifica nell’onnipotenza del clan, che è un’espansione narcisistica del sé, fino al punto da far trionfare un Super Io primitivo, che non include la modalità riflessiva umana riguardante una qualsivoglia morale o cultura.
Viviamo in una società tipicamente fondata sulla disuguaglianza economica e sociale, dove si “vede” e quindi si invidia il benessere e la ricchezza di un parte, costruita sullo sfruttamento dell’altra, prima a livello rurale, poi a livello metropolitano e infine industriale, politico e globale.
Il mafioso quindi è colui che crea un sistema vittorioso e inarrestabile perché fondato sulle stesse leggi del capitale e della politica corrotta, in sostanza è la legge primitiva del più forte antecedente al contratto sociale.
Per ottenere il denaro che serve a mantenere il potere la ‘ndrangheta, nella più completa psicopatia, uccide ed elimina in modo estremamente invidioso e crudele tutti coloro che non sottostanno o che vorrebbero ostacolare le sue leggi, anche se queste persone fanno parte della sua famiglia. Tutto ciò che non si adegua al contesto mafioso viene dunque soppresso e anche i riti raccapriccianti sono esibiti con fierezza per dimostrare come solo la spietatezza possa essere l’antidoto dell’invidia che circoscrive fedelmente il territorio narcisistico.
Poiché la religione è parte fondante e necessaria di questo territorio essa viene coltivata come un’arma metafisica che serve a preservarla. Invece la difesa terrena che mantiene unito nel tempo il legame mafioso, trasformandosi in funzione della decadenza sociale, è l’onore.
L’onorata società dispensa lavoro e protezione ai sudditi in nome dell’onore. Dobbiamo aggiungere che il deterioramento della società civile è anche l’effetto di un’infiltrazione subdola e dilagante dell’onorata società.
Nel contesto della ‘ndrangheta la donna svolge una funzione onnipotente ed asessuata di contenitore senza poteri che lega e tiene unito il progetto narcisistico del clan.
È come una madonna chiamata a dover rappresentare, curare e sostenere sia l’ascesa del potere che il dramma del crollo.