Ci sono stranieri perché ci sono differenze e confini. E stranieri, di conseguenza, vengono definiti popoli, costumi, lingue. Il sostantivo e l’aggettivo si caricano facilmente, nel linguaggio comune, di una connotazione di diffidente cautela, appunto perché segnalano il limite di inclusione delle appartenenze fondamentali che sono la trama del vissuto quotidiano. Il significato giuridico è più preciso: sono stranieri – secondo la definizione della Enciclopedia on line Treccani – coloro che appartengono per nazionalità a uno Stato diverso. E questa alterità non è soltanto una condizione alla quale ci rapportiamo a frontiere chiuse, peraltro con la consapevolezza che tutti, da questo punto divista, siamo stranieri, altri degli altri.
Lo straniero è l’ospite, affidato dagli antichi greci alla protezione di Zeus Xenios. Lo straniero è l’immigrato, dal quale pretendiamo obbedienza alle leggi e con il quale, tuttavia, non condividiamo tutti i nostri diritti. È davvero lunga l’ombra del concetto schmittiano del politico. Fra amico e nemico corre la linea di una distinzione fondamentale e insormontabile, che indica il grado estremo di intensità di una unione o di una separazione: non c’è bisogno che il “nemico” sia moralmente cattivo o si proponga come un minaccioso concorrente economico, perché anche quando risultasse vantaggioso concludere affari con lui egli resterebbe comunque l’altro, cioè appunto lo straniero (derFremde).
La filosofia si confronta oggi anche con la figura dello “straniero morale” teorizzata da H. Tristram Engelhardt Jr. come protagonista del pluralismo che taglia con la lama dell’incompatibilità di principi e valori la comunità stessa dei cittadini, costretti ad ammettere che non condividono premesse sufficienti a risolvere controversie su aspetti decisivi della loro vita. Risultato: il modus vivendi non è più semplicemente uno strumento della politica internazionale “realista”, ma uno dei tratti salienti delle istituzioni di una società liberale.
Queste linee di frattura e di conflitto, che in molte parti del mondo continuano purtroppo ad essere la benzina della violenza e dello scontro militare fra comunità e stati, non si ricompongono con un appello ai buoni sentimenti. Il modello della “città affidabile” proposto da Papa Francesco già nella enciclica Lumen Fidei propone un’alternativa che è insieme teologica, culturale e politica. Teologica, perché basata sull’idea che l’esperienza della fedeltà di Dio all’intero genere umano è il presupposto del cammino di edificazione e preparazione «di un luogo nel quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri». Culturale, perché sfida il modello che, intendendo l’alterità come estraneità, non può che produrre la convinzione che l’unità fra gli uomini sia concepibile «solo come fondata sull’utilità, sulla composizione degli interessi, sulla paura».
Ben diversa è la «architettura» dei rapporti che si costruisce nella tensione al bene comune che è alimentata dalla «gioia che la semplice presenza dell’altro può suscitare» e si dispiega nel tempo di una identità narrativa aperta alla trasformazione e, conseguentemente, alla contaminazione con lo straniero. La città abitabile è infine una proposta politica, perché impegna al «al servizio concreto della giustizia, del diritto e della pace». Il volto dello straniero diventa la traccia di una meta e di una visione comuni, secondo l’intuizione sottesa anche alla tradizione e al vocabolario dei diritti umani universali. Per i quali non si danno (non si dovrebbero dare…) differenze e confini.