Proponiamo un’ampia intervista a Cesare Moreno, Presidente dell’Associazione Maestri di Strada di Napoli, di cui è stato socio fondatore

Partiamo dalla vostra esperienza. La missione dei Maestri di Strada è la cura dell’educazione per presentare ai giovani un mondo che abbia un senso per loro. Come cercate di realizzare questo obiettivo? Con quali strumenti?

Il primo strumento è aiutare chi aiuta. Lo facciamo con diverse figure: gli educatori, gli insegnanti, le associazioni sociali e i genitori. Queste persone dovrebbero sostenere i ragazzi; alcuni riescono a farlo anche professionalmente mentre altri non hanno una preparazione adeguata. Oggi gli adulti sono di fronte a sfide e riposte educative molto difficili. Come parlare ai ragazzi, ad esempio, di un fatto come quello di Manchester? E’ evidente che gli adulti sono in difficoltà. La nostra esperienza si caratterizza per lo stare vicini a ragazzi che vivono situazioni difficili. Il nostro obiettivo educativo è quello di far crescere i ragazzi nella sovranità di sé negata per errori pedagogici e sociali. Crediamo nel valore dell’attività riflessiva, dello sviluppare un pensiero riflessivo sull’educazione partendo dall’esperienza che si costruisce giorno dopo giorno. Come Maestri di Strada crediamo che la fonte del sapere pedagogico venga dalla strada e non dai manuali. Crediamo in una pedagogia sociale che parta dalla conoscenza dai territori, che sono sempre diversi, come sono sempre diversi e mutevoli i ragazzi che incontriamo. La nostra missione è quella di far capire al mondo adulto e poi agli specialisti, che l’educazione è una cosa di cui si devono occupare tutti. In sintesi noi puntiamo i riflettori sull’esperienza nella convinzione che il pensiero pedagogico si costruisce proprio sull’esperienza.


“Ciascuno cresce solo se sognato”. Questa frase di Danilo Dolci è presente nell’home page del vostro sito. Ce la può spiegare a partire dalla vostra esperienza educativa rivolta ai giovani che incontrate?

Questa frase di Danilo Dolci è veramente sconvolgente rispetto ad un modo ordinario di pensare. La cultura di destra e di sinistra pensa ai giovani come un derivato delle loro condizioni sociali, delle “disgrazie” attraversate …
Ma i giovani non sono la conseguenza del loro passato. Bisogna sognare le persone, guardare lontano, andare verso qualcosa di irrimediabilmente nuovo. E’ necessario mettere in moto le aspirazioni dei ragazzi che non hanno sogni. Anche noi adulti dobbiamo sognare. Il nostro lavoro consiste nell’osservare, nel dialogare con i ragazzi nella prospettiva delle multivisione. Il nostro obiettivo è quello di operare una ricostruzione dei ragazzi da tutti i punti di vista. In questa prospettiva i genitori sociali e gli esperti (psicologi, pedagogisti) cercano di sostenete i ragazzi nei momenti più difficili. In particolare i genitori sociali, una figura che abbiamo ideato noi e che è effettivamente agita da alcuni genitori (diversi da quelli dei ragazzi da noi seguiti), realizzano un ruolo teso a far “raffreddare i conflitti” e a sostenere i ragazzi che sono più in disagio e che recano più “disturbo”. Questo avviene in un luogo specifico, che noi chiamiamo “spassatiempo”, dove i ragazzi anche attraverso alcune attività ricreative e ludiche (es. giochi da tavolo) di rasserenano, si rilassano. Si tratta di un luogo molto informale che ci aiuta molto a capire i ragazzi, a dialogare con loro. Ogni settimana realizziamo degli incontri che denominiamo di “multivisione” utili per ricostruire la personalità dei ragazzi, per avere una nuova e diversa visione di loro e per elaborare tutte le emozioni che il lavoro educative mette in movimento anche nei professionisti più esperti.

Non bisogna mai dimenticare che I ragazzi si specchiano negli adulti. Se l’immagine che gli adulti esprimono rispetto ai giovani è positiva, nel senso che gli adulti li giudicano e li vedono positivamente, questo fa un gran bene ai ragazzi. Se invece gli adulti inveiscono contro i ragazzi, li condannano, gli dicono che sono sbagliati, (la frase tipica è “finirai come tuo padre”), allora la situazione diventa pesante e i giovani possono rinchiudersi in loro stessi. Spesso osserviamo come i ragazzi vivano un’esperienza di ghetto. La vicenda della Balena blu ci racconta una storia tremenda e inquietante di ragazzi soli e isolati, che non hanno amici, che non hanno punti di riferimento. Voglio dire un cosa: i ragazzi sono belli. Li vediamo che cambiano faccia dopo un po’ di tempo con noi. Prima la loro espressione era rabbiosa ora invece sono sorridenti.


Il vostro lavoro parte da una constatazione oggettiva: i giovani sono confinati nella periferia degli interessi della società e soffrono per questo. Cosa fare per affrontare questo problema? Ci può raccontare in cosa consiste il vostro “sogno educativo”?

Periferia dell’anima, città e mondo sono connessi. Per far uscire i giovani dal ghetto bisogna far uscire dal ghetto le loro emozioni. Faccio un esempio. Un giovane che viene da Lotto Zero, una zona del quartiere Ponticelli, a Napoli, conosciuta per il degrado e l’alto tasso di criminalità, è arrabbiato perché viene considerato uno zero, un nulla solo perché viene da una zona degradata. Questi giovani sono etichettati come appartenenti ad un razza inferiore. Bisogna far fare a questi ragazzi – considerati un nulla solo per la loro provenienza urbana – una esperienza emotiva diversa. L’arte come esperienza educativa è fondamentale. I ragazzi hanno delle cose belle dentro che noi cerchiamo di portare fuori. Anche il teatro si sta dimostrando una esperienza importante perché consente ai ragazzi di esprimere cose straordinarie. Possono parlare di cose difficili; ad esempio attraverso la rappresentazione della commedia greca Lisistrata che parla dello sciopero del sesso fatto dalle donne per convincere gli uomini a fare la pace. I ragazzi hanno così resa pubblica la guerra che c’è in questo quartiere collocando la parte periferica di se dentro una prospettiva. E’ importante quindi uscire dai ghetti mentali. La scuola e l’educazione fatta bene sono fondamentali. La periferie devono quindi essere messe al centro.

L’obbiettivo educativo che ci poniamo è quello della sovranità di se anche cercando di riconoscere ed elaborare le parti rabbiose. Il nostro sogno educativo è quello di costruire un percorso personale in cui ciascuno si possa sentire libero di esprimersi. Vogliamo che i nostri giovani crescano e siano soddisfatti anche se non sono ai primi posti della scala sociale. Oggi la situazione di disuguaglianza sociale presente in Italia e nel mondo colpisce la dignità umana, è un sistema iniquo, una società assurda che istiga alla violenza. Noi promuoviamo invece modi di vita civili, legami umani solidali. La rabbia e l’odio fanno male a se stessi perché impediscono pensieri liberi, impediscono i sogni, ci rende prigionieri di pensieri fissi. Un educatore deve quanto meno allentare le maglie dell’odio e della violenza. Vivere buone relazioni restituisce a ciascuno dignità e rispetto. La ricchezza dentro esiste e ciascuno deve trovarla.


Nel mondo ed in Italia da alcuni anni si parla in modo più significativo di povertà educativa. Nella sua esperienza quali caratteristiche assume questo fenomeno? Chi colpisce in modo specifico? Quale connessione c’è tra povertà economica e povertà educativa?

Si parla di povertà educativa, di nuova povertà, di nuovi poveri. Io credo sia importante parlare di povertà di cittadinanza per comprendere i termini della questione. Ci sono infatti persone con un discreto livello di istruzione ma che hanno una povertà di cittadinanza. I diritti formali non sono esigibili per particolari condizioni sociali o psichiche. Spesso esiste un deficit di istruzione e di educazione che alimenta l’inesigibilità dei diritti. I diritti sono esigibili quando il soggetto è in grado di esigerli. Quindi ci sono persone che diventano nuovi poveri perché gli mancano i mezzi culturali per esigere i diritti. Qui voglio riprendere Don Milani che sottolineava come i diritti costituzionali come l’uguaglianza non dovesse significare per tutti i ragazzi diventare dottori in medicina o ingegneri ma consistesse invece nella possibilità di essere sovrani. Chi propone l’istruzione solo in modo utilitario come canale di promozione sociale, quando finisce l’ascensore sociale restano privi di argomenti.

Oggi l’istruzione non è più un ascensore sociale. Ma allora che senso ha oggi la scuola? La scuola deve aiutare i ragazzi a diventare sovrani. Per questo è necessario ripensare l’idea stessa di educazione ed istruzione. In questo senso credo sia utile riprendere le argomentazioni di Morin, la sua idea di sapere aperto perché complesso. L’educazione è un bene comune che va curato come un bene prezioso. Ad esempio si parla molto di acqua come bene comune ma se vediamo come si usa, come in alcuni casi sotto l’etichetta pubblica sia di fatto gestita come un bene privato. Senza una buona educazione non ci saranno mai dei beni comuni.


Da molti anni svolgete un lavoro formativo anche con gli insegnanti della scuola. E r
ecentemente avete avviato una collaborazione con Enaip Impresa Sociale sull’obbligo formativo. Che ruolo possono svolgere la scuola, la formazione professionale ed altre agenzie educative nella lotta contro la povertà educativa?  Ed ancora quale ruolo possono svolgere in particolare gli insegnanti?

Purtroppo rispetto alla formazione professionale la Regione Campania ha fatto molti disastri. La formazione professionale è molto importante per la crescita personale e sul piano della cittadinanza. Un ragazzo che ha lasciato la scuola, se riesce ad imparare un mestiere questo diventa una risorsa che lo aiuta ad avere una identità. Se un giovane non ha un mestiere diventa, uno che pensa che i diritti sono legati ai suoi deficit e mai alle sue risorse: dal punto di vista psichico, un accattone. Per noi fabbricare degli accattoni che vivono di accattonaggio è un cosa inconcepibile! E questo discorso non vale solo per Napoli ma per l’Italia nel suo complesso. La formazione professionale offre punti di appoggio concreti e possibilità di sviluppo. E’ un errore culturale considerare la formazione professionale come un ripiego. In realtà si tratta di un’esperienza di sviluppo dei giovani, di rilancio e consente loro di realizzare anche un processo riflessivo. Il progetto di Enaip Impresa Sociale sull’obbligo formativo – che per la prima volta viene fatto a Napoli – è legato al settore del benessere ed è rivolto a 24 ragazzi che abbiamo intercettano grazie al nostro consueto lavoro nei quartieri di Napoli. E’ un progetto importante per tutte le cose che abbiamo detto.

Rispetto al tema delle agenzie educative non vedo iniziative serie. Il Ministero della Pubblica Istruzione nei suoi progetti parla di scuola al centro ma si continua a pensare all’educazione come conseguenza dell’istruzione ma questa cosa non è vera. La scuola è l’unico luogo in cui è ancora possibile che i giovani stabiliscano legami tra loro e anche con adulti impegnati sul fronte educativo. Purtroppo più che esaltare il ruolo centrale o quello di presidio, occorre constatare la solitudine della scuola che spesso è restata sola lungo la frontiera che divide le generazioni, mentre in passato le famiglie erano più sociali, ed erano più presenti i luoghi d’incontro come le parrocchie o i circoli, che svolgevano un ruolo importante nel rapporto intergenerazionale. Si parla di scuola come presidio della legalità pensando soprattutto alla lotta contro le mafie, ma questo è riduttivo. La legalità giuridica si costruisce su solidi legami umani e soprattutto sulla solidarietà umana di cui poco si parla in quanto surrogata, ed è un errore, dalla solidarietà sociale che è tutt’altro. Il MIUR dice che la scuola si deve aprire verso il territorio; molte indicazioni ministeriali stanno favorendo questa dimensione ed anche alcuni provvedimenti regionali ma troppo spesso le scuole sono sorde a questo richiamo o lo intendono nel modo peggiore: estendere anche all’educativo e al sociale le metodologie scolastiche. Mi spiego con qualche immagine: quando vado a scuola ad incontrare i ragazzi la prima cosa che gli chiedo è: “Vi volete bene?”. La risposta è spesso negativa perché vedo che le classi sono spaccate. Non dico che bisogna essere amici di tutti ma i ragazzi devono imparare ad essere solidali e a cooperare. Questo elemento è ignorato dall’organizzazione scolastica che non prevede la collaborazione tra ragazzi e la partecipazione nel senso dei diritti agiti. Singoli insegnanti e singole scuole sono impegnati anche su questo fronte, ma la scuola come sistema non lavora su queste cose, non le pone al centro del lavoro educativo.

Da diversi anni stiamo tentando di fare un lavoro anche con gli insegnanti ma con scarsi risultati. L’insegnamento è ancora visto principalmente come naturale esito della competenza disciplinare con l’aggiunta di qualche dispositivo didattico. Manca una competenza a creare e gestire relazioni e soprattutto manca una sistematica attività riflessiva che permetta di apprendere dall’esperienza. Mancano strutture solidali e cooperative tra docenti. La solitudine del docente aggrava il peso delle incombenze burocratiche ma soprattutto è un fattore di stress psichico ormai dilagante. Non parliamo della collaborazione con altre figure: tutto è ridotto a “diagnosi” “segnalazioni” e quant’altro ma una fattiva collaborazione a gestire le difficili situazioni di classe, ogni cosa è pesantemente ingessata ed è difficile esercitare quella flessibilità creativa che è necessaria ad affrontare bisogni educativi sempre più differenziati, sempre più complessi.

Un solo esempio per tutti: ci sono istituti professionali dove ci sono decine e decine di docenti di sostegno: ne ho contato fino a 40, un esercito. Potrebbero essere una risorsa preziosa per impiantare attività riflessive e socioeducative in tutta la scuola, invece sono inchiodati ad un ruolo che per quanto poetiche circolari descrivono come aperto e sistemico, è confinato in una cornice strettamente individuale.

Io vedo una sofferenza crescente tra gli insegnanti massacrati da una organizzazione che adotta una parcellizzazione tayloristica quando questa è stata abbandonata persino nelle fabbriche: troppe richieste alla scuola, troppe incombenze burocratiche, troppa parcellizzazione, orari che dovrebbero essere oggetto di una reprimenda degli ispettori del lavoro e della medicina del lavoro.

A volte ho scritto che ci vorrebbe per i docenti una tregua umanitaria: non emettere nuove circolari, darsi una calmata e una gradualità con i progetti, revisionare i criteri per la gestione dell’orario di lezione. Ci sono docenti che insegnano due ore per classe e hanno 9 classi; incontrano 250 ragazzi di cui non ricordano neanche il nome. La scuola va organizzata in modo totalmente diverso. Non è possibile proporre sette discipline diverse in una stessa mattinata.

L’alternanza scuola-lavoro potrebbe essere un cosa buona per riformare le metodologie di apprendimento ma una buona fetta degli insegnanti la ostacola. E’ l’ennesima cosa buona messa in campo senza preparazione, senza gradualità, che viene rapidamente bruciata dalla routine e dall’opposizione pregiudiziale. Ai ragazzi bisogna far fare esperienze che li valorizzano, che li inserisce con dignità nei luoghi e nei processi lavorativi. Credo che centinaia di ore di alternanza scuola-lavoro da Mc Donald non sia un’esperienza che si muove in questa direzione.

Chiudo parlando di un’esperienza che stiamo facendo con il liceo psicopedagogico. I ragazzi di 17-18 anni, che studiano in questo liceo, vengono da noi per l’alternanza. Noi li utilizziamo nella peer education rivolta ai loro coetanei. Li facciamo osservare ed intervenire in situazione. Si sta rivelando un’esperienza entusiasmante per noi e soprattutto per i ragazzi del liceo che saranno futuri educatori. Notiamo che questi ragazzi stanno apprendendo molto bene e che riusciamo fargli capire delle cose che non riusciamo a far capire a molti adulti.

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