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La dimensione competitiva dello sport è davvero quell’ingrediente capace di sollecitare negli sportivi le peggiori azioni e intenzioni? Le patologie legate allo sport hanno un legame diretto con la ricerca della vittoria? Forse… Eppure la competizione racchiude anche il motivo per cui lo sport è, sempre e comunque, un’esperienza educante

Proverò a tessere un elogio della dimensione competitiva dello sport. Proverò ad esaltare quell’ingrediente capace di sollecitare negli sportivi le peggiori azioni e le peggiori intenzioni. É molto probabile che la gran parte delle patologie legate allo sport abbia un legame diretto con la ricerca della vittoria e perciò con l’agonismo. Eppure, la competizione racchiude anche il motivo per cui lo sport è, sempre e comunque, un’esperienza educante.

Qualcuno ha provato ad immaginare uno sport senza competizione, una sorta di esercizio fisico-artistico ispirato ai migliori sentimenti. Qualcun altro suggerisce un’attività sportiva a contenuto agonistico ridotto, tentando di declinare il motto olimpico in modo da eliminare sul nascere le aspettative di gloria e, soprattutto, le relative frustrazioni. Alla base di questi tentativi si può riconoscere un’ipotesi di lavoro abbastanza chiara: per rendere lo sport un’attività educativa è bene sottoporlo ad una severa rieducazione, basata sull’imperativo di moderarne la passione primaria: quella per la vittoria.

Non saprei dire se questa ipotesi di lavoro abbia come origine un pregiudizio sullo sport o sull’educazione. Fatto sta che moderare l’intensità delle passioni è un vecchio vizio di alcuni moralisti. Non dovrebbe esserlo per chi, con molte ragioni, ha tentato di riflettere sul valore educativo dello sport a partire da concetti come quelli di virtù e di carattere. Lo sport, si dice, può insegnare virtù quali la fortezza di fronte alle difficoltà, la temperanza di fronte ai successi, l’amicizia e il rispetto per compagni ed avversari, e così via.

Il riferimento alle virtù è certamente molto significativo. Proprio per questo è bene ricordare che a monte dell’esercizio delle virtù si trovai desiderio umano, una modalità di affrontare la realtà basata sulle dinamiche affettive. Se non desidero intensamente qualcosa nemmeno avrò modo di sperimentare quelle esperienze di attrazione e repulsione di fronte alle quali esercitarmi in un autogoverno virtuoso. Ecco allora perché ritengo opportuno lodare la competizione, perché in essa si rivela l’uomo reale, così com’è: un soggetto che desidera intensamente, capace di cacciarsi nei guai per un secondo in meno di cronometro, come di mostrare le migliori virtù per lo stesso identico secondo.

Competizione come “andare oltre”. Il gesto sportivo che richiama con più evidenza alla competizione è quello dell’oltrepassare. É un gesto che racchiude qualcosa del significato più proprio dell’attività sportiva. Nel mio sport, il rugby, segnare una meta significa oltrepassare una linea e schiacciare a terra il pallone: non solo arrivare alla linea di meta ma oltrepassarla. Segnare la meta è soltanto l’ultimo di una lunga serie di limiti superati: il campo stesso è attraversato da linee parallele che segnano le varie zone, a partire da quella difensiva sino a quella offensiva. Potremmo dire che le linee laterali rappresentano dei limiti da rispettare, pena l’uscita dal campo di gioco, mentre le linee latitudinali segnano dei limiti da superare per realizzare lo scopo del gioco.

Competizione come “duello”. Un limite molto particolare è costituito dall’avversario, colui che con la sua presenza mi ostacola nel soddisfacimento del mio desiderio. In questo caso, l’andare oltre si gioca rispetto ad un altro che come me desidera la vittoria. Un altro che metterà tutto se stesso nel tentativo di ottenerla al mio posto. La sua presenza rende tutto infinitamente più interessante, poiché mi costringere a dialogare con una situazione che possiede l’imprevedibilità della libertà umana. Si tratta di andare oltre l’avversario, aggirandolo, scartandolo o passandoci sopra, secondo quanto concedono le regole del gioco. Ma soprattutto c’è da esplorare un versante di azioni ed intenzioni indirizziate non soltanto verso qualcosa – la meta – ma anche contro qualcuno, il mio avversario. C’è un duello da onorare, sempre cercando di non uscire dalle regole, ma senza esclusione di colpi: pressione fisica e psicologica, simulazione e dissimulazione, strategia, aggressività, furbizia, mestiere. Insomma, un bel corpo a corpo di intelligenza e volontà volto a dimostrare non chi è il più bravo ma chi è il più forte. Nel duello ci si rivela come persone e non è un caso che fra avversari nascano vere amicizie.

Competizione come “ricerca di identità”. C’è, infine, un terzo limite da oltrepassare. È il limite che io stesso sono e che tento di superare sfidando soprattutto me stesso. Ogni sportivo conosce l’esperienza di esplorare i propri limiti. Migliorarsi è possibile anche perdendo, come anche al di fuori di un contesto esplicito di competizione. Al limite, anche il corridore della domenica accetta una sfida con se stesso tentando di aggiungere qualche chilometro al proprio tratto di allenamento. Ingaggiare la sfida con se stessi significa misurarsi. In questo sfidarsi c’è un chiara ricerca di identità.

Coltivare la competizione. Alla fine di questo breve elogio rimane aperta la domanda su come coltivare gli aspetti educativi della competizione sportiva, evitando quanto più possibile di favorire le patologie dello sport. La risposta potrebbe stare in una suggestione: quella per cui la meta non si segna raggiungendo l’ultima linea del campo ma andando oltre a quella. Non arrivando al traguardo ma superandolo. Non si tratta di moderare la passione agonistica quanto piuttosto di orientarla, coltivando sguardi capaci di ulteriorità. Di saper vedere attraverso la pratica sportiva e al di là di quella. Chi ama davvero sfidarsi troverà ampi campi di esperienza proprio al di là della linea di meta semplicemente prendendo sul serio l’ampiezza infinita del proprio desiderio.

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