Il progetto europeo è in pericolo. Sulle elezioni europee aleggia la minaccia del voto di protesta alimentata dagli euroscettici. Si teme il peggio. La paura sembra fungere da elemento catalizzatore che orienta le scelte, anticipando risultati negativi sul futuro dell’Europa. Ma questo sentimento può essere vissuto e trasformato in una emozione pro-attiva, capace di stimolare la produzione di strumenti sociali e politici tali da superare l’attuale situazione critica

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Il progetto europeo è in pericolo. Sulle elezioni per il rinnovo del parlamento europeo aleggia la minaccia del voto di protesta alimentata dagli euroscettici che fanno leva sulla disoccupazione dilagante e sulla stagnazione economica aggravata dalle politiche di austerity. I timori si spingono fino ad ipotizzare la conquista di quasi metà dei seggi del Parlamento europeo da parte dei partiti nazionalisti e contrari all’euro e gli analisti dell’European Policy Institute Network prefigurano una strada ormai senza ritorno.

In una frase: si prevede il peggio. La paura sembra fungere da elemento catalizzatore che orienta le scelte, anticipando risultati negativi sul futuro dell’Europa ma non solo. In questa fase così delicata, le emozioni e le intuizioni delle persone sembrano aprire la strada alla conoscenza e all’interpretazione della realtà, rischiando di trascurare il peso dei fatti e delle prove. Sin qui nulla di nuovo, la paura è una genuina esperienza psicologica sperimentata dal genere umano.

Ebbene, Frank Furedi ci metterebbe in guardia da questa considerazione, avanzando il sospetto (proprio non riusciamo a liberarci da questo linguaggio) che ci sia qualcosa di diverso oggi nel modo in cui abbiamo paura. Lo spettro della presenza costante di minacce non quantificabili nelle loro potenziali conseguenze sembra configurare una sorta di archetipo della paura, destinato a nutrire un clima di impotenza e incertezza costante. In questo senso, possiamo parlare di una dimensione collettiva, sociale e politica della paura, un linguaggio trasversale mediante il quale opinione pubblica, istituzioni, e forze politiche tendono a costruire prospettive sull’esistenza non sempre fondate su un ragionamento serio attorno ai problemi, ma in risposta all’emozione negativa che la paura provoca.

In questi termini ha dunque senso affermare che il generale scetticismo nei confronti dell’euro si spieghi con la paura? Probabilmente Bauman lo definirebbe piuttosto come un “bersaglio di riserva” sul quale scaricare un eccesso di paura che non riesce a darsi una più profonda motivazione né tanto meno una via d’uscita. Le preoccupazioni riguardanti la valuta europea, allora, potrebbero assumere un significato più accessibile osservando come proprio dal momento dell’entrata in vigore dell’euro assistiamo ad una ridefinizione del consenso nei confronti dell’idea di una Unione europea a lungo coltivata nell’immaginario dei suoi cittadini. Di fatto, l’introduzione della moneta unica ha un valore simbolico, dal momento che ha concorso a rendere evidenti gli effetti del percorso di integrazione europea tanto auspicato, aumentando la consapevolezza che le scelte e le politiche europee possono incidere in modo determinante sulla vita quotidiana, se non addirittura stravolgerla in termini drammatici, come è accaduto in alcuni Paesi, all’interno di uno scenario segnato da una profonda crisi economica.

Volendoci addentrare in campo psicologico, potremmo affermare che con l’ingresso dell’euro il progetto europeo entra nel “dominio cognitivo” delle persone, creando un potenziale allarme che proietta ipotesi negative sul futuro: attraverso questo strumento di misura dello scambio dei beni la paura si connette ad un oggetto reale e assume la forma tangibile di una minaccia. Viene da chiedersi perché?

Di certo, l’introduzione dell’euro è stata segnata in particolare dall’assenza di politiche economiche e finanziarie concertate, capaci di elaborare strategie comuni in vista di momenti di crisi ed accompagnata dall’affacciarsi di nuove paure connesse ai contenuti delle politiche europee come il problema della Cina, l’immigrazione, la globalizzazione, lo strapotere della finanza. Aspetti che hanno accresciuto gli allarmi nell’opinione pubblica. Ma soprattutto, il sogno europeo, immaginato come uno spazio entro il quale costruire forme di benessere e nuove sicurezze per la maggioranza dei suoi cittadini, di fronte alla dura prova della crisi, ha tradito in parte le aspettative non riuscendo, attraverso le istituzioni comunitarie, a garantire la difesa dei diritti individuali, una vera lotta alla disoccupazione, la solidarietà sociale e una migliore qualità della vita. In pratica, sul piano strettamente psicologico, non sono stati attivati efficaci meccanismi di “compensazione della paura”.

Ci troviamo di fronte al montare di questa paura collettiva ed il modo migliore per uscirne è tornare ad apprendere nuove forme per gestirla. Non è una situazione nuova questa, proprio per l’Europa: una delle ragioni che ispirò il progetto di unificazione europea, alla fine della seconda guerra mondiale, fu la “paura” di rivivere ancora una volta gli orrori di un tale conflitto. Lo stesso Diamanti, più di recente, a proposito del calo della fiducia nei confronti dell’Unione europea, ci ricorda come l’adesione all’Europa sopravvisse di fatto per la “paura” delle conseguenze che il rimanerne esclusi avrebbe provocato.

Queste considerazioni ci mostrano che non sempre nella storia (in particolare per ciò che concerne l’Europa) la paura ha rappresentato un meccanismo difensivo stagnante o paralizzante, fungendo piuttosto da emozione pro-attiva, capace di stimolare la produzione di strumenti sociali e politici tali da superare situazioni critiche, attraverso una ridefinizione del proprio ambiente. C’è da chiedersi quali prospettive di sviluppo potrebbe avere il progetto europeo se fosse ancora capace di sperimentare questo genere di paura.

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