Questa cultura è figlia della scarsità relativa del lavoro: nasce e si sviluppa quando si sentono mancare le risorse, dove c’è meno lavoro. E’ figlia di un atteggiamento accuditivo nei confronti del lavoro (“Ho studiato e quindi qualcuno mi deve dare un lavoro”), che reputa che il lavoro è soprattutto un diritto che qualcuno dall’esterno deve soddisfare. E’ il codice del bisogno che prevale, rispetto al codice del fare e del realizzare, che trova la sua massima gratificazione nella quantità di denaro accumulato.
Esiste all’opposto una cultura espressiva del lavoro, che considera il lavoro sì un diritto ma nello stesso tempo anche un progetto, qualcosa da costruire, da realizzare anche a livello personale. Questa cultura tende al darsi da fare, all’attivarsi per il raggiungimento di obiettivi e risultati. E’ una cultura certamente più vicina ai giovani e alla sensibilità femminile, in cui la dimensione professionale e quella personale si confondono e si intrecciano tra loro; è questa una cultura presente in larga misura nelle professioni creative ma anche in quelle legate alle nuove tecnologie, a cui viene attribuita una funzione liberatoria. Il lavoro in questo caso non è più solo fatica o denaro, ma realizzazione di sé. Non è solo sofferenza ma è anche piacere, spesso in una dimensione di gruppo e non solo individualistica. Questa cultura al codice del bisogno sostituisce la cultura del valore aggiunto, della soluzione di problemi, il codice dei risultati.
Questo modo di pensare si sta affermando e sta conquistando spazio anche nelle nuove forme del lavoro (vedi per esempio il “coworking”), non è affatto accuditiva ma imprenditiva. Chi la interpreta non crede che il lavoro debba essere per forza dato da qualcuno all’esterno, ma che al contrario possa essere un progetto, da costruire da soli o con altri, per il raggiungimento di obiettivi di senso e di utilità per gli altri. L’affermarsi di questa cultura segnerà una trasformazione sempre più grande e decisa nel passaggio tuttora in corso dalla concezione del lavoro dipendente a quella del lavoro intraprendente. Infatti, il lavoro non può più essere concepito esclusivamente come lavoro alle dipendenze di qualcuno. La stessa parola dipendente non può certo motivare nessuno. A chi lavora oggi si richiede un atteggiamento imprenditivo, anche se si è formalmente dipendenti (intraprenditorialità interna).
Si richiede anche la disponibilità e la capacità di creare nuove attività, di mettersi in proprio, di aprire una propria bottega. Il mix tra lavoro dipendente e lavoro indipendente sta cambiando. La propensione al lavoro autonomo, professionale, imprenditoriale degli italiani, e dei giovani in particolare, sta crescendo, come dimostrano la natalità di nuove imprese, il neo-artigianato e lo sviluppo di cooperative e di imprese sociali. Non è solo il prodotto della delusione e la fuga dal lavoro dipendente che tendenzialmente si riduce. Non è solo, per certi datori di lavoro, un escamotage per camuffare da autonomi dei lavoratori di fatto dipendenti. La direzione della trasformazione è tracciata. Oggi è necessario creare una rete di servizi e di formazione per assecondare questo passaggio culturale, che è anche una mutazione antropologica.
Le culture progrediscono se oltre alle prediche si mettono in campo anche delle pratiche. Ma le pratiche imprenditive diventano sempre più solide se si può contare, oltre che su stessi, anche su aiuti, consulenze ed esperienze da parte di chi possa fare da business angel di una nuova generazione di lavoratori intraprendenti e di aspiranti imprenditori. Il mito del lavoro industriale è nato e si è sedimentato con l’aiuto delle scuole e delle nascenti università tecniche ed economiche. Il mito del nuovo lavoro intraprendente si potrà consolidare se avrà l’analogo supporto delle scuole, delle università e di una cultura favorevole.