L’esperienza di essere (o venire) esclusi permea le nostre relazioni e la nostra vita quotidiana in mille modi. Oggigiorno se ne parla di più di questo fenomeno, spesso collegato alla parola disuguaglianza, ma l’esclusione c’è e ci sarà sempre: una paura innata, ancestrale, che accompagna l’essere umano lungo tutta l’esistenza. Non a caso infatti l’opposto di esclusione non è integrazione o inclusione, ma partecipazione. La preferenza per un termine del genere è un segnale forte che dimostra che i fattori che determinano – o che ostacolano – il benessere delle persone non sono solamente legati alla pura sussistenza, ma a un fenomeno molto più complesso.
Siamo di fronte a un processo multidimensionale dinamico e complesso da definire, che si compone di varie dimensioni: economica, che presuppone il progressivo allontanamento e non partecipazione al mondo della produzione e dei consumi; sociale, che vede la progressiva perdita delle relazioni sociali e la partecipazione alla vita sociale e politica; simbolica, ovvero la mancata condivisione di valori comuni, norme di comportamento e rappresentazioni della realtà. Levitas et al. (2007) definiscono il processo di esclusione sociale come la mancanza o il rifiuto di risorse, diritti, beni e servizi, e l’impossibilità a partecipare alle normali relazioni e attività disponibili alla maggior parte delle persone in diversi ambiti (economico, sociale, culturale e politico). Gli effetti dell’esclusione sociale sarebbero visibili sia rispetto alla qualità della vita delle persone, sia rispetto al livello di coesione e di giustizia di una comunità.
In altre parole, l’esclusione sociale non è solo la mancanza di risorse, la povertà materiale per intenderci, spesso origine della disuguaglianza sociale, ma riguarda tutti i processi per i quali alcuni individui e alcuni gruppi vengono progressivamente marginalizzati dalla società, come ad esempio le nuove povertà, l’esclusione culturale, lo stato di deprivazione, tutte le forme di esclusione economica e dal mondo del lavoro e che possono portare alla perdita di identità e di relazioni. Ma che possono portare anche a conseguenze estreme per le persone che le subiscono e che le vivono: aggressività, ma anche chiusura, senso di “ferita” psicologica, grande sofferenza. C’è quindi un bisogno naturale dell’essere umano che è quello di “appartenenza”.
Come possiamo rimuovere queste forme di disuguaglianza? Soluzioni certe non ce ne sono, mai. La psicologia sociale può essere un ambito importante che ci può aiutare principalmente a riflettere su questi temi. Come?
Di fronte a una realtà molteplice, spesso caratterizzata da legami sociali e comunitari fragili e dalla presenza costante e incarnata di forme di pregiudizio e di esclusione sociale persistenti, è necessario integrare la dimensione individuale e sociale pensando a implicazioni reali e più che mai concrete. Le vie future alla riduzione delle numerose forme di discriminazione sono quelle che vedono un’analisi integrata dei livelli individuale e intergruppi con i macrofattori istituzionali e sociali.
L’esclusione sociale non è un fenomeno posto nel vuoto, ma è sostenuto e spesso rinforzato da pensieri, emozioni, leggi. I pattern di esclusione sono più universali di quanto pensiamo; le categorie possono variare da nazione a nazione, ma il meccanismo sottostante è sempre lo stesso: escludere alcuni gruppi sociali, soprattutto nell’accesso a risorse economiche, culturali, sociali, perché privi di alcune caratteristiche necessarie per avere successo. Di fronte a tutto questo possiamo comunque possiamo pensare ad alcune riflessioni e azioni volte a un possibile cambiamento.
Per vincere il rifiuto occorre concentrarsi su una dimensione importantissima coinvolta sia nell’esclusione sociale e sia nei conflitti, ovvero quella emotiva (“emozionarsi di più”, l’ho chiamata). Studiare le emozioni coinvolte nell’esclusione, ma anche educare ed imparare a conoscere e gestirle è un passo importante che migliora le relazioni interpersonali e mitiga il rischio di esclusione. Insegnare a riconoscere correttamente i contenuti emotivi può essere un esercizio utile di prevenzione del disagio e dell’esclusione.
L’intelligenza emotiva ci permette di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, motiva noi stessi a gestire positivamente le nostre emozioni, quelle interiori e quelle nelle relazioni sociali, arrivando ad acquisire quelle abilità e competenze sociali, come l’autoconsapevolezza, l’autocontrollo e l’empatia, che hanno un effetto positivo nella gestione di una (possibile) esperienza di esclusione o rifiuto: ma non solo. Competenze indispensabili anche per aiutare, promuovere e facilitare l’inclusione e l’integrazione, ovvero in tutti quei contesti di aiuto dove è prioritaria la qualità della relazione.
E infine, non dimenticherei una piena assunzione di responsabilità sociale e civile che ognuno di noi dovrebbe avere, non solo nel denunciare ciò che non funziona, ma nel cercare di cambiare le nostre idee, i nostri modi di interpretare il mondo, i nostri schemi. E ancora, sviluppare la capacità di esaminarsi, di interrogarsi e di pensare, alla maniera socratica, una nuova modalità di stare insieme, che implica una ricombinazione delle forme culturali in nuove espressioni e nuove pratiche.