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“Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, né s’importa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine, dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è così somaro che si vanta e si gonfia il petto dicendo che odia la politica. Non sa l’imbecille che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, l’assaltante, il peggiore di tutti i banditi, che è il politico imbroglione, il mafioso corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali” (Bertolt Brecht, Poesie)

Il fastidio di Brecht per l’analfabeta politico (spaventosamente contemporaneo), colpevole di far vincere politici imbroglioni con il suo astenersi, è fastidioso. Sì, perché guardando il dito (allora come ora) e non la luna si tende a giustificare le cocenti sconfitte delle élite e gli smarrimenti dei cosìdetti ceti riflessivi (ovviamente brechtianamente e sdegnosamente diversi dagli analfabeti politici) di tutti i tempi e a evitare di affrontare la questione vera. Tento di spiegarmi. Ci troviamo di fronte ad una sorta di rovesciamento. E’ deplorevole il solo comportamento dell’ignorante che odia la politica? Oppure bisogna porre prioritariamente l’attenzione su chi prende le decisioni politiche; interrogarsi se questi lo fanno avendo cura di comprendere, rappresentare e coinvolgere anche gli scettici, gli indecisi, gli arrabbiati, gli indolenti; se mantengono le promesse fatte; se sono competenti ed efficaci nel governare e nell’amministrare? E chi, se non i partiti, dovrebbero averne la cura e la responsabilità?

I conti, però, non tornano se è vero che la fiducia degli italiani verso il Parlamento è del 3,7% e verso i partiti del 2,5% (Istat, Rapporto Bes 2016), che il 32,8% non parla mai di politica, che solo l’0,8% fa una attività gratuita per un partito, che il 24,5% non si informa mai dei fatti della politica (Istat, Annuario statistico italiano 2017).

E’ da qui che dobbiamo partire. Per fermare e contenere la slavina dell’astensionismo serve un robusto intervento dei partiti e sui partiti. Oggi è il sistema dei partiti il vero elemento di debolezza. Non che non ce ne siano sulla scena politica. Anzi sovrabbondano. Si formano, si dividono, si reincarnano. Abbiamo scoperto in questi anni il partito liquido, quello pesante, quello di plastica, quello aziendale, quello dei sindaci, quello civico, quello della nazione, quello regionale, quello autonomistico, quello secessionista, quello del leader, quello elettorale, quello dei responsabili, quello della rete e così via.

Tutti con una caratteristica in comune: fanno fatica ad assolvere ai compiti che la dinamica politica e la Costituzione più bella del mondo assegna loro. Riassumo la questione ponendo tre interrogativi per accertare se i partiti adempiono realmente alle loro funzioni e facilitano, quindi, la partecipazione, facendomi orientare dalla saggezza dei nostri costituenti: i cittadini oggi riescono ad associarsi liberamente in un partito? Se si, concorrono veramente a determinare la politica nazionale? E questo avviene con metodo democratico?

Le risposte ai tre quesiti tendono ad una generale scoraggiante insufficienza. Ed è questa insufficienza che alimenta la sfiducia, il vero carburante dell’astensione. La vicenda della composizione delle liste è una prova lampante e senza appello.

Si sostiene che la cattiva politica è prodotta dalla cattiva prova dei partiti nel recente passato (è vero). Ed è la cattiva politica ad alimentare l’astensione (ed anche questo è vero); per cui una possibile buona politica, quella che potrebbe far ritornare a riempire le urne può consistere soltanto prescindendo dai partiti stessi. Bisogna disintermediare perché il medium (il partito) è difettoso ed irriformabile. Si debbono ricercare altre forme e contenitori per fare politica; ma alla fine, chiamali come vuoi, sempre partiti sono.

Eppure le stagioni di buona politica che pur ha vissuto il nostro Paese, anche di recente, sono state soprattutto il prodotto dell’azione di partiti e di coalizioni (e delle relative élite) allorquando queste sono state portatrici di una visione, di un progetto e di programmi e sono stati capaci di realizzarli. Hanno saputo comprendere ed orientare le tensioni sociali (oggi si direbbero le rabbie e i risentimenti) canalizzando ed organizzando le energie e le pulsioni, integrandole in progetti e in organizzazioni rinnovate perché permeabili alle novità.

I tentativi di autoriforma finora sono stati sporadici; a volte generosi ma non sufficienti. E del resto nemmeno con la legislatura appena conclusa si è riusciti ad approvare una legge sulla democraticità e sulla trasparenza dei partiti che di qualche aiuto comunque sarebbe stata.

Siamo a un punto di non ritorno. Massimo Franco, in un suo recente articolo, osserva che siamo in presenza “degli ultimi bagliori di un sistema condannato a cambiare o a essere radicalmente cambiato dall’elettorato. (…) Quando la democrazia nei partiti inaridisce è ipocrita chiedere che la società sia migliore. E sicuramente, non stimola gli elettori a andare alle urne in massa“. E’ vero avremmo bisogno di partiti capaci di mobilitare idee e risorse associate in un progetto e in una visione del Paese. Eppure saranno proprio la probabile separazione tra leadership di governo e quelle di partito, la necessità di negoziare apparentamenti elettorali prima e coalizioni programmatiche e di governo successivamente, il sistema elettorale proporzionale, la riconoscibilità e il radicamento nel collegio dei candidati, la scarsità di risorse economiche e finanziarie, la stanchezza dell’elettorato a imporre cambiamenti radicali alle organizzazioni partitiche.

Il ripetuto richiamo a Macron e a Rivera, al netto della superficiale comprensione degli accadimenti francesi e spagnoli da parte di frettolosi imitatori, alimenta la speranza che qualcosa possa accadere anche nel sistema dei partiti italiani (non dissimili sono le ragioni delle ricorrenti nostalgie per la stagione dell’Ulivo e/o delle promesse della rivoluzione liberale per non dire dei leaders e dei partiti dei migliori tempi della prima repubblica). Sopravviveranno quei partiti che sapranno rispondere agli interrogativi posti in precedenza: ovvero quelli che sapranno rendere fluida l’adesione, costruire solidi legami associativi, valorizzare e premiare la militanza e non l’appartenenza a cerchi magici, interloquire con la rappresentanza sociale; che proporranno programmi e progetti concreti e non semplificazioni propagandistiche. Ed ancora: che si presenteranno competenti ed affidabili; che garantiranno trasparenza e democraticità nei processi decisionali, non mortificheranno le minoranze e il dissenso e faranno del merito e non della cooptazione il criterio della selezione della classe dirigente di partito e delle istituzioni.

Confortante, in questa campagna elettorale, è che, anche grazie ai moniti del presidente Mattarella finalmente l’opinione pubblica viene informata (oltre che sulle poco incoraggianti vicende nella formazione delle liste) sui programmi elettorali e i partiti sono costretti a definire i propri caratteri distintivi e a sottostare al giudizio e alla verifica degli avversari e dei commentatori.

E’ in corso un fact checking incisivo che sarà certamente utile nel formare e consolidare le scelte degli elettori. Partiti programmatici, capaci di selezionare personalità competenti e rappresentative, responsabili verso il Paese è la domanda che ancora oggi non trova compiute offerte nel mercato della politica.

Esemplare, in conclusione, quanto sostiene Salvati in un suo articolo: “Insomma, la moneta cattiva della demagogia, di una eccessiva semplificazione dei problemi, del ricorso a espedienti retorici che si rivolgono alla pancia più che alla testa, tende a scacciare la moneta buona della verità e della riflessione. Ed è per questo che chi si sforza in un tentativo pedagogico e cerca di dire la verità è normalmente visto come un non-politico, incapace di assolvere al primo compito che un vero politico deve affrontare, quello di raccogliere consenso. Che poi il «vero politico» si dimostri – se cerca di realizzare le sue promesse – un cattivo governante è un problema che verrà affrontato una volta vinte le elezioni: le scuse per non avere realizzato quanto ha promesso sono infinite e verranno spesso bevute da chi gli ha dato fiducia”.

Certo l’azione pedagogica e di verità sarà un banco di prova della maturità dei partiti (ma anche delle forze sociali) e un antidoto all’analfabetismo politico. Anna Tonelli in un bel saggio sulla scuola comunista delle Frattocchie rileva come il PCI (e tutti i partiti di quella stagione politica) avesse uno spessore educativo non banalizzabile con la propaganda e l’indottrinamento e che l’alfabetizzazione (a proposito di Brecht) politica fosse “un percorso di vita con le inevitabili soddisfazioni e delusioni, fra esaltazioni e sofferenza”.

Sempre la Tonelli riprende una ficcante polemica tra Maurizio Crippa – che ricordando la scomparsa di Tullio De Mauro, lo ritene sconfitto per l’antica utopia della “democrazia frutto dell’educazione” – e Michele Serra. Quest’ultimo gli ribatte che: “una delle parole più sbertucciate, nell’ultimo scorcio d’epoca, è “pedagogia”. Insegnare qualcosa a qualcuno è visto come una intrusione paternalistica. Anche per questo (…) siamo in penosa recessione sociale, e in affannoso ritorno alle credulità di ogni ordine e grado”.

Un avvertimento che vale anche per i corpi intermedi. Perché il ragionamento fin ora fatto non può non riguardarli. Per questo è incoraggiante aver assistito, per esempio, lo scorso ottobre alla sorprendente partecipazione ed entusiasmo all’inaugurazione della Scuola centrale di formazione delle Acli “Livio Labor”.

Ps. Concludo, per civetteria, come ho iniziato: con Bertolt Brecht e la sua “Lode del partito”. Risulterà evidente (spero) che pur ritenendo insostituibile la funzione dei partiti, la mia prospettiva sia un’altra da quella di Brecht. “Chi è uno ha due occhi/il Partito ha mille occhi./Il Partito vede sette stati,/chi è uno vede una città. /Chi è uno ha la sua ora/ma il Partito ha molte ore. /Chi è uno può essere distrutto/ma il Partito non può essere distrutto, /perchè è l’avanguardia delle masse/e conduce la sua lotta/con i metodi dei classici, che son sorti/dalla conoscenza della realtà”.

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