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Nella scelta di recarsi alle urne, conta, ormai, la rilevanza attribuita a ciascuna “partita”: in che misura essa è percepita come decisiva, e magari incerta; in che misura i cittadini sentono di poter incidere, direttamente, con il proprio voto. Non sarà semplice, in questa campagna, con queste regole, con questi partiti, spiegare che il voto è, sempre, utile…

È, sicuramente, tra i più “insondabili” dei fenomeni politici, di fronte al quale anche i più raffinati strumenti demoscopici sono, spesso, di scarso aiuto. È molto complicato, per non dire azzardato, lanciarsi in previsioni sull’andamento della partecipazione elettorale. Tanto più in Italia, dove persiste la memoria di un passato nel quale “tutti” votavano, oltre che una concezione del voto non solo come diritto, ma come dovere, in passato addirittura un obbligo. Nei sondaggi, di conseguenza, gli intervistati faticano ad ammettere la tentazione di astenersi, e tendono ad omettere la diserzione delle urne.

Gli allarmi e gli appelli per la partecipazione, in vista della prossima tornata del #4marzo, sono già stati lanciati. E sono in molti a scommettere su una nuova flessione: del resto, questo è il trend cui ci siamo quasi assuefatti, negli anni recenti, per elezioni di diverso “ordine”. La partecipazione alle Politiche è tradizionalmente più elevata. Perché più elevata, nella percezione dei cittadini, è la posta in gioco: quando si tratta di scegliere i parlamentari, e quindi, seppur in modo indiretto, il governo del paese. Anche se, dall’avvento della Seconda Repubblica, ci siamo abituati all’idea (spesso fuorviante) di scegliere direttamente il governo e il premier.

Tuttavia, anche le elezioni parlamentari sono state oggetto di una flessione significativa, negli ultimi 30/40 anni. In particolare, le Politiche del 2013 hanno registrato la contrazione più consistente dall’introduzione del suffragio universale: dall’80.5% al 75.2%, nell’arco di un solo lustro. Anche se, come ha osservato Gianfranco Zucca, in questo stesso dossier di BeneComune, l’Italia continua ad occupare una posizione intermedia – anzi, sopra la media – nel panorama europeo, per quanto riguarda i tassi di partecipazione.

Diverso è il caso delle elezioni europee e locali. Ha colpito, nella fase recente, il 38% di affluenza registrato nella “virtuosa” Emilia-Romagna, fiore all’occhiello del civismo nazionale, in occasione delle Regionali del 2014. Mentre, nel voto municipale della scorsa primavera, la partecipazione, negli oltre mille comuni al voto, si è fermata appena sotto il 60%, oltre sei punti in meno rispetto alle precedenti Amministrative. Nel voto locale, peraltro, la partecipazione mostra una geografia diversa rispetto alle elezioni nazionali: più elevata al Sud, meno elevata nelle regioni del Centro e del Nord. Proprio quest’ultime, peraltro, in occasione della tornata 2017, hanno fatto segnare la contrazione più significativa: circa 8 punti percentuali in meno rispetto a cinque anni prima (nel centro Italia il calo è stato di 7 punti, di circa 6 nelle regioni meridionali e insulari). Segno che, nel voto cittadino, agiscono dinamiche specifiche, spesso di segno particolaristico e clientelare. Favorite da specifiche procedure di voto: su tutti, il discusso – e discutibile – metodo del voto di preferenza, che presenta un tasso di utilizzo molto più elevato nel Sud rispetto al Nord. Il che induce a rimettere in discussione i nostri parametri di valutazione: ci rammenta che non sempre, e non automaticamente, livelli di partecipazione e qualità della democrazia sono in relazione diretta.

I sondaggi oggi stimano fra il 30% e il 40% la componente di elettori incerti o tentati dall’astensione. Potrebbe trattarsi persino di una sotto-stima, visto che le indagini su temi elettorali tendono a sovra-rappresentare le componenti più interessate alla politica. In molti, in ogni caso, matureranno la propria scelta nell’arco del prossimo mese. Le stesse inchieste ci dicono che un numero sempre più elevato di elettori decidono ormai nell’ultima settimana, addirittura nelle ultime 24 ore prima del voto: tra i votanti del 2013, i ritardatori e last-minute, secondo i dati dell’Osservatorio elettorale del LaPolis-Università di Urbino, hanno raggiunto addirittura il 23%. Conterà non poco, dunque, la capacità di leader e partiti, e della campagna, nel suo complesso, di (ri)mobilitare gli elettori.

Il voto del 4 marzo arriva alla fine di una legislatura a dir poco travagliata, nella quale a più riprese, e da più parti, è stato chiesto di restituire la parola agli elettori, di consentire loro di “scegliere” da chi essere governati. Ora, il momento è arrivato. Ma non è affatto scontato che tale percorso conduca ad una partecipazione sostenuta, almeno in linea con quella delle precedenti Politiche. Secondo una recente indagine dell’istituto Demopolis, l’affluenza potrebbe scendere addirittura al 63%, e addirittura al 53% tra gli under-25. Come detto, si tratta di stime che, per quanto “ponderate”, vanno valutate con estrema cautela, considerate le distorsioni di cui risentono.

Non è difficile, in ogni caso, individuare diversi fattori che spingono nella direzione del non-voto. Anzitutto, la diffusa insoddisfazione sul funzionamento della democrazia, la profonda sfiducia nei confronti degli attori della rappresentanza: secondo l’ultimo rapporto Demos&Pi su Gli Italiani e lo Stato, la fiducia nel Parlamento si ferma all’11%, quella nei partiti appena al 4%. Quanto alla corsa per le Politiche 2018, è diffusa, tra gli addetti ai lavori come tra gli elettori, la percezione di una partita che potrebbe non avere un chiaro vincitore, consegnando (ancora una volta) alla contrattazione tra partiti il compito di trovare una maggioranza, non necessariamente coincidente con una delle coalizioni che troveremo sulla scheda.

L’elevata (inutile) complessità della nuova legge elettorale, combinata alle opache (e verticistiche) procedure di individuazione delle candidature – spesso “catapultate” dall’alto senza alcun legame con il territorio, e con il “paracadute” del proporzionale – potrebbe ulteriormente deprimere il senso di efficacia politica dei cittadini. Verrebbe così meno lo stimolo offerto dalla possibilità di rinnovare, almeno parzialmente, la classe politica. A risentirne potrebbe essere proprio la spinta alla partecipazione. L’astensione, in questo quadro, potrebbe apparire una opzione “legittima”: restare lontani dalla politica per manifestare la propria lontananza dai suoi attori. Tutti. Nel 2013, nonostante un ampliamento dell’offerta politica che, almeno parzialmente, ha incanalato e offerto rappresentanza all’insoddisfazione verso le forze politiche tradizionali, il 25% dell’elettorato è “rimasto a casa”.

Proprio la protesta – per utilizzare le categorie citate da Dario Tuorto in questo “speciale” – è stata la motivazione più frequente citata dagli astensionisti per spiegare il proprio comportamento, con una crescita di oltre dieci punti percentuali rispetto alle Politiche del 2008 (dal 17 al 29%). Ma, al di là delle cause “di forza maggiore” (anzitutto, impedimenti legati alla lontananza fisica o a problemi di salute), hanno contato la “sfiducia” e il “disinteresse” verso il voto, il fatto di non ritenere “utile” recarsi alle urne: a queste categorie possiamo ricondurre oltre un terzo delle “giustificazioni” citate dagli intervistati (Osservatorio elettorale del LaPolis-Univ. di Urbino).

Finita l’epoca delle ideologie, il voto ha da tempo smesso di essere il riflesso (e la riaffermazione) di una “appartenenza”. Leader e partiti sono ora a chiamati ad offrire buone ragioni agli elettori per recarsi alle urne. Ad ogni singola elezione. Buoni programmi, certo. Ma anche una visione del futuro che sappia coinvolgere e ri-attivare i cittadini. Il tutto articolato in un progetto che risulti credibile, e abbia delle chance di successo, nell’esito del voto.

Lo stesso andamento dei tassi di partecipazione, in diversi contesti istituzionali e nel tempo, mostra come il non-voto non sia un destino ineluttabile. Al secondo turno delle Legislative francesi dello scorso anno ha votato meno del 43% degli aventi diritto, e già al primo turno l’astensione aveva superato la maggioranza assoluta. L’affluenza era stata però decisamente più elevata, poche settimane prima, quando si trattava di eleggere il Presidente: al primo (78%) come al secondo turno (75%). Allo stesso modo, in Italia, la partecipazione al Referendum Costituzionale del 2016 ha persino stupito gli osservatori, attestandosi (sul territorio italiano) oltre il 68%.

Nella scelta di recarsi alle urne, conta, ormai, la rilevanza attribuita a ciascuna “partita”: in che misura essa è percepita come decisiva, e magari incerta; in che misura i cittadini sentono di poter incidere, direttamente, con il proprio voto. Non sarà semplice, in questa campagna, con queste regole, con questi partiti, spiegare che il voto è, sempre, utile.

 

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