L’algoritmo, nel tempo che viviamo, sta già definendo la nostra condizione umana, la nostra posizione professionale, e, per tanti versi, anche la nostra situazione personale nel diritto. Si rovescia la prospettiva a cui siamo abituati. Siamo cyborg che sono “anche” cittadini e lavoratori, non più solo cittadini/lavoratori che maneggiano utensili digitali. Siamo, infatti, cyborg ogni volta che interagiamo con tali utensili. Siamo cyborg perché il digitale è ubiquo: c’è l’internet dei corpi e delle cose che si interfaccia con l’internet degli spazi pubblici e privati.
L’internet degli spazi, l’internet delle cose e l’internet dei corpi creano insieme una dimensione gestita dall’algoritmo, il quale si muove su dati sempre più grandi (big data), difficilmente catturabili, nel relativo peso, da una mente umana, nonché su complessità immense (dataset), da cui derivano scelte o decisioni della macchina che sono (quasi) autonome. Tutto ciò conforma spazi, pubblici e privati, e, in definitiva, la città in cui le persone vivono e svolgono un lavoro. E quello spazio diviene una città in cui il lavoro si svolge in ambienti cibernetici, di interazione dinamica, con strumenti che sono estensione del corpo o protesi digitali, e con architetture vive, cioè aumentate da flussi di informazione continui, bidirezionali, in tempo reale.
Quella città è anche città industriale. Essa è, al contempo, città che è hardware e città che è software, cioè, da una parte, città in cui si produce, condividendo con l’algoritmo questa funzione, e, dall’altra, città in cui si pensa con l’algoritmo come produrre. Siamo in una città in cui il lavoro e l’industria sono connessi da cyborg digitali-fisici e da macchine intelligenti (algoritmo) che coordinano produzione, logistica, vendita, marketing, finanza, e, in definitiva, il lavoro nell’impresa di manifattura, il lavoro nell’impresa del terziario e il lavoro nell’impresa del credito.
In quella città si crea anche un diritto oltre lo Stato. Ed è ciò che interessa di più nella disamina che segue. L’algoritmo è veloce, sceglie condotte velocemente, pretende interlocuzioni veloci. Le scelte delle persone umane sono, invece, caratterizzate dalla ponderazione che necessita di tempi spesso non veloci. L’algoritmo è pensato per effettuare scelte in millesimi di secondo, sulla base dei dati che esso ha a disposizione e secondo strategie, solo in parte programmabili ex ante o gestibili con l’intervento umano durante la fase di scelta automatizzata.
Tali scelte veloci sono quasi sempre a-geografiche, e, per l’effetto, sono svincolate da un sistema giuridico basato sulla logica del perimetro domestico (nel nostro caso, anche europeo). Di fatto, quelle scelte effettuate da e mediante l’algoritmo, da cui derivano effetti giuridici, dipendono da una serie di sistemi programmati in varie giurisdizioni, o da variabili venute in essere in più giurisdizioni, o ancora da parametri decisi in tempi e luoghi diversi da quelli della giurisdizione in cui si verifica l’effetto giuridico.
La velocità è in sé la ragion economica che giustifica il ricorso all’algoritmo perché essa è alla base del valore aggiunto che l’algoritmo offre nell’ambito del sistema produttivo globale, e, di conseguenza, nell’ambito del sistema della distribuzione e della finanza. La velocità, in questo senso, è intesa come efficienza economica a maggior impatto concorrenziale.
La velocità determinata dall’algoritmo ri-crea, per alcuni versi, la città. Essa certamente decide il modo in cui il lavoro nella città si svolge perché essa incide sullo spazio dei flussi informativi, creando forme organizzative dell’industria e del lavoro che sono de-materializzati o, più verosimilmente, non più disgiungibili dalla dimensione digitale. Si tratta di forme organizzative spesso basate su scambi e interazioni che sono ripetitivi, programmabili, gestibili dalla macchina intelligente, con o senza la persona umana. Si avvera pienamente quella divaricazione, già segnalata come possibile scenario da alcuni studiosi negli anni ’80, tra lavoro professionalizzante, cioè capace di dominare la tecnica, e lavoro non professionalizzante che è dominato dalla tecnica.*
C’è, di conseguenza, una trasferibilità del posto di lavoro, non più solo quella del lavoratore, che prescinde dalla stessa fisicità del posto di lavoro: i pendolari andranno a ridursi perché l’ufficio è potenzialmente ovunque, con l’ausilio di protesi digitali che velocizzano ogni attività umana (si rinvia alla disciplina del lavoro agile – d.lgs. 22 maggio 2017, n. 81). Il che significa che luogo e tempo di lavoro assumono, almeno per la regolazione giuslavoristica, una dimensione diversa da quella che è ancora connotata dalla necessaria fisicità del posto di lavoro.
Quella velocità uccide la distanza tra persone. E, in definitiva, viene meno anche la distanza nel lavoro e si crea una città industriale che è una specie di villaggio globale, sempre vivo, interconnesso con altre città produttive, dove l’algoritmo, tra le altre cose, gestisce il flusso dei dati, coordina il lavoro, monitora la produzione, impone la logistica, sviluppa il marketing, etc.. Si riduce la distanza, ma aumenta lo spazio urbano perché esso attrae tutti coloro che intendono produrre con quella velocità. Le città sono in sé già magneti umani e industriali. Le città industriali diventano “macchine” da abitare, non più solo città in cui vivere, macchine che attraggono industrie che producono con la velocità 4.0. Ci sono sensori ovunque, algoritmi che metabolizzano i dati raccolti dalla città, dispositivi che reagiscono, attuando le scelte che l’algoritmo dispone.
La fabbrica 4.0, caratterizzata da sensori intelligenti, algoritmi e attuatori delle scelte di questi ultimi che, interagendo con il lavoratore, coordinano l’organizzazione produttiva, si interconnette continuamente con la città industriale dei lavoratori cyborg. La velocità dell’algoritmo non neutralizza la realtà aziendale; anzi, la velocità crea un nuovo modo di organizzare il contesto aziendale, basando tutto sull’interfaccia tra persona e macchina nell’organizzazione della produzione e nel modo di vivere la quotidianità. La macchina aumenta, nel senso di potenziare, la persona umana, nonché aumenta/potenzia l’organizzazione aziendale, con l’effetto che il lavoratore cyborg sarà sempre superiore a sistemi che sono solo umani o solo digitali.
Si crea un processo sociale che può essere regolato con norme di legge e di contratto collettivo. Si deve regolare, secondo un meccanismo di desiderabilità sociale, tenendo a mente i principi di tutela dignità umana, il rapporto tra macchina intelligente e lavoratore nonché il complesso sistema che viene a costituirsi tra città industriale, lavoratore cyborg e datore di lavoro algoritmico. Da tale quadro muove la mia ricerca, confluita nel libro monografico, appena pubblicato (M. Faioli, Mansioni e macchina intelligente, Giappichelli, Torino, 2018) a cui rinvio per la disamina ulteriore dei temi qui menzionati.
*Vardaro G., Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in Politica del diritto, 1986, 1, pp. 75 ss.
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