Se cerchiamo sui dizionari il significato della parola pace, troviamo le seguenti definizioni, o altre sostanzialmente equivalenti: «Condizione di assenza di conflitti, sia all’interno di un popolo, di uno stato, ecc., sia all’esterno, con altri popoli, altri stati, ecc.» | «Assenza dello stato di guerra nei rapporti fra Stati o all’interno di uno stesso Stato…» | «Situazione di non belligeranza…» | «Condizione di un popolo o di uno stato che non sia in guerra con altri popoli o altri stati e non abbia situazioni di lotta armata al suo interno…».
La pace – come ma forse più ancora della guerra – viene dunque definita per differenza e la guerra potremmo dire per “difetto”. Volendo approfondire questo aspetto, cerchiamo la parola pace nell’Enciclopedia Treccani e ci imbattiamo nel testo “Concetti, problemi e ideali” di Norberto Bobbio: «Il concetto di pace è così strettamente connesso a quello di guerra che i due termini ‛pace’ e ‛guerra’ costituiscono un tipico esempio di antitesi, come gli analoghi ‛ordine-disordine’, ‛concordia-discordia’, ‛armonia-disarmonia’. Due termini antitetici possono essere fra di loro in rapporto di contraddittorietà, per cui l’uno esclude l’altro e tutti e due escludono un terzo, oppure di contrarietà, per cui l’uno esclude l’altro ma entrambi non escludono un terzo intermedio. Mentre i termini delle tre coppie analoghe sono contraddittori, e ne è una prova la stessa forma linguistica, non autonoma, del secondo termine, i due termini dell’antitesi pace-guerra possono essere, secondo i diversi contesti, ora contraddittori, qualora per pace s’intenda lo stato di non guerra e per guerra lo stato di non pace, oppure contrari, qualora lo stato di pace e lo stato di guerra siano considerati come due stati estremi, tra i quali siano possibili e configurabili stati intermedi, come dalla parte della pace lo stato di tregua, che non è più guerra e non è ancora pace, e dalla parte della guerra lo stato di guerra non guerreggiata, di cui è tipico esempio la cosiddetta guerra fredda, che non è più pace ma non è ancora guerra».
Volendo ulteriormente indagare, andiamo a ricercare l’etimologia del termine pace e scopriamo che l’origine della parola si ricollega alla radice sanscrita pak – o pag- = fissare, pattuire, legare, unire, saldare (da cui derivano anche altre parole di uso comune come patto o pagare). La pace è dunque quella preziosa condizione di armonia, quel sentimento di concordia, di unione che dovrebbe legare individui e popoli come appartenenti alla stessa famiglia umana.
A questo punto, abbiamo individuato almeno due caratteristiche “eccentriche” del termine pace:
la prima è l’essere definito per differenza (pace = non-guerra);
la seconda è l’essere considerato (al contrario della terribile e fatale materialità della guerra) un termine “astratto” e contemporaneamente essere imparentato – direttamente e indirettamente – con parole molto concrete, buona parte delle quali hanno corso in ambito economico.
Dalla stessa radice di “pace” derivano infatti “patto” e “pagare” (e, per sinonimia, viene coniato il termine “quietanza” per significare la ricevuta di un pagamento). Inoltre, alcuni termini che gli vengono associati – come dovere (degli uni verso gli altri, legato al patto), solidarietà, comune/comunità – hanno anch’essi parentele “di valore”. Da dovere viene debito (che del latino debere è il participio), mentre solidarietà viene da solidus, esattamente come soldi. Comune viene da munus, che vuol dire dono, ma anche dovere, funzione, impegno, e perfino tributo e tassa. Immune, infatti, è colui che è libero, tanto dagli obblighi che dai benefici (da: munus ‘obbligo’, con prefisso privativo in-).
Mi hanno chiesto una poesia “di pace”, da pubblicare in questo numero che di pace vorrebbe parlare. Ne ho trovate molte, bellissime e tremende, contro la guerra. Credo che gran parte di noi, se non tutti, le conoscano.
Le poesie contro la guerra sono poesie di pace?
Una risposta la troviamo in alcune fra le più famose poesie di Bertolt Brecht:
I bambini giocano alla guerra
I bambini giocano alla guerra. È raro che giochino alla pace perché gli adulti da sempre fanno la guerra, tu fai “pum” e ridi; il soldato spara e un altro uomo non ride più…
Generale Generale, il tuo carro armato è una macchina potente spiana un bosco e sfracella cento uomini. Ma ha un difetto: ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente. Vola più rapido d’una tempesta e porta più di un elefante. Ma ha un difetto: ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto. Può volare e può uccidere. Ma ha un difetto: può pensare. |
In morte di un combattente per la pace
(Alla memoria di Carl von Ossietzky)
Chi non si era arreso è stato ucciso. Chi è stato ucciso non si era arreso.
La bocca che ammoniva l’hanno empita di terra. Comincia l’avventura di sangue. Sulla fossa di colui che amò la pace battono il passo i battaglioni.
Era inutile, allora, la lotta? Quando a venire ucciso è chi non da solo lottava, il nemico ancora non ha vinto.
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L’orrore e l’insensatezza della guerra, che nelle poesie di due tra i più grandi poeti italiani, Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo, si trovano a convivere con la scoperta (o riscoperta) – piena di compassione – della fragilità umana, della creaturalità, della fraternità contro il fratricidio, ci offrono un’ulteriore risposta.
Due guerre mondiali – o una lunghissima, ferocissima unica guerra con qualche anno di pausa – hanno d’altra parte sottoposto centinaia di persone (poeti compresi) all’esperienza drammatica del conflitto.
Ma la morte e la rovina non hanno colpito “solo” gli esseri viventi e le città e i paesi, ma insieme all’anima hanno colpito le parole, la capacità stessa di esprimere memoria, dolore, sdegno e vergogna. Ne è esempio una poesia – fino a pochi mesi fa inedita – della poeta Wisława Szymborska, quasi un grido di dolore, composta nel 1945, assai prima della più famosa e composta “La fine e l’inizio”, dedicata al “dopo guerra”, o a “L’odio” («Guardate com’è sempre efficiente / come si mantiene in forma / nel nostro secolo l’odio…»):
Cerco la parola
Voglio definirli con un solo termine, ma quale? Prendo parole comuni, dai dizionari ne rubo qualcuna, le misuro, le soppeso, le sondo: nessuna corrisponde. 4 Tutte le più audaci sono vigliacche, tutte le più sprezzanti – ancora innocenti. Tutte le più crudeli – troppo fiacche, tutte le più odiose – poco ardenti. 4 Questa parola dev’essere un vulcano che picchi, spezzi e abbatta come terribile ira di Dio, come odio che scotta. |
Voglio una parola cruda che sia impregnata di sangue, che come le mura di un carcere ogni fossa comune racchiuda. Che descriva più precisa e chiara chi erano loro – tutto ciò che è stato. Perché ciò che sento dire, ciò che se ne scrive – non basta più. Non è mai bastato. La nostra lingua è impotente, i suoi suoni, d’un tratto – poveri. Cerco, sforzo la mente, cerco questa parola – ma non la trovo. Non la trovo. |
Probabilmente staremo pensando tutti, io che scrivo e voi che forse leggerete, alla guerra nella vicina Ucraina. La città di Kiev ricorre in due “poesie di pace”, una di Pablo Neruda e l’altra di Gianni Rodari. Ne riporto di seguito alcuni stralci:
Ode alla pace
di Pablo Neruda
Sia pace per le aurore che verranno, pace per il ponte, pace per il vino, pace per le parole che mi frugano più dentro e che dal mio sangue risalgono legando terra e amori con l’antico canto; e sia pace per le città all’alba quando si sveglia il pane, pace al fiume Mississippi, fiume delle radici: e pace per la veste del fratello, pace al libro come sigillo d’aria, pace per il gran kolchoz di Kiev; e pace per le ceneri di questi morti, e di questi altri morti…
pace per il fornaio e i suoi amori, pace per la farina, pace per tutto il grano che deve nascere, pace per ogni amore che cerca schermi di foglie, pace per tutti i vivi, pace per tutte le terre e per le acque… |
La luna di Kiev
di Gianni Rodari
Chissà se la luna di Kiev è bella come la luna di Roma, chissà se è la stessa o soltanto sua sorella…
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Ma è da una terra appena più lontana che arriva, scritta da una giovanissima donna israeliana, Talil Sorek, una delle poesie più famose e ricorrenti sul web:
Ho dipinto la pace
di Talil Sorek
Avevo una scatola di colori brillanti, decisi, vivi. Avevo una scatola di colori, alcuni caldi, altri molto freddi. Non avevo il rosso per il sangue dei feriti. Non avevo il nero per il pianto degli orfani. Non avevo il bianco per le mani e il volto dei morti. Non avevo il giallo per la sabbia ardente, ma avevo l’arancio per la gioia della vita, e il verde per i germogli e i nidi, e il celeste dei chiari cieli splendenti, e il rosa per i sogni e il riposo. Mi sono seduta e ho dipinto la pace. |
E, sulla pace, chiudiamo con due poesie di Wisława Szymborska: “Vermeer” e “Pace”, che come “Cerco la parola”, è stata scritta nel 1945 e pubblicata in Italia nell’ottobre scorso da Adelphi.
Pace
Precederà i
comunicati la
gioiosa sirena dei cuori.
Più veloce della
luce è la notizia,
più veloce della
notizia la fede.
Nelle grida,
nei discorsi, nei canti
parole tutte deludenti,
tranne una:
Finalmente.
Cieche fin qui
le notti di città
lanceranno segnali al cielo
su fino agli astri
dell’immensità.
Il lutto strappato
alle finestre
sarà calpestato dai passanti
che avanzano
disposti in schiere.
Altri correranno
fuori di casa
per porgere con
una rapida
stretta di mano
ai loro cari,
a chiunque per strada,
la verità come
una cosa
che l’uomo
ha portato alla terra
PACE, non spada