Si può stare insieme in molti modi. Per amore, per affinità, per amicizia, per condivisione di impegni di varia natura, per famigliarità; ma anche per interesse, per obbligo, per curiosità, per coercizione e per moltissime altre occasioni. Essenzialmente noi stiamo sempre insieme a qualcuno. Non possiamo mai dirci totalmente estranei agli altri perché noi, volenti o nolenti, siamo costantemente e sempre immersi nello “stare insieme”.
Questa condizione umana ed antropologica vincola ogni aspetto della nostra vita privata e pubblica. È la rete relazionale cui siamo intessuti che influenza l’andamento quotidiano della nostra vita e la sua qualità nel tempo: qui apprendiamo, fin dalla nascita, il significato ed il senso del vissuto proprio e degli altri. Ed è la qualità delle relazioni, a partire da quelle primarie, che determina l’intensità con la quale impariamo a comprendere noi stessi e l’altro.
La conoscenza del vissuto degli altri non porta meccanicamente a sviluppare un sentimento di attenzione ed apertura. Anche le persone antisociali o egocentriche sono in grado di capire cosa sente l’altro, ma purtroppo possono restare indifferenti, o peggio, manipolarlo a proprio vantaggio. All’opposto l’empatia e la compassione sono due condizioni che portano alla vicinanza e alla partecipazione verso il sentire dell’altro nel rispetto della sua complessità e differenza, fino alla condivisione e al sacrificio di quanto si ha di più caro.
Cos’è dunque l’empatia? Cosa la compassione? Come e perché le sviluppiamo, o meno?
La parola empatia è apparsa ormai diversi decenni fa, dapprima nel linguaggio filosofico e successivamente nelle scienze umane pedagogiche e psicologiche, ed è ormai entrata a pieno titolo nel parlare comune. Numerosi sono gli studi che ne hanno approfondito il senso. Etimologicamente deriva dal greco antico pathen che significa patire/soffrire ed esprime un modo di sentire l’altro dentro di sé. In parole semplici è la capacità di metterci al posto dell’altro arrivando a sperimentare i suoi sentimenti ed i suoi stati emotivi. In parte sono i nostri neuroni specchio che ci abilitano potenzialmente a questo tipo di competenza; ma poi molto dipende dalle nostre personali esperienze, partendo proprio da quelle relazioni primarie che attengono alle varie teorie dell’attaccamento e della cura.
La parola compassione etimologicamente deriva da cum/patire, cioè soffrire con e, rispetto all’empatia, rappresenta uno stadio più alto perché implica un livello di compromissione personale cosciente e consapevole, tale da farci attivare azioni di varia natura per alleviare il dolore e/o la sofferenza degli altri. Spesso confusa con la pietà o la pena, in realtà è davvero una capacità molto complessa e decisamente pratica. La compassione, sul piano emozionale, è un sentimento che si presenta quando vediamo qualcuno soffrire: condizione che produce reazioni nel nostro sistema cerebrale collegato al benessere. Tutto ciò, sul piano cognitivo, determina un’attenzione razionale verso la sofferenza degli altri e ci aiuta a valutarne l’intensità. Grazie all’indignazione che tutto ciò suscita, ci aiuta a riflettere sulla nostra capacità di intervenire, impegnandoci consapevolmente, con azioni concrete, per alleviare quello stato di sofferenza che ci investe e coinvolge.
C’è più gioia nel dare che ne ricevere: lo sentiamo dire spesso. L’intelligenza compassionevole, studiata nelle discipline psicologiche, parte proprio da questa constatazione tradizionale, avendo ormai stabilito e studiato attraverso diverse ricerche che questo tipo di intelligenza migliora il nostro benessere psicologico, con conseguenti ricadute positive anche sulla salute del nostro fisico.
La compassione assieme all’empatia, dunque, sono le coordinate che ci aiutano a riconoscere la sofferenza come parte dell’umanità e della vita, e di noi e degli altri dentro di essa. Ed è sempre la compassione, con la sua carica di sdegno ed indignazione, che attiva la nostra capacità di farci carico della sofferenza cercando soluzioni per ridurla o alleviarla.
Quando invece non riusciamo a riconoscere più questa comune situazione di sofferenza ci troviamo ad assistere a tristissimi episodi di negazione dell’altro e della sua umanità: così come ricordiamo ed assistiamo in molti episodi, anche recenti, della nostra storia. Le parole opposte alla compassione sono indifferenza, estraneità, impassibilità. Sono le parole dell’individualismo esasperato, della negazione del riconoscimento dell’altro, del diverso. Parole che producono scarti, allontanamento e rottura: perché attengono all’invidia, alla gelosia, all’odio ed alla rivalità.
Purtroppo, assistiamo quotidianamente al dilagare di questi sentimenti disumanizzanti. Papa Francesco ripetutamente ci porta a riflettere su quanto questi sentimenti negativi ci allontanino gli uni dagli altri e nello stesso tempo ci portino lontano anche da Dio e dal suo linguaggio compassionevole. Le parole di Dio sono parole di compassione, che è virtù specifica di Dio: “ho visto il dolore del mio popolo” dice Dio a Mosè nella Bibbia. E quante volte Gesù prova compassione (solo per ricordare alcuni: episodio della vedova di Nain, la morte di Lazzaro, la moltiplicazione dei pani e dei pesci); la prova anche davanti alla ritrosia dei discepoli e delle diverse persone con i quali si mescola ed impasta nella sua vita. È questa compassione che gli fa guardare alla realtà senza paura, con vicinanza, disponibilità: un atteggiamento che porta alla ricerca della vera giustizia. È con questo sguardo che Gesù guarda anche ognuno di noi ed è lo sguardo che anche noi dovremmo avere verso gli altri. Un esercizio di umanizzazione di cui abbiamo tutti molto bisogno per dar vita ad un mondo giusto dove ognuno possa trovare spazio, insieme.
Questo focus è dedicato al tema della pace. Partiamo dal messaggio per la 56esima Giornata mondiale della pace di papa Francesco dal titolo “Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace” e ragioniamo sulle conseguenze della guerra Russia-Ucraina a poco più di un anno dalla scoppio del conflitto bellico.
Lo facciamo, come sempre, proponendo contributi di esperti di diversi ambiti (religioso, filosofico, geopolitico, psicologico) che cercano di leggere la realtà e di dare alcune risposte per l’oggi ed il domani.
Iniziamo con Padre Massimo Fusarelli (Ministro Generale dell’Ordine dei frati minori Francescani – OFM) che osserva come “in un tempo segnato dall’incertezza che la pandemia ci ha fatto riscoprire e che la guerra ha accentuato, parlare del fatto religioso sembrerebbe rimandare a qualcosa di consolatorio o di magico. Invece siamo a parlarne come una via possibile di dialogo e di fratellanza. E ne parliamo proprio come un cammino fatto insieme. Dove spesso la religione è stata occasione di contrapposizione e persino di guerre sanguinose, oggi parliamo di un’esperienza nuova da fare insieme. Ciò richiede il riconoscimento reciproco tra persone di religioni diverse: l’altro non è il male, da rifiutare se non eliminare. Riconosco e stimo nella esperienza religiosa dell’altro una realtà buona, che tocca l’intimo della persona, fino a plasmarne la mente e il cuore”.
Secondo Roberto Mordacci (Professore ordinario di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano dove è prorettore per le scienze umane e sociali) “l’utopia della pace è nelle nostre mani: non la fine definitiva di ogni conflitto possibile, forse, ma almeno la fine delle guerre che derivano da logiche di potenza, da sfruttamento e da piani imperialistici che prevedono come esito solo la distruzione e la sottomissione di altri esseri umani. Bisogna resistere alla tentazione di pensare che, se si tratta di un’utopia, questo obiettivo sia irraggiungibile. È una tentazione diabolica. La voce della speranza, e la vocazione della fede, ci inducono a pensare l’utopia della pace come realmente possibile, perché essa dipende dalla “facoltà del possibile” che si trova negli esseri umani, ovvero la capacità di scegliere il bene contro il male”.
Simonetta De Fazi (Dipartimento Pensiero e Politica delle Acli nazionali) propone una serie di poesie “di pace”, bellissime e tremende, contro la guerra. E si chiede: “Le poesie contro la guerra sono poesie di pace? (…) Due guerre mondiali – o una lunghissima, ferocissima unica guerra con qualche anno di pausa – hanno d’altra parte sottoposto centinaia di persone (poeti compresi) all’esperienza drammatica del conflitto. Ma la morte e la rovina non hanno colpito “solo” gli esseri viventi e le città e i paesi, ma insieme all’anima hanno colpito le parole, la capacità stessa di esprimere memoria, dolore, sdegno e vergogna. Probabilmente staremo pensando tutti, io che scrivo e voi che forse leggerete, alla guerra nella vicina Ucraina. La città di Kiev ricorre in due “poesie di pace”, una di Pablo Neruda e l’altra di Gianni Rodari. (…) E, sulla pace, chiudiamo con due poesie di Wisława Szymborska. “Pace”, come “Cerco la parola”, è stata scritta nel 1945 e pubblicata in Italia nell’ottobre scorso da Adelphi”
Secondo Alfonso Giordano (Professore associato di “Geografia economica e politica” presso l’Università Niccolò Cusano di Roma e docente di “Climate Change, Environment and Sustainability”, “Demography and Social Challenges”, Geopolitics, Population and Technology” presso l’Università LUISS di Roma) “una guerra ha molti drammatici effetti collaterali: sulle persone, con seri rischi sulla propria sopravvivenza, diffusione della fame, aumento dell’impoverimento, migrazioni in cerca di rifugio; e sull’ambiente, con devastazione, degrado e inquinamento. La guerra in Ucraina dimostra che, sempre di più, abbiamo bisogno di idee, politiche e azioni condivise per la pace tra gli uomini e la salvaguardia del “bene comune” pianeta che, pure questo dovrebbe esser superfluo ricordare, è la salvaguardia di noi stessi”.
Per Marco Bertolini (ex militare italiano, già comandante del Comando operativo di vertice interforze e della Brigata Folgore. Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia) “i motivi che facevano prevedere una recrudescenza della crisi russo-ucraina, in congelatore e confinata nelle repubbliche indipendentiste del Donbass dal 2014, erano molti. Che Mosca nel 2022 non accettasse l’allargamento della Nato al “cortile di casa” l’aveva già dimostrato otto anni prima con la rioccupazione della Crimea – sede della sua Flotta del Mar Nero e quindi regione irrinunciabile per operare nel Mediterraneo – dopo la drammatica, sanguinosa e strana rivolta del Maidan che aveva allontanato il Presidente Janukovich da Kiev per sostituirlo con una dirigenza indigesta ai russi (Poroshenko). Prima o poi si arriverà ad un dopoguerra, e certamente sarà molto difficile per noi rallacciare rapporti con un vicino di casa come la Russia che tale rimarrà, ma contro il quale abbiamo operato una chiusura assoluta in una fase della sua storia certamente marcata da suoi errori, ma anche da percezioni sulla propria sicurezza che non possono essere sottovalutate”.
Giulio de Felice (Adjunct Professor presso Sapienza Università di Roma dove insegna “Psicologia dello Sviluppo” e “Psicologia Generale”) “analizza i rapporti commerciali di vendita e acquisto dei vaccini relativi al Covid-19 come misura dei rapporti di influenza tra le diverse regioni del mondo. Prendendo in considerazione tutti i vaccini con un grado di diffusione globale esamina le specifiche regioni di diffusione. In particolare, sono presentate le regioni ad influenza geopolitica unipolare e multipolare con il fine di indentificare i territori potenzialmente più in grado di provocare importanti frizioni geopolitiche regionali o globali”
Proponiamo infine un’intervista del giornalista Alberto Mattioli ad Ugo Poletti, residente da anni a Odessa dove ha fondato il “The Odessa Journal”.
Per concludere una nota sul titolo generale del nostro focus. Abbiamo voluto richiamare alcune parole di Don Tonino Bello, già presidente di Pax Christi, vescovo modello citato da Papa Francesco, che diventerà presto beato.
Nel discorso pronunciato nell’Arena di Verona, il 30 aprile 1989 – in occasione dell’incontro organizzato dai “Beati costruttori di pace “ – Don Tonino pronuncia parole straordinarie, dirompenti, profetiche che indicano ancora a tutti, credenti e non credenti, il sentiero per costruire la pace.