In un periodo di lockdown come l’attuale rischia di passare inosservata la condizione di tante donne impegnate in ininterrotte attività di produzione e riproduzione sociale. Vogliamo che le donne siano ascoltate e che le loro istanze vengano considerate e tutelate, dal momento che anche nel post pandemia saranno le più esposte al rischio di perdere il lavoro, in modo da evitare che il peso della crisi si scarichi unicamente su di loro.

In un periodo di lockdown come l’attuale rischia di passare inosservata la condizione di tante donne impegnate in ininterrotte attività di produzione e riproduzione sociale.

Le donne sono in prima fila nella guerra al virus, non solo grazie alle tante iniziative messe in campo, ma anche (e soprattutto) per i comparti a prevalenza femminile schierati in questa lotta: ci riferiamo alle donne del personale sanitario, che tra gli infermieri raggiungono quota 78% in Italia (circa il 70% a livello mondiale), alle commesse e alle addette alle vendite specie nel settore alimentare, che sono altrettante, alle donne che lavorano nei trasporti, nel settore smaltimento rifiuti, sanificazioni e pulizie, ma anche alle moltissime donne della Protezione civile, impegnate nei compiti legati all’emergenza.

La segregazione professionale ha femminilizzato alcuni settori, tradizionalmente legati alla cura e ai servizi, che saranno più esposti alla fine dell’emergenza: l’ILO (l’Organizzazione mondiale del Lavoro) stima che il 56,8% delle donne occupate nel mondo lavora nel settore dei servizi, contro il 45,4% degli uomini. Le donne hanno, inoltre, minore accesso alla protezione sociale e sosterranno un carico eccessivo nell’economia di cura. Infine, nel mercato del lavoro italiano, è la componente femminile a prevalere tra chi ha un contratto precario o a termine: saranno, dunque, le donne ad essere più esposte al rischio di perdere l’occupazione. Ancor prima ad essere colpite saranno le autonome e chi ha un lavoro irregolare, non potendo far valere alcun diritto. Tutto ciò nel quadro di una perdita complessiva di 25 milioni di posti di lavoro nel mondo a causa dell’attuale epidemia, stimata dall’ILO.

Ma anche altri sono gli aspetti che interessano le donne in questa pandemia, a partire dalle nuove modalità di lavoro. In molti casi si tratta di smart working. In realtà, più propriamente si dovrebbe parlare di lavoro a distanza o da remoto, meglio definibile lavoro da casa, dato che non è scelto ma imposto dalle circostanze. Quando è stato introdotto in Italia, con la legge del 2017, lo smart working è stato definito come una forma flessibile di lavoro, che in teoria consente maggiore autonomia al lavoratore, immaginata per armonizzare meglio i tempi di vita e i tempi di lavoro, sostenendo al contempo la crescita della produttività. Ma in questo momento a prevalere sono approcci informali, senza iniziative strutturate, regole chiare e strumenti adeguati. Perciò le condizioni non sono di per sé quelle di un “normale” accesso e svolgimento di smart working.

Specialmente se si tratta delle donne. Perché il rischio è che tornino ad affacciarsi gli stereotipi di sempre. Intanto perché si parte dal presupposto che la casa sia uno spazio vuoto, che si può riempire di un lavoro che viene dall’esterno senza creare impatti. Ma se gli impegni online sono gli stessi, va pure considerato che la casa è spesso abitata da altri soggetti, che richiedono altrettanti spazi e attenzioni. Il tempo di lavoro si ingigantisce per preparare e seguire tutti i compiti, dato che la casa non è un mondo neutro e che funziona da sé. Le attività che si svolgono all’interno delle mura domestiche (tra cui la cura dei figli), proprio perché non hanno visibilità pubblica, sono riconosciute in modo insufficiente e continuano ad essere subordinate alle logiche del lavoro e della produttività.

Intanto, le nuove tecnologie mobili rendono sempre più difficile prendere le distanze dalle attività lavorative. Essere sempre raggiungibili e disponibili per il datore di lavoro, può accentuare il conflitto tra il lavoro e la famiglia o comunque la propria sfera personale, perché il confine tra lavoro e vita privata tende a scomparire. L’iper-connettività rischia di travolgere questa linea di demarcazione, negando la finalità stessa alla quale lo smart working si suppone sia orientato. Una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa pensata per consentire una migliore conciliazione dei tempi finisce per provocare la reciproca interferenza e sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita, che può essere fonte di conflitti personali e familiari.

Se già in condizioni di “normalità” le donne italiane dedicano in media ogni giorno 7 ore di lavoro non retribuito alle attività domestiche, supplendo alla mancanza di politiche sociali capaci di offrire forme di welfare universale, garantire un’effettiva conciliazione dei tempi di lavoro e di vita ed eque condizioni lavorative, risulta difficile credere che la situazione possa migliorare in tempi di pandemia e distanziamento sociale.

È prevedibile, invece, che le donne comprimano ulteriormente gli spazi personali e allunghino il tempo dedicato al lavoro, sia esso lavorativo o di cura. La casa è un luogo in cui esistono asimmetrie di autonomia e di potere tra uomo e donna, che non si annulleranno per l’emergenza. Anzi, poiché le donne lavorano spesso part time e sottopagate assumeranno maggiori responsabilità di cura, per convenienza economica, se non per stereotipi, che però si mostrano vivi e vegeti.

I ruoli tradizionali, seppur latenti e indeboliti dall’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, in tempo di crisi e di incertezza tornano prepotentemente alla ribalta, ponendo sulle spalle delle donne il carico maggiore. Anche sul piano dello stress, perché fondamentalmente sono le donne a farsi carico del peso psicologico di decidere il da farsi per i membri della famiglia, nello stabilire le regole di tutela e di prudenza, nel controllare che nessuno abbia sintomi, ecc.

Ma i rischi per le donne vanno ben oltre la sfera lavorativa e la parità di genere. Secondo un recente rapporto dell’Unfpa (il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione), è a rischio la salute sessuale e riproduttiva di almeno 48 milioni di donne nel mondo, di cui 4 milioni in stato di gravidanza. Le risorse dirottate per contrastare il virus comporterebbero maggiori rischi di mortalità materna e neonatale.

Inoltre, uno sgradito “effetto collaterale” del lockdown riguarda la drammatica situazione di tutte quelle donne che vivono in casa con mariti, padri o figli violenti. C’è un serio pericolo che aumentino gli episodi di abusi a causa di una prolungata convivenza forzata con uomini maltrattanti, i quali potrebbero adottare comportamenti ancora più coercitivi ed aggressivi in una situazione di incertezza ed instabilità finanziaria. Purtroppo, le ultime notizie di cronaca sembrano confermare queste preoccupazioni, come dimostra d’altronde il raddoppio degli episodi di violenza domestica nella provincia dell’Hubei durante il periodo di blocco.

L’emergenza corona virus rischia di aggravare un problema strutturale della nostra società. Le donne che vivono con partner violenti, costrette dentro alle mura domestiche in questa fase, rischiano un maggiore isolamento e conseguente impossibilità di chiedere aiuto; mentre quelle che già hanno intrapreso un percorso di fuoriuscita rischiano di trovarsi in difficoltà per l’impatto economico dell’emergenza. Il segnale del malessere si coglie nel fatto che da quando è iniziata la crisi sono drasticamente diminuite le segnalazioni ai centri anti-violenza.

In conclusione, la pandemia sta già avendo un impatto sulla vita delle persone e delle donne specialmente, grazie a premesse che vengono da lontano. L’indifferenza nei confronti della cura e i tagli alla spesa pubblica condotti negli anni non sono decisioni senza genere, perché lo smantellamento del welfare ha un impatto sulle donne del tutto particolare, essendo tuttora incaricate del lavoro di riproduzione sociale. Crisi e austerità hanno già duramente colpito le fasce più deboli della popolazione e in particolare le donne, che hanno visto peggiorare le prospettive occupazionali, aumentare le disparità salariali e scomparire forme già limitate di protezione sociale.

Malgrado gli impatti negativi della pandemia sulle donne siano molteplici, ben poco si parla degli effetti distorsivi sulle disuguaglianze di genere, anche se i precedenti episodi di epidemie mondiali hanno avuto effetti profondi e durevoli sulle disparità di genere.

Conoscere come la crisi investe in modo diverso uomini e donne è essenziale per prevedere gli effetti primari e secondari dell’emergenza sanitaria su individui e comunità e approntare interventi e politiche efficaci ed eque. Per questo occorre inserire la voce delle donne e analisi di genere negli sforzi che si compiono in risposta all’emergenza. Ma ciò che si vede al momento è la solita sotto-rappresentanza femminile negli spazi politici nazionali e globali formati per contrastare il virus, come le varie Task Force create allo scopo, che andrebbe prontamente riequilibrata.

Ci auguriamo – come Coordinamento Donne Acli – che le donne siano ascoltate e che le loro istanze vengano considerate e tutelate, dal momento che anche nel post pandemia saranno le più esposte al rischio di perdere il lavoro, in modo da evitare che il peso della crisi si scarichi unicamente su di loro.

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