Nelle società democratiche ogni persona dovrebbe avere lo stesso valore e ogni vita dovrebbe essere protetta. Ma non è sempre così. Questa premessa etica di base è infatti continuamente messa in discussione, e lo è ancor di più durante la pandemia che stiamo vivendo.
La sospensione delle nostre vite che nel tempo ha assunto un perimetro geografico e un perimetro di azioni sempre più ampio (da alcuni comuni, ad alcune regioni, a tutto il territorio nazionale; dalla sospensione di alcune attività e luoghi di incontro al blocco di tutte le attività e al divieto di uscire di casa), con restrizioni estremamente dettagliate per tutelarci dal Covid-19, ad una parte della popolazione – gli immigrati – non ha apportato alcun tipo di tutela.
Infatti, gli oltre 5 milioni di migranti regolari e 600 mila irregolari (drasticamente aumentati a partire dai due decreti sicurezza) del nostro Paese, che già in situazione di normalità hanno maggiori condizioni di disagio dal punto di vista lavorativo, economico, abitativo rispetto alla popolazione autoctona, hanno vissuto un maggiore contraccolpo, dandoci la certezza che non è vero che la pandemia abbia colpito tutti allo stesso modo.
Gli immigrati combinano molte caratteristiche che li hanno resi più a rischio. Numerosi sono coloro che hanno avuto difficoltà ad accedere alle informazioni e a comprendere le misure preventive da adottare, per padronanza parziale della lingua; altri non hanno avuto accesso al sistema sanitario. Dal punto di vista occupazionale, molti di essi sono particolarmente vulnerabili e vivono in abitazioni precarie o sovraffollate che rendono difficile mantenere la distanza consigliata. Inoltre, molti migranti che si sono ritrovati senza alcun introito a seguito delle misure di confinamento, non hanno potuto beneficiare degli aiuti statali o del comune destinati a compensare la perdita di reddito.
Ancor più complicata è la situazione per i richiedenti asilo, ospiti nei sistemi di accoglienza pubblici (CAS, CPR, Hotspot, Siproimi). Dopo lo smantellamento degli SPRAR (che prevedeva un’ospitalità diffusa e individualizzata) e il ritorno alle grandi strutture composte da camerate di 5/10 posti, è stato impossibile garantire le misure minime di distanziamento ed è venuta a mancare ogni minima dotazione igienica (mascherina e gel igienizzante), come un serio monitoraggio della condizione di salute dei richiedenti asilo.
Infine, il dramma dei ghetti dove vivono i molti migranti invisibili che hanno continuato a raccogliere la frutta e la verdura che arrivavano sulle nostre tavole. In questi luoghi di segregazione c’è sovraffollamento, non c’è acqua corrente e non ci sono servizi igienici: tre elementi fondamentali per alimentare il contagio.
Eppure, dopo anni di sovraesposizione dei media sul tema dei migranti, è calato il silenzio: pochi hanno denunciato la loro situazione. E’ vero, a meno di un mese dall’inizio del lock down totale, il tema è tornato alla ribalta, ma ancora una volta non per denunciare la mancanza di tutela nei loro confronti, bensì per tutelare ulteriormente la popolazione italiana e per rafforzare la fortezza Europa.
Attraverso un decreto firmato da quattro ministri, il nostro Paese ha dichiarato che l’Italia non poteva più garantire porti sicuri. E ciò avveniva proprio mentre l’unica nave attiva – la Alan Kurdi della ong tedesca Sea Eye – con a bordo 150 persone salvate al largo della Libia, chiedeva a Malta e all’ Italia un porto di sbarco. Nel Decreto, infatti, si affermava che a causa del Covid-19 non poteva essere garantita alcuna sicurezza ai migranti che venivano soccorsi al largo della Libia, da dove le persone continuavano a fuggire a bordo di imbarcazioni precarie. Nella realtà dei fatti, a causa della pandemia, nessun porto d’Europa era sicuro e si rischiava, qualora una sola persona salvata o un membro dell’equipaggio fosse risultato positivo al virus, di creare un focolaio in mare, sommando tragedia a tragedia. Si è trattato di un provvedimento scellerato: l’aiuto umanitario non ha deroghe e per nessun motivo si può sospendere il diritto sovranazionale di soccorso in mare. Ma l’Italia e l’Europa hanno colto la palla al balzo per utilizzare la scusa del contagio e alzare ulteriori muri a difesa dei propri confini.
Dopo questo decreto, è seguito un altro breve periodo di silenzio, fino a quando non ci si è accorti che la frutta iniziava a marcire sugli alberi perché non vi era più chi la raccoglieva. Il rischio che non ci fosse più il fresco negli scaffali dei supermercati e che non avessimo potuto mangiare fragole, asparagi e le migliori primizie primaverili, ha fatto sì che si cominciasse a parlare di regolarizzazione dei migranti – ma solo dei braccianti – per noi italiani particolarmente utili in questo momento storico.
Il dibattito è stato lungo e serrato all’interno del nostro Governo, ma nel Decreto del 13 maggio, oltre ad un’ampia serie di provvedimenti economici, è contenuta anche la misura di regolarizzazione per una parte di migranti irregolari che vive nel nostro Paese. Si prevede, infatti, che potrà avere accesso a questa misura circa un terzo delle 600mila persone che oggi sono in Italia senza un regolare permesso di soggiorno. In effetti, hanno diritto a questa misura soltanto alcuni lavoratori (agricoltura, pesca, settori della cura) e si può ottenere in due modi: i datori di lavoro possono chiedere di regolarizzare un immigrato che vogliono assumere oppure i migranti possono chiedere un permesso temporaneo di sei mesi per cercare lavoro. In realtà vi sono così tanti vincoli che la platea degli aventi diritto si riduce ad un pugno di persone.
Per la Campagna Ero straniero. L’umanità che fa bene, di cui le Acli sono promotrici, questa misura è quindi solo un primo passo, ma molto resta ancora da fare: “Non possiamo non ribadire che, per una reale efficacia dell’intervento, sarebbe stato necessario un allargamento quanto più possibile della platea dei beneficiari: innanzitutto non limitando l’accesso alla procedura di regolarizzazione prevista al comma 1 ai settori agricolo, di cura e lavoro domestico, ma aprendo anche agli altri comparti. Troppo restrittivi poi i requisiti richiesti al cittadino straniero per poter chiedere il permesso di soggiorno di sei mesi per cercare un lavoro, previsto dal comma 2. La garanzia di un contratto – in un qualsiasi settore – non è già un elemento sufficiente perché la persona assunta possa vivere dignitosamente e contribuire alla società? Che senso hanno queste limitazioni se l’obiettivo della misura è il contrasto dell’invisibilità, con tutte le gravi conseguenze sul piano economico, sanitario e di sicurezza sociale che tale condizione comporta?”
La netta sensazione è che questa misura non riuscirà a debellare la piaga dello sfruttamento e del caporalato nel settore dell’agricoltura e in molti altri settori proprio perché, come afferma il sindacalista Aboubakar Soumahoro “sono state regolarizzate solo braccia, non essere umani”.
Servono misure strutturali all’interno di un quadro integrato di politiche d’accoglienza e di integrazione. Per contrastare l’irregolarità e le conseguenti distorsioni sociali, economiche e di sicurezza che tale fenomeno comporta sono utili soluzioni a lungo termine, pragmatiche e più coraggiose. Le misure tampone, quelle rivolte solo ad alcuni comparti dell’economia, sono misure strumentali dettate dal bisogno occasionale del mercato produttivo italiano, non dalla volontà di rendere effettivamente “regolari” le persone che vivono nel nostro paese, rendendoli titolari di diritti e doveri.
Secondo il rapporto Eurispes (2020), soltanto dal punto di vista economico, la metà dei circa 5.255.000 immigrati con permesso di soggiorno presenti in Italia, lavorano, producendo l’8,7% del Pil nazionale e versando 14 miliardi di contributi (ricevendone solo 7). Già queste evidenze positive ci dicono che è tutto nostro interesse, almeno dal punto di vista economico, regolarizzare gli invisibili.
Ma noi vogliamo andare oltre. In questo periodo storico, in cui il corona virus ha minato ogni nostra certezza e ci ha chiamato ad inventare nuovi paradigmi e nuovi processi di democratizzazione, l’obiettivo della regolarizzazione ha un senso solo se inserito in un’idea più ampia di economia etica. Un’economia buona che ha come ideale uno Stato che sia orientato al bene comune e ai beni relazionali, senza confini ed emarginazioni.
Al mantra “andrà tutto bene” che per settimane abbiamo sentito, scritto sui balconi e fatto disegnare insieme ad un colorato arcobaleno ai nostri figli, manca un pezzo. Quel pezzo è scritto su un muro di Rebibbia, quartiere periferico di Roma, “andrà tutto bene se andrà bene per tutti”, italiani o immigrati che siano.
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