Fin dagli esordi, e ancora dopo l’ondata di secolarizzazione degli anni ‘60, l’attenzione verso le fasce più deboli della popolazione, il volontariato, le pratiche di formazione professionale e le forme di cooperazione allo sviluppo sono stati gli elementi costitutivi dell’esperienza aclista che pone la persona umana come fondamento e fine ultimo di ogni azione civile e politica. Le Acli continuano a rappresentare il reagente necessario per opporsi al riduzionismo economico e al relativismo etico, in ragione della loro azione educativa e sociale volta a rafforzare negli associati il senso di responsabilità per la costruzione del bene comune.

Le Acli hanno rappresentato una sorta di laburismo cristiano già dal secondo dopoguerra, una stagione politico-economica e sociale che ha segnato per il mondo cattolico «un momento di crisi e di opportunità», come efficacemente osservato dagli storici Gerd-Rainer Horn ed Emmanuel Gerard nel libro Left Catholicism 1943-1955, che demitizzava lo stereotipo dell’industrializzazione come fattore di crisi della dimensione religiosa fra le masse popolari e metteva al contrario in risalto la presenza cristiana nei luoghi topici della modernità come le fabbriche.

Fin dagli esordi, e ancora dopo l’ondata di secolarizzazione degli anni ‘60, l’attenzione verso le fasce più deboli della popolazione, il volontariato, le pratiche di formazione professionale e le forme di cooperazione allo sviluppo sono stati gli elementi costitutivi dell’esperienza aclista che pone la persona umana come fondamento e fine ultimo di ogni azione civile e politica.

A partire dalla metà degli anni ‘90 del XX Secolo, nondimeno, il dibattito pubblico si è progressivamente orientato verso il paradigma della cosiddetta “fine del lavoro”, con tutte le sue implicazioni socioeconomiche.

La fine del lavoro, noto saggio di Jeremy Rifkin del 1995, annunciava appunto l’avvento dell’era post-ideologica in cui la figura del lavoratore sarebbe scomparsa insieme ad altre obsolescenze dell’economia novecentesca, come la scansione ripetitiva della produzione di fabbrica e il rapporto di subordinazione retributiva. Negli ultimi trent’anni tale concezione, nel silenzio quasi generale della riflessione storica e politica, spesso anche di quella dei credenti, è diventata verità assiomatica e ha imposto il tramonto del valore sociale del lavoro e il declino dell’occupazione quali normali impatti trasformativi della flessibilizzazione del mercato globale, effetti considerati dal senso comune come dati ineluttabili cui uniformare parametri comportamentali e sistemi di vita, in una condizione umana fluttuante, precaria, intermittente, sottoposta alla dissoluzione dei legami sociali e personali.

Il pontificato di Papa Francesco ha tuttavia radicalmente messo in crisi l’acquiescenza a tale paradigma, con numerose prese di posizione contro l’«economia che uccide» attraverso precariato e lavoro nero (4 febbraio 2017), contro «chi, per manovre economiche […], chiude fabbriche, chiude imprese lavorative e toglie il lavoro agli uomini [e] compie un peccato gravissimo» (15 marzo 2017). Il 18 giugno 2016, di fronte ai giovani di Villa Nazareth, ha ribadito: «La parola più forte qui è lavoro. A me fa tanto bene pensare a Don Bosco, alla fine dell’Ottocento, in quella Torino massonica, mangiapreti, povera, dove i ragazzi erano per la strada… Cosa ha fatto, lui? È andato con l’acqua benedetta? No. Ha fatto educazione di emergenza, ha fatto studiare per […] entrare nella cultura del lavoro».

Il monito di Papa Francesco invita dunque a ricollocare al centro della riflessione del pensiero credente il tema del «lavoro» nella sua doppia accezione di forza-lavoro, risorsa sempre meno protetta e retribuita (per effetto dell’investimento finanziario in dispositivi di captazione del profitto all’esterno dei processi direttamente produttivi) e di forza-valore, elemento valorizzante dell’umanità della persona, del suo progetto di vita condiviso con la collettività.

I cattolici impegnati in politica e nel sociale hanno infatti di fronte a sé nuove problematiche che, nella loro drammaticità, smentiscono l’assunto del tramonto della centralità del lavoro e del connesso superamento delle disuguaglianze strutturali: i costi ambientali dello sviluppo produttivo; le economie criminali; la sfida migratoria. Il cambiamento climatico richiede un mutamento di prospettiva, una nuova visione della crescita che ponga al centro la persona e il suo benessere integrale, promuovendo un modello economico ecologicamente sostenibile, socialmente inclusivo e rispettoso dei diritti di tutti, in cui la salute e l’occupazione non siano più percepite come antagoniste, ma componenti sinergiche di un progresso autenticamente umano. Le economie criminali proliferano nel contesto della ricerca del profitto a ogni costo per trarre ingenti guadagni da attività illecite, sfruttando le maglie legislative e le zone d’ombra del mercato globale fino a minare le fondamenta stesse dell’ordinamento giuridico e del tessuto sociale. La condizione dei migranti, relegati ai margini della società e privati dei diritti fondamentali, si configura inoltre come una sorta di nuova “questione sociale”. La dignità del soggetto migrante dovrebbe infatti essere riconosciuta per la sua intrinseca e inalienabile appartenenza alla comunità umana e non essere misurata solo con il metro di un permesso di soggiorno in corso di validità.

Di fronte a tali scenari, le Acli continuano a rappresentare il reagente necessario per opporsi al riduzionismo economico e al relativismo etico, in ragione della loro azione educativa e sociale volta a rafforzare negli associati il senso di responsabilità per la costruzione del bene comune.

L’agire per il bene comune non può infatti risolversi nell’attività individuale del singolo, ma necessita di una dimensione cooperativa in cui il credente possa partecipare come cittadino attivo, riproponendo la scala dei valori inscritta nella propria cultura di appartenenza e riadattandola alle situazioni concrete. L’interesse generale non è infatti un concetto statico, ma si evolve nel tempo in risposta ai mutamenti sociali, lungo le coordinate di un processo dinamico che amplia continuamente la sfera dei diritti riconosciuti e tutelati, come testimonia l’emergere di nuove sensibilità legate alla non discriminazione, all’accesso ai servizi essenziali e alla sostenibilità ambientale.

In questo senso le assemblee partecipative, contemplate nella proposta di legge di Acli e Argomenti2000 «in materia di partecipazione», offrono uno spazio in cui i cittadini possano tradurre i principi costituzionali di uguaglianza in politiche concrete attraverso il confronto diretto con i decisori pubblici nell’elaborazione collettiva delle soluzioni. La campagna aclista, dunque, si muove nella direzione giusta, poiché asseconda istanze di partecipazione democratica che, in assenza di un ordine etico di valori fondanti, rischierebbero di risolversi in una mera espressione contestataria. La storia recente ha infatti dimostrato come la domanda di cambiamento espressa da molte fasce sociali, spesso le più vulnerabili, perda tutta la sua legittima cogenza rivendicativa e si esaurisca il più delle volte nel grido sterile della semplice protesta laddove non riesca a incanalarsi nella dialettica istituzionale, sorretta dall’elaborazione di significati costruttivi e finalizzati.

In quest’ottica il ruolo del laicato cattolico impegnato può tornare nuovamente a esprimersi, come proficuamente avvenuto in altre stagioni della storia italiana, nel tentativo di colmare il divario tra il singolo e la comunità, fronteggiando l’individualismo esasperato, il disinteresse per la cosa pubblica e la disaffezione verso la politica. Il cristiano è ancora chiamato a una reazione responsabile che rechi il contributo specifico della propria identità, formata e arricchita dall’appartenenza alla comunità ecclesiale e alla Chiesa. È quest’ultima che, come ricordava Paolo VI nella sua Allocuzione in occasione dell’apertura del terzo periodo conciliare, «sta in mezzo», «tra Cristo e la comunità umana», «non ripiegata su di sé, non come velo opaco che impedisce la vista, non fine a sé stessa», ma al contrario «tutta degli uomini, tra gli uomini, per gli uomini».

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