Paradossalmente, ma forse non troppo, questo è un tempo quanto mai opportuno per le Acli, e altri che trovano in esse un riferimento, per andare a Congresso.
A fronte di frammentazioni, polarizzazioni e involuzioni che segnano sempre più in profondità le proprie dimensioni vocazionali – l’essere Chiesa, in Italia e non solo; la Democrazia costruita sulle rovine fumanti della Seconda Guerra mondiale e dopo la tragica e mai definitivamente conclusa stagione del fascismo; il mondo del lavoro, sempre più alla ricerca di una propria identità a fronte delle disuguaglianze crescenti e dell’imporsi della transizione tecnologica – il Congresso è, laicamente, una importante opportunità e, cristianamente, un tempo di grazia, per riflettere e decidere del servizio al futuro a cui si è chiamati.
In particolare, in un oggi segnato dalla rimozione della memoria e dallo schiacciamento sul presente, in cui la stessa idea di futuro e della sua realizzabilità attraverso una strategia consapevole e condivisa sono di fatto delegittimate se non negate.
Il ruolo, metaforicamente, di cerniera svolto dalle Acli nel corso del loro lungo cammino – tra Chiesa e mondo del lavoro, tra società civile e istituzioni, tra prossimità territoriale e dimensione internazionale, tra movimento (associativo) e servizi, tra impegno sociale e politica, ecc. – se si assume uno sguardo lungo, rappresenta un punto di forza, sia dal punto vista spirituale – una quarta fedeltà ai tempi che si è chiamati a vivere, evocando Aldo Moro – che sociale e politico – un patrimonio a cui attingere per ricostruire un pensiero strategico capace di fattivi passi verso condizioni di pace, di giustizia, di rispetto dell’ambiente, di dialogo tra diversi.
La testimonianza e il magistero di papa Francesco possono accompagnare in questa ricerca, nonostante anch’Egli rischi di essere, in un certo qual modo, vittima della rimozione della memoria e delle pretese brevetermistiche che la accompagnano. Sembra, infatti, che da più parti ci stia dimenticando del travaglio della Chiesa cattolica negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II e di quello di Benedetto XVI. E del fatto che, come sostengono autorevoli teologi, Egli abbia, primo papa a non essere presente al Concilio Vaticano II, ripreso il testimone lasciato da Giovanni XXIII e abbia assunto, fino in fondo, il compito di riconoscere la fine della cd cristianità e avviato processi (nb. non progetti!!!) di ripensamento del modo di essere Chiesa e di come stare in questo tormentato nostro mondo contemporaneo.
Tra i molti[1], due sono i punti, entrambi cardini della storia e della attualità aclista, che meritano di essere richiamati: il contributo dato alla Dottrina sociale della Chiesa; la proposta di welfare glocal, a partire da essa e sulla scia della sua esperienza argentina.
Già come gesuita e poi come vescovo ausiliare e cardinale a Buenos Aires, la sua preoccupazione sociale è sempre stata al centro delle diverse forme del suo ministero. Intrinsecamente legata alla vita contemplativa, da essa trae spunto il suo modo di vivere e di pensare. Non solo, riprendendo il confronto avvenuto in sede di Concilio Vaticano II, Egli opera un riposizionamento teologico del pensiero e della prassi sociale della Chiesa: da dovere morale, all’amare come conseguenza della fede. E nel corso della sua esperienza – dal confronto con la dittatura del Colonnelli nelle periferie di Buenos Aires, al sub-continente latino-americano, all’Euro-mediterraneo, al mondo intero – sviluppa via via un progressivo ampiamento/estensione di tale visione. La politica e lo Stato (sociale), la vita cristiana e le sue implicazioni sociali, l’ecologia integrale, l’amicizia sociale e la fraternità, l’economia per lo sviluppo integrale, lo stretto rapporto tra pace e giustizia sociale, sono parti strettamente integrate di una visione unitaria – centrata sul nesso profondo tra carità e politica e tra misericordia e giustizia – che si arricchisce nel corso del tempo. Si può affermare che l’agenda di politica sociale di cui è promotore, così come gli Attori sociali a cui si riferisce e con cui pratica collaborazione e corresponsabilità, sono il contesto di maturazione, il luogo teologico, del suo lungo cammino spirituale e pastorale.
Da qui il primo invito: assumere come Acli il compito di contribuire fattivamente al processo di rinnovamento della Chiesa indicato da papa Francesco, in particolare del suo pensiero sociale, a partire dalla prassi e dalla spiritualità maturata nel corso dei propri ottanta anni al servizio dei lavoratori e delle lavoratrici. Un contributo di valorizzazione delle condizioni sociali che si incontrano, di pensiero sociale adeguato alle sfide che da esse emergono e, non da meno, di riflessione teologica e di vita contemplativa.
Il secondo invito è correlato. Le Acli, praticamente da sempre, grazie soprattutto al Patronato con l’accompagnamento dei lavoratori migranti, ma anche a Ipsia e ad altre articolazioni, vivono una esperienza internazionale di particolare rilevanza. A volte, molto più di quanto ne siano consapevoli. Al contempo, la centralità dell’impegno aclista per la pace ha sedimentato nella organizzazione una forte coscienza delle dinamiche geopolitiche e di quanto esse siano intrecciate proprio con la condizione di migrante e di profugo. E se mettiamo al centro queste figure, ovvero i milioni di persone che la incarnano, vediamo come le involuzioni del nostro sistema di welfare – nei loro confronti sempre più discriminatorio, se non persecutorio, nonostante l’indiscutibile contributo dato alla vita del Paese – possono essere considerate un ulteriore tassello della filiera di vittime che moltissime di esse sono costrette a subire. Detto altrimenti, c’è un nesso profondo tra impegno per la pace e impegno per un welfare centrato sull’art. 3 della nostra Costituzione. Due facce di una stessa medaglia coniata, non a caso, proprio sulla storia di miseria e di emigrazione di milioni di nostri nonni e bisnonni.
Al di là del fatto che tra quei nonni ci fossero anche quelli di Jorge Bergoglio; e di quanto Egli continui a richiamare l’impegno di tutti i credenti e gli uomini e donne di buona volontà ad accogliere, proteggere, promuovere e integrare; il suo pensiero sociale offre pure una prospettiva per affrontare le pesanti contraddizioni che vivono i nostri sistemi di welfare.
Continue, al riguardo, sono le prese di posizione e i riferimenti dottrinali. Uno per tutti. Nel messaggio per la V Giornata Mondiale dei Poveri (14 novembre 2021), a fronte dell’impatto della pandemia da Covid 19 il papa ritorna sull’idea che:
«si impone un differente approccio alla povertà. È una sfida che i Governi e le Istituzioni mondiali hanno bisogno di recepire con un lungimirante modello sociale, capace di andare incontro alle nuove forme di povertà che investono il mondo e che segneranno in maniera decisiva i prossimi decenni. Se i poveri sono messi ai margini, come se fossero i colpevoli della loro condizione, allora il concetto stesso di democrazia è messo in crisi e ogni politica sociale diventa fallimentare. Con grande umiltà dovremmo confessare che dinanzi ai poveri siamo spesso degli incompetenti. Si parla di loro in astratto, ci si ferma alle statistiche e si pensa di commuovere con qualche documentario. La povertà, al contrario, dovrebbe provocare una progettualità creativa, che consenta di accrescere la libertà effettiva di poter realizzare l’esistenza con le capacità proprie di ogni persona»[2].
Per i contenuti toccati, per la contestualizzazione, per le prospettive, questo messaggio indica la prospettiva, e la necessità, di un welfare universalistico glocal.
Per comprendere cosa ciò significhi, si deve riprendere la agenda di politica sociale di Bergoglio. Essa spazia dalle politiche urbane/metropolitane alle politiche migratorie, dai temi della casa e della terra a quelli della biosfera, dai servizi per le famiglie alle emergenze sanitarie, dalle politiche educative a quelle del lavoro. Nel tentativo, riuscito, della massima concretezza e aderenza alle condizioni di vita delle persone, in primis per l’appunto i più poveri, gli scartati, i senza dignità, ma insieme, o a causa di questo, i disoccupati, i giovani, i malati, i migranti, gli anziani non autosufficienti, le donne in vari modi maltrattate, ecc. Soggetti della propria emancipazione, da sostenere nelle varie forme di autorganizzazione (i movimenti popolari; i sindacati; la cooperazione), in un rapporto aperto e costruttivo con gli attori economici, per una reale partecipazione politica.
E visto che i problemi sono globalmente interconnessi, altrettanto interconnesse devono essere le istituzioni – quindi locali/nazionali e internazionali da implementare con sistemi di governance dinamici – per individuare soluzioni appropriate, e quindi universalistiche, con policies quali la retribuzione minima universale, l’accesso universale ai servizi sanitari di base, la vaccinazione universale anti Covid 19 pagata con la conversione della spesa in armamenti, l’alimentazione come diritto umano inalienabile, l’educazione delle bambine in particolare, solo per fare qualche esempio.
C’è molta storia delle Acli in queste parole e, ed è il secondo augurio, c’è anche molto del loro futuro. Buon Congresso.
[1] Cfr. il primo dei quattro volumi in Campedelli, M., G. Marcello, R. Marinaro, F. Marsico e S. Tanzarella ( a cura di) (2021) Dentro il welfare che cambia. Cinquant’anni di Caritas, al servizio dei poveri e della Chiesa (caritas.it).
[2] Messaggio del Santo Padre Francesco per la V Giornata Mondiale dei Poveri. «I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7), 14 novembre 2021 (vatican.va)
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