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Proponiamo a seguire un’intervista curata da Tommaso D’Angelo a Cristina Simonelli, teologa laica, docente di Storia della Chiesa e teologia antica (patristica/matristica) a Verona (San Zeno e San Pietro Martire) e presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (Milano), che dal 1976 al 2012 ha vissuto in un accampamento Rom, prima in Toscana, poi a Verona; è Attiva nel femminismo ecclesiale italiano e internazionale ed è stata dal 2013 al 2021 Presidente del Coordinamento delle Teologhe Italiane.

Prendiamo le mosse da una pubblicazione di cui è autrice con Francesco Botturi e Patrizio Rota Scalabrini: Frammentazione dell’esperienza e ricerca di unità, Glossa 2010. Questo libro cerca di interpretare la questione dell’unità in un mondo in cui la frammentazione dell’umana esistenza, esasperata dalle nuove tecnologie, diffonde l’esperienza dolorosa della solitudine e della divisione. C’è ancora la possibilità di associarsi, costruire un “noi” per la comunità e il bene comune? le istanze radicali del Vangelo e dell’insegnamento della Chiesa come agiscono in questo senso?

Evidentemente, se ancora resto in questo ambito di vita e di pensiero è perché lo sento ancora promettente. Riconosco – me lo permetto anche per anagrafe – di essere solo un’utente a bassa risoluzione delle nuove tecnologie, che hanno un peso notevole sulle vite e veicolano violenza non solo verbale e rischi di controllo e manipolazione. Oppure, come dice lei, di isolamento. Ma vale anche il contrario: grandi risorse, possibilità di attraversare cortine di silenzio imposto e di irrilevanza altrimenti non superabile. Certamente è una sfida, ma è possibile affrontarla penso. Quanto all’associazionismo, se non viene inteso in senso esclusivo oppure come claque di supporto della pubblicità ecclesiale peggiore, credo che sia importante, proprio per rendere meno astratta e rarefatta l’idea di un soggetto collettivo. Che già di suo, nella Chiesa cattolica, rischia di essere un po’ troppo “di scuderia”, a seguire parole d’ordine.

“I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni terra straniera per loro è patria, e ogni patria è terra straniera”.

Partendo da questo estratto di A Diogneto ci può aiutare a leggere, dal suo punto di vista, cosa significa oggi non distinguersi dalle altre persone, condividere una cultura? Affrontare le contraddizioni esistenziali e sociali? stare nella duplice appartenenza con la fede e l’impegno civile?

Inizio proprio dalla fine: vivere un’unica appartenenza, tenendo sotto controllo un senso di superiorità morale – peraltro smentito a ogni piè sospinto – che ancora troppo spesso ci spinge a formare i giovani cristiani insegnando che sono speciali e dovranno insegnare agli altri. A Diogneto, nella sua collocazione storica prima, nel II secolo dell’era volgare, e nella sua collocazione storica seconda, ossia intorno al Vaticano II e alla riflessione su laicato e laicità fatta fra gli altri da Lazzati, allontana da quell’immaginario. Il rischio è di allontanarlo a parole, ma tenerselo caro. Essere nella città di tutte e tutti significa essere in dialogo alla pari, imparando dagli altri e anche mettendo in comune le proprie idee, ma giù dai piedistalli.

La dialettica poi fra patria e terra straniera è potente, specialmente se confrontata con le tre grandi sfide da cui dipende molto della storia e del suo futuro: la terra come casa comune che stiamo calpestando, la violenza verbale e poi anche fisica nei confronti dei migranti, le guerre e gli armamenti.

In un contesto culturalmente plurale come il nostro, segnato da forti diseguaglianze sociali, la sua sensibilità e l’attenzione all’universo femminile, testimoniata con molte pubblicazioni (ne ricordiamo alcune: Eva, la prima donna. Storia e storie, Il Mulino 2021; con Paola Ricca e Rosanna Virgili, La donna nel Nuovo Testamento e nella Chiesa, EDB 2020; Con Moira Scimmi, Donne diacono? La posta in gioco, EMP 2016) ci invita a riflettere sul riconoscimento della partecipazione delle donne alla vita sociale e pubblica e ad interrogare il contesto culturale in cui viviamo. La cultura civile e quella ecclesiale che si vivono in Italia come affrontano la differenza di genere? Come si genera una cultura politica inclusiva?

Questo è un tema – o meglio una questione trasversale – di capitale importanza. Siamo eredi di un tempo nel quale la divisione fra pubblico/maschile e privato/femminile pareva chiara con le donne angeli del focolare e/o al massimo nelle professioni di cura. Oggi questo è, sia pure a fatica, superato, ma il lavoro culturale e anche politico in questa prospettiva è sempre di attualità: lo dimostra da un lato il gender gap nella occupazione e nelle retribuzioni e dall’altro la violenza di genere spinta fino ai femminicidi. Dal punto di vista ecclesiale siamo anche in una situazione delicata: da una parte le donne sono la maggioranza delle persone praticanti, dall’altra il ministero è ancora tutto maschile. Questione questa spesso bypassata nei dibattiti sventolando il fantasma della clericalizzazione. Il discorso sarebbe lungo: importante in ogni caso non pensare, torno al commento ad A Diogneto, di essere superiori agli altri, perché non lo siamo assolutamente.

Le Acli compiono 80 anni: le conosce? Ha avuto modo di condividere delle esperienze? Quali aspetti hanno attirato la sua attenzione? Secondo lei – per come le vede e pensa – nel mondo di oggi servono ancora?

Le conosco certamente! Non fosse altro perché sono una utente “disperata”, sempre alla ricerca di supporto al CAF e al Patronato: non è solo una battuta, è che vi intravedo un ambito che mette in campo competenze che non si improvvisano e che dà aiuto a chiunque, coprendo ambiti altrimenti spesso sguarniti. Le conosco anche per l’apporto al dibattito sociale e politico, ma in questo senso mi sembra che ci siano grandi differenze anche fra un luogo e l’altro, una sede e l’altra. In entrambe queste direzioni servono ancora, pur se quasi centenarie: magari, come dicevo sopra, coltivando reti e alleanze e attivando laboratori, in maniera rinnovata.

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