Il bilancio dello Stato non è soltanto un documento contabile che illustra le entrate, le uscite, la situazione del debito, i crediti. Tale sua natura è già di per sé fondamentale, poiché non solo il bilancio attesta le condizioni di salute dei conti pubblici, ma al contempo “rende conto” – alla cittadinanza, agli organi dell’opinione pubblica, alle organizzazioni sovranazionali e internazionali, ai potenziali investitori esteri, ai creditori e così via – del modo in cui le risorse disponibili vengono impiegate. Di lì proviene l’essenziale idea di accountability (che traducendo alla lettera si potrebbe rendere, sebbene non molto felicemente, appunto con “rendicontabilità”). L’essere accountable è appunto la disponibilità a render conto di ciò che si fa, quindi anche l’essere trasparenti e responsabili. Perciò è essenziale formulare il bilancio e renderlo fruibile in modo tale da consentire una lettura adeguata da parte dei soggetti di cui sopra.
Con particolare riguardo ai rapporti tra l’Unione Europea e i suoi Stati membri, si può ricordare che il Trattato di Lisbona ha stabilito, con effetto a partire dal 2009, e a maggior ragione dopo la crisi greca, che la Commissione svolga attività di sorveglianza e assistenza. Ciò al fine di accorgersi con il maggior anticipo possibile di eventuali situazioni critiche ed evitare disavanzi eccessivi, ma anche in vista dell’andamento dell’economia nazionale, che pure va considerato e auspicabilmente migliorato (o quanto meno non danneggiato), dovendosi peraltro prevedere pluriennalmente le entrate fiscali ad esso connesse. Nel 2011 sono stati così introdotti in materia ben cinque regolamenti e una direttiva. Nel 2012 si è poi avuto il Trattato su stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria (più in breve, Trattato di stabilità fiscale), che ha reso più stringente il patto di stabilità e crescita. Nel 2013 sono stati adottati altri due regolamenti. In sostanza, i paesi dell’UE, e ancor più quelli dell’area Euro, devono presentare annualmente alla Commissione (che per parte sua può formulare raccomandazioni, emanare avvertimenti, irrogare sanzioni) un “programma di stabilità” comprendente le spese delle varie amministrazioni pubbliche, gli scostamenti rispetto a quanto dichiarato in precedenza, le attività messe in cantiere per recuperare su tali scostamenti.
In sostanza, attraverso tali recenti normative una quota assai significativa delle decisioni in materia di politica di bilancio nazionali è stata spostata a Bruxelles. Dagli sviluppi dell’UE (che al momento non si possono prevedere, ma che, a giudicare da quanto annunciato dagli esponenti di alcuni paesi potrebbero essere sostanziali) dipenderanno dunque moltissime delle cose che i policy makers italiani potranno o non potranno fare.
Il bilancio dello Stato è anche, al contempo, uno strumento che, nella propria articolazione interna, fa “vedere” insieme pressoché tutte le politiche pubbliche (poiché ciascuna di esse comporta, quasi sempre, una qualche spesa), il che potrebbe consentire, in una certa misura, di governarle (entro i limiti e i vincoli esistenti) attraverso il pilotaggio dei flussi finanziari a esse dedicati.
Più precisamente, vi sono politiche come quelle sociali in senso lato (in campi quali previdenza, sanità, assistenza, famiglia, casa, istruzione) che consistono nell’erogazione di somme in denaro o servizi in natura (i quali comunque hanno un costo monetario non indifferente). In tale campo la spesa pubblica e la gestione dei suoi flussi sono pertanto determinanti.
Vi sono però anche politiche come quelle regolative in cui (a parte le somme per attività come quelle di rilevazione, sorveglianza, ispezione, organizzazione) il grosso dei costi e dei benefici si colloca fuori dal bilancio pubblico tradizionale. I costi, ad esempio, ricadono sui soggetti regolati. I benefici su platee più o meno vaste di consumatori, residenti, lavoratori, risparmiatori, cittadini. Talora invece i benefici ricadono su categorie circoscritte di operatori economici. In altri paesi (primo tra i quali gli Stati Uniti) è stato sperimentato, con alti e bassi, un regulatory budget. Questo, come tale, è ben diverso dal classico bilancio pubblico che registra flussi finanziari in entrata e in uscita. Anche nel regulatory budget si possono avere entità monetarie, che però non consistono movimenti per l’erario. La contabilità regolatoria si è fatta strada da qualche tempo anche nel nostro paese, ad esempi con riguardo agli ambiti settoriali di intervento di alcune autorità indipendenti.
Torniamo alle politiche che richiedono una spesa pubblica. Attraverso il processo di costruzione di bilancio si potrebbe associare a ciascuna postazione finanziaria certi indicatori di risultato, impostando così un performance-based budgeting. Tale impostazione ha trovato sempre di più accoglienza anche nel nostro Paese, venendo legislativamente riconosciuta in modo via via sempre più netto prima con la legge 196/2009, seguita dalla 39/2011, dalla modifica degli articoli 81 e 97 della Costituzione nel 2012, dalla legge 243/2012, dalla legge delega 89/2014, sulla cui base sono stati adottati i decreti legislativi 90 e 93 del 2016, e infine dalla legge 163/2016 (che ha modificato la 196/2009 in sintonia con la revisione costituzionale).
In estrema sintesi, grazie a tali riforme adesso il ministero dell’economia e delle finanze (MEF) dovrebbe poter esercitare più agevolmente il controllo delle spese degli altri ministeri, al contempo valutando i risultati concreti delle azioni portate avanti, attraverso gli indicatori di cui sopra. Infatti, ciascun ministro dopo il 2016 deve trasmettere al MEF “con riferimento agli accordi in essere nell’esercizio precedente, una relazione che illustra il grado di raggiungimento dei risultati ivi previsti e le motivazioni dell’eventuale mancato raggiungimento degli stessi”. Per altro verso, allo scopo di velocizzare i flussi di spesa consentiti e di poter rimodulare o spostare somme ove opportuno, allo scopo di garantire al massimo il raggiungimento dei risultati attesi, sempre gli atti normativi del 2016 hanno previsto una maggiore flessibilità. Si è puntato così a “una più immediata e concreta comprensione dell’azione pubblica” e “una maggiore responsabilizzazione” di chi effettua spese. Ed è stato introdotto un “monitoraggio da parte degli uffici di controllo sulla predisposizione e l’aggiornamento del piano finanziario dei pagamenti. Inoltre … l’amministrazione inadempiente non può accedere all’utilizzo dei fondi di riserva” (Relazione al disegno di legge di bilancio integrato presentata dal ministro il 29/10/2016). Si può pertanto richiedere alle singole amministrazioni, da parte del MEF, conto e ragione sia dell’effettivo impiego delle risorse da esse gestite, sia degli outcomes raggiunti in termini di soddisfacimento degli interessi diffusi, dei bisogni sociali, dei diritti affidati alla loro cura.
La legge 163/2016 ha abolito la distinzione tra legge di bilancio e legge di stabilità. Integrando tra loro i due atti ha così fatto in modo di chiamare sia il Parlamento sia la coscienza collettiviva a focalizzare la loro attenzione sugli intervento pubblici ritenuti prioritari, nell’ambito di quelli possibili. Ciò comporta anche un’assunzione di responsabilità puntuale nei rapporti tra governo e parlamento circa gli effetti finanziari delle decisioni proposte, degli emendamenti introdotti e del testo finale infine adottato. In particolare, ai sensi del nuovo art. 12 della l. 196/2009, come introdotto dalla l. 163/2016, va predisposta un’apposita relazione tecnica di accompagnamento al disegno di legge di bilancio, che dia conto degli effetti finanziari per ciascuna nuova disposizione ivi contenuta.
Detto tutto ciò, governare bene significa anzitutto destinare le risorse agli utilizzi più meritori, facendo al contempo in modo da sostenere la crescita economica e sociale. Ciò riguarda i criteri ispiratori e la formulazione delle politiche. La disciplina di bilancio, quindi, non è tutto.
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