Qui si ripropone quella diffidenza profonda che ha accompagnato lo sviluppo industriale fin dalle sue origini settecentesche. Furono in realtà i poeti e gli artisti i primi a denunciare i pericoli insiti in un progresso materiale fondato soltanto sui parametri dell’efficienza, della produttività, dell’accumulo della proprietà, e del mercato. Furono menti illuminate come quelle di Leopardi e di Blake, di Herder e di Hoelderlin, che percepirono subito gli aspetti distruttivi di un processo storico che d’altronde portava con sé indiscutibili e immensi benefici. Hoelderlin, ad esempio, grida già all’alba del XIX secolo nell’elegia Archipelagus: “Ma vaga ahimé nella notte, vive come nell’Ade / Senza il divino la nostra progenie. Al suo agire convulso / Incatenata e ognuno nel fragore dell’officina / Solo ode se stesso, e molto lavorano i bruti / Con poderoso braccio, insonni, ma sempre /Sterile come le Furie resta il sudore dei miseri”. E già percepiamo l’angoscia del lavoro alienato e reso pura merce, che cinquanta anni dopo animò la riflessione di Marx, e successivamente scatenò un altro secolo di rivolte, di destra e di sinistra, politiche, artistiche, psicoanalitiche, e spirituali, contro l’alienazione crescente e la violenza del mondo meccanizzato.
Oggi lo sviluppo tecnologico e industriale ci ha portati ad un livello di distacco da noi stessi, e dalla natura, che sembra manifestare sintomi da malattia terminale, segni di insostenibilità infatti si fanno di decennio in decennio sempre più evidenti e allarmanti, sia sul piano ecologico, che su quello psicologico-spirituale, e della giustizia planetaria.
Urge perciò un serio ripensamento sul senso della presenza umana su questa terra, sul senso di ciò che chiamiamo sviluppo o evoluzione, sul senso e sui contenuti dei nostri progetti di crescita, e così via. Da qui nasce l’esigenza di un vero e proprio riposizionamento dell’umano, e cioè di un nuovo umanesimo, tema molto opportunamente scelto anche per il prossimo Convegno Ecclesiale di Firenze.
In questa prospettiva antropologico-culturale la coltivazione della terra ci offre un’immagine concreta del problema, in quanto è proprio questo che oggi ci manca terribilmente: la capacità di coltivare qualcosa di bello e di vero su questa terra, e cioè la capacità di fare cultura in senso lato. La rinascita di interesse per l’agricoltura potrebbe diventare perciò un buon punto di partenza per interrogarci su questioni molto radicali, quali ad esempio: ma cos’è propriamente una cultura umana? Quali sono le condizioni per cui si possa creare e sviluppare una cultura umana? L’attuale forma di civilizzazione tecno-mercantile può ancora considerarsi una cultura umana? Oppure stiamo edificando un mondo che per la prima volta pretende di sussistere violando i principi primari della cultura umana, rimuovendo ad esempio la domanda di senso che ci costituisce come esseri umani?
Ciò che mi sembra più che evidente è che non possiamo auspicare nessun ritorno indietro a qualche illusorio paradiso bucolico, arcadico, o rurale. I sogni del paradiso perduto e le fughe dall’Occidente industriale potevano forse essere ancora possibili, o almeno plausibili, al tempo di Rousseau, o ancora nell’Ottocento di Rimbaud o di Gaugin, oggi mi sembrano pure fantasie infantili o peggio trovate pubblicitarie per viaggetti in terre “selvagge”, organizzati però con tutti i conforts del più tecnologico degli occidenti.
Il teologo Jurgen Moltmann su questo punto è molto chiaro: “Il progetto della civiltà tecnico-scientifica occidentale è una scelta diventata ormai fatale per l’umanità. Noi non possiamo più continuare a svilupparlo come abbiamo fatto finora, perché ciò significherebbe andare incontro a catastrofi planetarie. Ma non possiamo nemmeno sottrarci a questo progetto, abbandonando il mondo alla rovina. L’unica strada percorribile è quella di una ristrutturazione di fondo dello stesso mondo moderno. E allora reinventiamo questo mondo”.
Ecco, reinventiamolo questo mondo, e cioè reinventiamo noi stessi, ripensiamo il senso della nostra umanità. Ma da dove possiamo ripartire? Questa dovrebbe diventare la prima domanda da porci: in questa stretta finale, in questa fretta mentale in cui siamo immersi e spesso sommersi, e travolti, da dove possiamo ripartire per reinventare, riorientare un mondo tecnico-pubblicitario, che si sta alienando a tal punto dal cuore della vita, da non accorgersene più, tanto che il tema stesso dell’alienazione è ormai uscito dal dibattito pubblico, dopo averlo occupato per almeno 150 anni?
Forse dovremmo e potremmo imparare proprio dall’arte della coltivazione della terra i rudimenti di un ripensamento dell’umano. Forse dovremmo innanzi tutto imparare a coltivare il nostro cuore, a togliere ogni giorno le erbacce dal campo del nostro cuore, come suggeriva Simone Weil, forse dovremmo rimettere al centro ciò che è il centro del nostro essere: il rapporto equilibrato appunto con la terra e con il cielo. Forse potremmo dirci con chiarezza che per vivere liberamente in un mondo telematizzato come il nostro, è indispensabile trovare ogni momento un profondissimo baricentro interiore, e che questo richiede l’attenzione e la cura del contadino, la sua pazienza, la sua capacità di impegnarsi a fondo, ma poi anche di attendere le piogge dell’autunno e della primavera, la sua confidenza con il cielo, la sua attitudine al duro lavoro ma insieme alla preghiera e alla contemplazione dei campi, dei fiori, degli animali.
Fuori di metafora la nuova umanità che stiamo diventando dovrà possedere qualità apparentemente opposte, dovrà essere mistica e tecnica, primordiale e insieme modernissima, meditativa e telematica. Oggi l’unico atto culturale che mi sembra davvero rivoluzionario consiste appunto nel creare luoghi in cui si coltivi questo tipo di umanità, si preservino le sementi dell’uomo, e le si aiuti a crescere e a sbocciare in una nuova e del tutto inedita libertà.