Il condivisibile obiettivo di tributare una tutela giuridica a un rapporto affettivo e di reciproca solidarietà non appare percorribile attraverso l’equiparazione normativa delle unioni omosessuali con le convivenze di fatto tra persone eterosessuali o con la famiglia fondata sul matrimonio. Né il contrasto alle discriminazioni sul piano individuale si risolve con l’introduzione di una indifferenziata disciplina delle unioni. La disuguaglianza cresce, infatti, nella omologazione, anche in quella giuridica

Il dibattito che ha percorso negli ultimi anni le istituzioni pubbliche nazionali su quale regolazione per le unioni omosessuali non ha ancora oggi trovato una traduzione in provvedimenti legislativi che ne sanciscano il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri, nonostante il monito rivolto al Parlamento dal giudice costituzionale nel 2010. Un vuoto normativo che ha rilegato allo spazio privato la di-sciplina giuridica dei diritti e dei doveri reciproci tra i conviventi del medesimo sesso.

Tuttavia, non mancano norme che, pur inserite in discipline settoriali e, spesso, per finalità che esulano da una diretta tutela delle convivenze, finiscono per attribuire loro rilevanza giuridica. Rilievo ribadito a sua volta da alcuni comuni italiani che, nonostante il silenzio del legislatore statale, hanno ugualmente introdotto dei registri delle unioni civili, al fine di “regolarizzare” le convivenze di fatto sia etero che omosessuali, e che in alcuni casi consentendo loro di beneficiare di servizi pubblici.

Tanto il dibattito politico quanto quello giuridico appare polarizzato da opposte e divergenti posizioni: l’una a difesa della famiglia fondata sul matrimonio e contraria ad un riconoscimento legale delle unioni omosessuali e l’altra rivendicatrice di un’equiparazione per via legale tra le due forme di unioni, anche in chiave antidiscriminatoria. Si tratta, dunque, di un dibattito che ha finito per coinvolgere le fondamenta e la funzione – dapprima sociale e poi giuridica – del matrimonio, nell’ambito del quale una posizione significativa è stata assunta dal giudice costituzionale italiano che, pur riconoscendo la peculiarietà e la tutela costituzionale della famiglia fondata sul matrimonio (artt. 29, 30 e 31 Cost.) del tutto differente e non omogenea ad una unione omossessuale e dunque non causativa di discriminazione, ha prospettato un discutibile “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia” e ha rinvenuto nell’unione omosessuale, “intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso”, l’epifania di una delle formazioni sociali garantite dall’art. 2 della nostra Costituzione, al pari della convivenza more uxorio o della famiglia di fatto.

È in questo quadro che si possono enucleare i diversi modelli di regolazione delle unioni omosessuali con i quali è (stato) chiamato il legislatore nazionale a confrontarsi e che costituiscono alcune delle soluzioni adottate da altri Paesi. In alcuni di essi è stato introdotto il matrimonio fra persone dello stesso sesso, in completa uguaglianza con le coppie eterosessuali, in altri casi sono stati previsti degli strumenti pattizi “registrati” presso un’istituzione pubblica, patti estranei al matrimonio: se in alcuni stati si tratta di una soluzione comune alle coppie conviventi eterosessuali, in altri si applica esclusivamente alle coppie omosessuali.

Il Parlamento italiano nell’affrontare il problema della tutela legale delle relazioni tra persone dello stesso sesso ha discusso senza pervenire alla relativa adozione la proposta governativa (governo Prodi II) di percorrere la strada del riconoscimento legale della stabile convivenza tra due soggetti, i cd. Di.co. Si è tentato, in tal modo, di ricorrere ad una convivenza “indifferenziata” per introdurre diritti e doveri reciproci anche per i conviventi omosessuali.

Successivamente le iniziative legislative hanno prospettato molteplici e diversificate soluzioni che vanno dalla previsione di forme di accordo, quali l’“unione civile” oppure il “patto civile di solidarietà”, che demandano ai contraenti di scegliere l’estensione o meno del regime giuridico del matrimonio civile o che riconoscono alle parti la possibilità di adozione, all’istituzione di un registro delle unioni civili presso ogni comune, dal mero riconoscimento di alcuni specifici e limitati diritti alle persone che costitui-scono un’unione di fatto, fino a prefigurare una mera “famiglia anagrafica”. Progetti normativi il cui percorso parlamentare non è mai approdato al traguardo finale.

Si tratta di proposte accomunate dal condivisibile intento di non rilegare il legame tra persone omosessuali ad una situazione di mero fatto, “tollerata” e non contrastata dal diritto. Tuttavia, il diritto e la legge vengono invocati per appianare le differenze. Per promuovere una presunta uguaglianza tra i generi si tende a cancellare anche sul piano normativo la differenza sessuale. Come insegna, invece, la Costituzione l’uguaglianza, scevra di ideologismi e strumentalizzazioni, coltiva le differenze.

Se, dunque, il fine è quello di tributare una tutela giuridica a un rapporto affettivo e di reciproca solidarietà non appare percorribile la strada della equiparazione normativa delle unioni omosessuali con le convivenze di fatto tra persone eterosessuali o con la famiglia fondata sul matrimonio. Né il contrasto alle discriminazioni sul piano individuale si risolve con l’introduzione di una indifferenziata disciplina delle unioni. La disuguaglianza cresce, infatti, nella omologazione, anche in quella giuridica.

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