Non è forse una esperienza comune sperimentare quanto sia diverso avere a che fare con un maschietto o con una femminuccia? E da dove vengono queste predisposizioni che sembrano sorgere molto presto, come dimostrano per altro significativi studi della psicologia cognitiva? La suddivisione dei ruoli maschile e del femminile è sempre stata un’importante cardine sul quale si organizzano le società degli uomini. Cosa sia maschile, cosa femminile, di cosa si debba occupare un uomo e di cosa una donna, come educare bambini e bambine, sono tutti determinanti che già da soli dicono molto della società nelle quali esistono. Riconosciamo che è vero che, nel modo di concepire la mascolinità e la femminilità, in questi ultimi cinquanta anni, il mondo occidentale abbia guadagnato una maggiore flessibilità e aderenza alla realtà, grazie al progresso dei diritti civili, al contributo della riflessione psicologica e, in questi ultimi tempi anche attraverso l’apporto di numerose ricerche scientifiche. Prima di allora la visione prevalente del maschile e del femminile era molto legata a ruoli rigidi, sociali e familiari, che ingabbiavano la realtà all’interno di schemi ideali e spesso ingiusti.
Successivamente attraverso il processo di emancipazione della donna, le lotte per i diritti civili, il movimento del 1968 e la contestazione verso i ruoli autoritari, si è attaccata violentemente la differenza tra i due sessi, perché ritenuta portatrice delle discriminazioni e delle ingiustizie che si verificavano a livello sociale. Il mio parere è che in questo processo di cambiamento si siano abbattuti talmente tanti muri, da lasciare la casa in rovina, priva di un sopra e un sotto, della distinzione fra le varie camere, rendendola così, alla fine dei conti, meno abitabile. La conseguenza nefasta maggiore è la lacuna educativa. Senza punti di riferimento chiari e distinti il rischio è quello di non riuscire a fornire agli educandi ancora in formazione quella cornice di riferimento, quelle fondamenta che gli permetteranno poi in tutta libertà di sviluppare se stessi a partire da capisaldi fermi e solidi. Ho accetato questa sfida perche mi sembra che ci sia una grave lacuna all’interno del dibattito attuale, sperando di dare un nuovo impulso alla questione nel panorama culturale e scientifico italiano.
In linea con molti studi internazionali, sostengo che è possibile stabilire e riconoscere che esistono delle differenze e delle peculiarità maschili e femminili, che possono interessare la conformazione fisica, il tono muscolare, gli assetti neuroendocrini, le funzionalità cerebrali, le caratteristiche psicologiche, relazionali e sociali. Ovviamente con questo non intendo affermare che tutti i maschi e tutte le femmine rientrano perfettamente in queste dimensioni, perché queste sono caratteristiche con molte variazioni individuali. E soprattutto, prima c’è sempre la persona con la sua unicità, il suo carattere e la sua storia storia personale. Inoltre è bene sapere che, soprattutto per quanto riguarda le differenze fisiologiche cerebrali, queste sono riscontrabili soprattutto nella fase dello sviluppo, tra i 7 ed i 18. Anzitutto è essenziale dirimere le sovrapposizioni concettuali tra genere e sesso, educazione di genere ed educazione a partire dal sesso di appartenenza e fare un po’ di chiarezza.
Sesso e genere: una distinzione necessaria
Le categorie “sesso” e “genere” sono distinte in quanto la prima denota l’appartenenza ad una delle due categorie biologiche della diade che compone l’umanità (maschio/femmina), mentre per “genere” si intende indicare tutto ciò che è sovrapponibile al “biologicamente dato”, quindi l’esperienza psicologica, relazionale e culturale. Il sesso di una persona ha delle caratteristiche inequivocabili, esplicite e riconoscibili. Descrivere il genere di una persona, invece, comporta il far riferimento ad un piano non evidente e più interiore della persona, lì dove risiedono la sua personalità, il suo carattere, le sue inclinazioni e passioni, il suo modo di concepirsi ed emozionarsi, il ruolo che si aspetta di avere nelle relazioni. Il concetto di “genere”, oggi molto usato ed in voga è in realtà abbastanza recente ed è interessante notare come si sia sviluppato: “negli anni settanta a partire dalla presa di coscienza, da parte delle donne, del persistere di una situazione di profonda asimmetria e di squilibrio tra i ruoli sessuali. Nasce come critica all’uso di quel binarismo sessuale che, per secoli, si è tradotto in una precisa gerarchia dei ruoli, consegnando alla biologia l’origine dell’inferiorità femminile”.
Questo vuol dire che il termine “genere” permette di introdurre un elemento di variabilità in quel percorso che, a partire dal sesso biologico di appartenenza alla nascita, faceva corrispondere un ruolo preciso e predeterminato. Secondo questa interpretazione, non era il sesso biologico a determinare il ruolo, il comportamento, le aspettative della società e, in definitiva, l’essere uomo e donna adulti, ma il genere. Secondo questo paradigma femminista, era possibile interrompere il determinismo che portava una bambina ad essere una donna trattata in modo ineguale e peggiore rispetto agli uomini, spezzando e destrutturando gli influssi culturali e sociali che determinavano il ruolo femminile, dal momento che tali influssi non erano affatto innati, ma culturalmente costruiti e quindi, modificabili.
Se infatti è attraverso l’influenza sociale e culturale che condiziona il genere di una persona, che si attua la discriminazione maschilista, attraverso lo stesso canale si può operare per modificare le aspettative intorno ai ruoli sessuali e come scrive Bianca Gelli, riferendosi al femminismo liberale americano degli anni settanta, la socializzazione cambierebbe di conseguenza. A riguardo Simonetta Piccone Stella e Chiara Saraceno affermano: “La scelta di ricomprendere i due sessi e i loro rapporti nell’espressione genere risponde all’esigenza di attribuire il massimo peso a quanto vi è di socialmente costruito nella disuguaglianza sessuale, a quanto vi è di non biologicamente dato nella relazione di disparità tra uomini e donne. Questa scelta concettuale ha assegnato un’importanza particolare al lavoro delle scienze sociali e alla responsabilità di chi indaga sia il percorso storico che i meccanismi della disparità nel presente”. Ne consegue che anche l’educazione, influendo sul genere dei bambini in crescita, per non essere essa stessa apportatrice di disuguaglianze e discriminazioni dovrebbe uniformare il più possibile le differenze tra i due sessi in modo da riservare ad entrambi uguale trattamento, uguale possibilità di formazione e uguale accesso al lavoro. “Quello che sosteniamo è che le società abbiano la possibilità di minimizzare, anziché massimizzare, le differenze tra i due sessi, attraverso le loro pratiche di socializzazione” affermano due studiose americane Maccoby e Jacklin in un importante studio.
L’importanza di educare alla sessualità
Un canale nel quale è possibile applicare questa intenzione di minimizzare il più possibile la differenza tra i due sessi è sicuramente l’educazione, ed è mia opinione che sia stato fatto in modo sbagliato: da premesse giuste e intenti condivisibili, si sia arrivati a conseguenze sommarie e in alcuni casi fuorvianti, arrivando ad ignorare la realtà manifesta. In questa opera di progresso civile e culturale che si proponeva di riconoscere alla donna pari dignità, si è arrivati a non considerare più le caratteristiche della mascolinità e della femminilità, così come ci sono date dalla stessa natura, anche in termini di risorse specifiche e peculiarità. Al punto che alcuni contributi sul maschile e sul femminile arrivano a sfiorare il ridicolo quando si afferma, come fa la professoressa Anna Fausto-Sterling della Brown University, che la divisione nella razza umana in due sessi, femminile e maschile, è una artificiosa costruzione della nostra cultura. “La natura ci offre più di due sessi e la nostra corrente nozione di mascolinità e femminilità è culturalmente derivata”, e anche “la decisione di etichettare i bambini come ragazze o ragazzi è una decisione della società. Non c’è un o/o, piuttosto ombre e sfumature di differenze”. Si tratta di eccessi manifestamente risibili, che negano persino la realtà dei fatti.
Alcuni si spingono a dire che i bambini non vanno più considerati come maschi o femmine ma in modo neutrale, in modo da non influenzarli e non “inclulcargli” degli stereotipi sessuali inutili, antiquati. E questo è il caso di Egalia. Siamo a Stoccolma, Svezia. Qui dal 1998 il Governo ha varato una legge per consentire alle scuole di garantire pari opportunità tra maschi e femmine. E così nasce un asilo nido, Egalia, specializzato sulla neutralità di genere. Niente più «bambini» e «bambine», ma soltanto «amici». Niente più fiabe classiche dove i maschi stanno da una parte e le femmine dall’altra – al bando l’affettata Biancaneve e l’ammiccante Cenerentola, così come i nerboruti sette nani e il virile Principe Azzurro. Al loro posto la storia di due giraffi maschi che sono ansiosi di adottare un figlio e ripiegano su un uovo di coccodrillo, con tanto di scontato lieto fine. In questo asilo il reparto mattoncini da costruzione sta accanto alla cucina giocattolo, per invitare i piccoli a un fertile e continuo scambio di ruoli. Secondo gli educatori l’esperimento servirà a rendere i bambini più tolleranti. Niente barriere mentali. Tutto è fatto, pensato e detto per eliminare le differenze fra i sessi e contemplare, per contro, tutta la gamma possibile di appartenenze e ibridazioni.
Secondo alcuni, Egalia dà ai bimbi la fantastica opportunità di essere quello che vogliono. L’obiettivo è quello di affrancare i bambini dalle discriminazioni di genere perché le differenze di genere sarebbero alla base dell’ineguaglianza. Eppure ancora una volta, credo che la furia egualitarista abbia abbattuto talmente tanti muri di discriminazione e di presunta discriminazione da lasciare l’uomo “sbaraccato”, senza muri portanti e senza casa. Seppur si può condividere l’intento di aiutare i ragazzi a non essere discriminanti verso le altre persone e ad essere più accoglienti e sensibili, decisamente è sbagliato il metodo con il quale si cerca di arrivare a tale fine.
Per educare al rispetto del genere di appartenenza degli altri, non si può non considerare e calpestare il sesso di appartenenza dei bambini. In tal modo si perde molto della ricchezza e possibilità dell’educazione a favore di ideologie troppo sganciate dalla realtà. Non è proficuo ed utile per i ragazzi non considerare ciò che è biologicamente dato e ritengo che nel processo educativo sia necessario rimanere all’interno di una cornice di riferimento non teoricamente costruita, o idealmente imposta, ma biologicamente data, come per altro affermano nel già citato studio le due psicologhe americane, Maccoby e Jacklin: “Dal nostro punto di vista, le istituzioni sociali e le pratiche sociali non sono il mero riflesso di ciò che è biologicamente inevitabile. Nella cornice fissata dalla biologia si può realizzare tutta una gamma di possibili istituzioni sociali. Sta agli esseri umani selezionare quelle istituzioni che favoriscono gli stili di vita che preferiscono”. Se si vuole ristrutturare una casa per adattarla a nuove esigenze, a nuovi stili, i muri portanti vanno lasciati intatti. Anzi è proprio a partire dai muri portanti che si può pensare ad una ristrutturazione e abbellimento.
In altri termini non tener conto della differenza è a mio avviso la nuova forma di discriminazione, determinata da una furia egalitaria violenta e controproducente. La letteratura scientifica è ricchissima di studi sul cervello e sulle sue modalità di funzionamento correlate al biologismo dei sessi ed alle conseguenti differenze psicologiche. Viceversa la teoria del gender è una ideologia, che, seppur agganciata a visoni teoriche relative al costruttivismo sociale estremo, non ha supporti scientifici. Ecco dunque, come diceva Chesterton, che siamo giunti al punto di dover sguainare le spade per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Steven Pinker, celebre psicologo e divulgatore scientifico, nel libro per il quale ha vinto il premio Pulitzer, Tabula Rasa, si chiede come mai alcune frange del femminismo lottino strenuamente contro l’idea che uomini e donne siano differenti, che abbiano abilità differenti e quindi inclinazioni e propensioni specifiche.
Certo, dietro questo accanimento contro la differenza tra maschi e femmine si nasconde il timore che “differente” corrisponda ad “ineguale” e quindi “ingiusto”. Molti studiosi sostengono che il femminismo di genere, nella sua lotta contro l’ineguaglianza, si sia messo in rotta di collisione con la scienza, perdendo di vista i criteri di una rigorosa e serena ricerca scientifica a favore di una fervente e ideologica battaglia. Eppure differente non corrisponde ad ineguale, anzi. Cogliere le caratteristiche proprie di qualsiasi realtà permette di relazionarsi con essa a partire dalle sue peculiarità, ed è, quindi, arricchente. Ecco perché ritengo che oggi negare la differenza, così come fa la teoria del gender, sia la più alta forma di intolleranza e di discriminazione.