Nessuna generazione come la nostra si è mai trovata etichettata con tutte queste definizioni: bamboccioni o sdraiati, millenials piuttosto che generazione Z. C’è chi si è spinto addirittura a definire noi giovani come la “generazione perduta”. Ma l’acronimo che più di ogni altro identifica nell’immaginario collettivo noi giovani è NEET, i giovani che non studiano, non hanno un lavoro (e non lo cercano) e non sono impegnati in altri percorsi formativi. I dati dicono che quasi un giovane italiano su cinque si trova in questa condizione: le statistiche non dicono tutto, è vero, ma un paese che non scommette e spende le proprie energie migliori sulle nuove generazioni non può andare molto lontano. Ci sembra che il nostro sia un paese più preoccupato di mantenere in vita vecchi equilibri che di dare opportunità a chi ha coraggio e voglia di fare e crescere.
È facile cadere nella tentazione dello scoraggiamento sia nelle proprie capacità che nelle forme istituzionali e verso il mondo adulto in generale. Ci sentiamo lontani da una politica dominata da scontri, personalizzazioni estreme e linguaggi violenti e dalla mancanza di attenzione per i giovani e per il futuro. Siamo delusi dal prevalere degli interessi particolari di pochi rispetto al bene di tutti. Ci sentiamo poco ascoltati e sostenuti nel nostro desiderio di futuro: di trovare un lavoro, costruire una famiglia, contribuire al bene della società da adulti. Non è la pretesa di avere spazi dove essere protagonisti a scapito di qualcun’altro, ma la mancanza di credibilità di chi dovrebbe per noi essere modello. Questo sentimento si allarga a tutte le forme istituzionali, coinvolgendo anche Chiesa ed è un po’ il sentimento dei giovani di tutto il mondo, come è emerso dall’ascolto dei giovani nella riunione presinodale. Si scrive nell’Instrumentum Laboris “Le istituzioni dovrebbero avere a cuore il bene comune e, quando alcuni riescono a piegarle ai propri interessi particolari, subiscono una drammatica erosione di credibilità. Per questo la corruzione è una piaga che intacca nei fondamenti molte società (IL 59)”.
Ma si sbaglierebbe a pensare che il nostro scoraggiamento si sia trasformato ormai in disinteresse. Pensando ad esempio alle ultime elezioni politiche del marzo 2018 in Italia, smentendo i sondaggi pre-elettorali che davano quasi un giovane su due a casa non intenzionato a votare, quasi il 90 % dei giovani italiani si è effettivamente poi recato alle urne. La prima sfida dunque è certamente quella di uscire dagli stereotipi per riconoscere il desiderio di impegno, di protagonismo e di costruire il bene che c’è in tantissimi di noi giovani, nonostante le difficoltà. Crediamo di essere qualcosa in più di una definizione: siamo sfiduciati sì, ma non meno in ricerca delle generazioni precedenti, sembriamo disillusi ma non meno impegnati e coinvolti in esperienze politiche o di volontariato.
Sarebbe facile ora scaricare le responsabilità della situazione sulla politica o sul mondo adulto, ma penso che sia un atteggiamento più costruttivo quello di metterci in gioco, rimboccarci le maniche e provare a dare il nostro contributo affinché l’Italia torni ad essere un paese per giovani. Ci impegnamo – come dichiarato nel Manifesto dei giovani di AC verso il Sinodo – “ad essere testimoni credibili e assumerci la responsabilità di custodire il tempo e i luoghi che abitiamo“.
Ma Cosa può fare ciascuno di noi affinché l’Italia riparta dai giovani?
Ci sono quattro parole-chiave dalle quali ripartire: partecipazione, lavoro, formazione, intergenerazionalità.
Se il nostro paese vorrà ripartire sarà necessario che scommetta sul valore della partecipazione di tutti alla vita politica e sociale, aldilà di maggioranze o minoranze, vincitori e sconfitti. Partecipare, ovvero prendere parte, significa scegliere consapevolmente una posizione tra tante, esprimere responsabilmente il proprio pensiero, impegnarsi con le proprie azioni a costruire il bene di tutti. Partecipare è anche essere parte, di una realtà più grande, di una comunità in cui non viviamo da soli o solo per noi stessi, un contesto in cui la nostra vita, la nostra storia è inequivocabilmente intrecciata con quella degli altri. Ma ciascuno di noi è chiamato a fare la fatica di mettersi in gioco e partecipare: perché altrimenti non avremo scuse e conteranno solo le scelte degli altri e noi staremo a guardare, senza poterci lamentare.
Il mondo del lavoro è in continuo cambiamento e spesso noi giovani ci sentiamo impotenti di fronte a questo cambiamento. Curriculum caricati sulle piattaforme delle aziende, stage che seguono a stage, contratti a termine o peggio proposte di lavoro in nero: è questa l’esperienza di tanti di noi nel momento dell’ingresso nel mondo del lavoro. E poi c’è il piano politico, dove il tema del lavoro è sempre più un terreno di scontro piuttosto che di proposte concrete.
In questo senso è necessario anzitutto investire su un lavoro dignitoso per tutti, contrastando il fenomeno del lavoro nero e sottopagato, da un lato intensificando i controlli sui fenomeni di irregolarità e sfruttamento del lavoro, e dall’altro formando i giovani a conoscere quelli che sono i propri diritti. Nel confronto con i nostri coetanei europei emerge tutto il gap che esiste in Italia tra università e mondo del lavoro. È fondamentale migliorare il rapporto tra istituzioni formative e imprese e valorizzare tutti quei servizi (si pensi ad esempio alle agenzie per il lavoro…) e quelle realtà che favoriscono il passaggio dall’università al mondo del lavoro.
Di fronte a questo cambiamento non possiamo fuggire, ma ci tocca immergerci nelle sue sfide, che pur nella fatica, ci chiamano a cambiare prospettiva: è compito di ciascuno, non attendere che le cose finalmente si aggiustino, ma metterci in moto per essere costruttori di opportunità senza aspettare che altri lo facciano per noi; se dobbiamo investire, dobbiamo farlo anzitutto su noi stessi, il più grande capitale che abbiamo a disposizione.
Non si può parlare di lavoro senza parlare di formazione. Crediamo nel valore dell’impegno e delle competenze e vorremmo istituzioni formative capaci di trasmettere non solo nozioni, attente non solo a formare tecnici impeccabili, ma soprattutto che aiutino a maturare una preparazione che sia orientata alla responsabilità verso il mondo e verso gli altri, uno stile di dialogo culturale che ci faccia vedere chi ha idee diverse come una ricchezza, la ricerca come anelito continuo verso la verità dell’uomo e delle cose.
La quarta parola è intergenerazionalità, che sta particolarmente a cuore a noi giovani di Azione cattolica perché la sperimentiamo quotidianamente in Associazione. Crediamo che il dialogo tra le generazioni sia un ingrediente fondamentale per far ripartire il paese. Non ci può essere sviluppo senza una bella alleanza tra giovani e adulti; non ci può essere crescita in cui una generazione cresce a scapito dell’altra. Anche l’Instrumentum Laboris riconosce “che oggi tra giovani e adulti non vi è un vero e proprio conflitto generazionale, ma una “reciproca estraneità”: gli adulti non sono interessati a trasmettere i valori fondanti dell’esistenza alle giovani generazioni, che li sentono più come competitori che come potenziali alleati” (IL, 14). Intergenerazionalità è sapere che si ha accanto sempre qualcuno di “più esperto” (nella vita) che può sostenerci nel cammino e insieme, qualcuno “più fresco” capace di immaginare sogni e progetti carichi di novità, a cui lasciare il testimone e in eredità qualcosa di buono che si è costruito. È avere la sicurezza che tutto non inizia e non finisce con sé stessi.
Sentiamo forte la necessità, come ha affermato recentemente il Cardinale Gualtiero Bassetti, di “un nuovo patto sociale per ricucire il paese” e noi giovani crediamo di avere le carte in regola per essere buoni tessitori, per costruire ponti tra giovani e adulti, tra soggetti ecclesiali e non, tra realtà che solo apparentemente non hanno nulla in comune tra loro, ma che sono unite da una comune volontà di costruire il bene comune. Perché il bene comune ha senso solo se costruito in comune.
Tags: Giovani Lavoro Sinodo