La direzione già cercata sul piano multilaterale – cooperazione nell’assistenza anzitutto ai più fragili – si conferma quella più utile anche in un’ottica di puro interesse nazionale, mentre il riflesso condizionato della competizione fra nazioni risulterebbe suicida. Non significa però che un approccio strategico e di sicurezza debba totalmente cedere il passo a una cooperazione idilliaca e irrealista. Gli apparati statuali dovrebbero riconoscersi accomunati dall’interesse di permanere funzionali alla protezione delle proprie comunità, piuttosto che nutrire l’illusione di soddisfare – o ammansire – ciascuno la propria cercando i frutti della competizione di potenza. Assume una valenza concreta, non solo etica e idealista, una prospettiva nuova: come prima ineludibile condizione di tutela dell’umanità, e persino degli interessi nazionali, è urgente una tregua universale per il pianeta.

Alla crisi del clima si associano comunemente spettri di nuove scarsità e due ordini d’impatti su tre: i rischi per la salute umana e i danni provocati da un clima più violento. Sono dimensioni preoccupanti ma occorre aggiungere un terzo impatto molto più minaccioso, ovvero la randomizzazione caotica dei cosiddetti servizi ecosistemici. In parole povere, il problema non è tanto che ci saranno più siccità e cicloni: se questo fosse il trend di mutamento stabile e prevedibile, sia pur con costosi investimenti, si può comunque pianificare un adattamento. Adattarsi risulta invece molto più difficile all’imprevedibilità dei fenomeni climatici – di qualunque natura – e al crollo dei loro cicli ricorrenti.

Il Sahel, ad esempio, non si desertifica per mancanza di pioggia bensì perché una quantità immutata di precipitazioni cade in un periodo più breve e quindi in modo violento, tale da erodere gli strati superficiali dei suoli, più ricchi di nutrienti. Oltretutto, non si tratta di una nuova e magari problematica configurazione che tuttavia è stabile e quindi gestibile con un’adeguata pianificazione, bensì di precipitazioni violente che compaiono in momenti sempre più disordinati. Le attività umane – in primis l’agricoltura ma non solo – fanno fatica a strutturarsi su un clima imprevedibile: se non sai quando piove, non sai nemmeno quando seminare.

Il sistema produttivo ha difficoltà a mantenersi funzionale se i servizi da cui ancora dipende – quelli dell’ecosistema, come l’acqua o la fertilità, inutile che ci illudiamo di essere una bolla al di sopra della natura – non rispondono più ai cicli su cui si è strutturata l’economia. Molta più fatica fa l’ecosistema poiché la sua vitalità si innesta su dei sincronismi simbiotici fra regni e specie, che sono regolati dal clima: non è un caso che i parti di molti animali siano sincronizzati su fasi di maggior generosità della vegetazione nella produzione di nutrienti; ma se la Primavera ritarda e le piante non danno frutti, non per questo mamma orsa può ritardare il parto.

Con l’effetto serra è impazzito il clima ovvero l’orologio che sincronizza:

– la natura, che di conseguenza deperisce a ritmi sempre più accelerati, privando anche noi dei suoi servizi,

– ma anche la scansione temporale e la stabilità di contesto delle attività produttive umane.

Ciò non toglie nulla alla gravità dei nuovi cicloni o delle calure che insidiano gli anziani – gli impatti della crisi che più sono considerati – ma concentrarsi solo su queste due categorie d’impatto, dimenticando l’effetto caos, sarebbe come dedicare ogni sforzo al mal di denti di un malato di cancro. E il caos – nelle interazioni clima, biosfera, umanità – è destinato ad accelerare in misura esponenziale.

Si profila l’avvio di cicli cumulativi auto-acceleranti che sospingono l’aumento della temperatura, di due tipi: cicli ecosistema-ecosistema, accanto a spirali cumulative ecosistema-umanità-ecosistema. Circa quindici cicli di auto-riscaldamento che scattano quando l’alterazione di uno dei parametri dell’ecosistema porta ad alterarne un altro che, a sua volta, provoca il peggioramento della prima alterazione. Così sappiamo che il cambiamento climatico devitalizza la biodiversità cosa che, a sua volta, altera ulteriormente il clima; che l’iniziale fusione dei ghiacci artici ha diminuito il loro complessivo ruolo di specchi che rispediscono l’energia solare nello spazio provocando un’accelerazione del riscaldamento, che porta a ulteriore fusione dei ghiacci che… in una spirale in potenziale drammatica accelerazione. Ma lo scenario si complica ulteriormente – e ogni predizione diviene velleitaria – poiché, accanto allo sregolamento cumulativo a catena dei parametri ecosistemici, operano anche cicli in cui è l’umanità ad agire da volano. L’alterazione della natura induce condotte distruttive anche presso la comunità umana, che a loro volte amplificano l’aggressione all’ecosistema, che quindi sospinge ancora di più l’umanità a scelte nocive. Banalmente: più fa caldo, più uso i condizionatori, più emetto CO2, più farà caldo. Una sfaccettatura di questa nefasta dinamica è che il deperimento e l’aleatorietà dei servizi ecosistemici incoraggiano la destabilizzazione e la conflittualità che – a parte i drammi umani – a loro volta hanno un pesantissimo impatto sull’ecosistema e i suoi servizi, peggiorando lo stato dell’ecosistema.

I due cicli interagiscono e si nutrono a vicenda, preludendo a un caos ingovernabile. Scarsità e disordine quindi: per affrontarli la maggior parte degli Stati ha scelto un mix di due strategie: sono disponibile a cooperare ma nel frattempo rafforzo le mie posizioni sul campo. La classica prudenza – comunque difendo competitivamente la mia comunità – diviene tuttavia illusoria e persino autolesionista se si considera che anche in questo settore gioca un effetto di soglia: oltre un certo grado di competizione la componente cooperativa diviene impossibile.

Se la risposta fosse prevalentemente di competizione fra Stati, proporzionale alla dose di fluidità e alle poste in gioco esiziali che si profilano, non rimarrebbe nessuno spazio significativo di cooperazione. Gli Stati si trasformerebbero così in giganteschi volani del ciclo distruttivo ambiente-umanità-ambiente, accelerando l’apertura della fase caotica. E su questa almeno una valutazione è scontata: non ci sono vincitori prevedibili, raggiungerla implica in ogni caso tradire il mandato di ciascuno Stato di operare per la protezione della propria comunità. Né le fortezze nazionali né le grandi fortune economiche possono assicurare, neanche a pochi privilegiati, benessere e sicurezza nel medio termine in un contesto di caos in crescita esponenziale.

Giungiamo così a una conclusione banale: la direzione già cercata sul piano multilaterale – cooperazione nell’assistenza anzitutto ai più fragili – si conferma quella più utile anche in un’ottica di puro interesse nazionale, mentre il riflesso condizionato della competizione fra nazioni risulterebbe suicida.

Non significa però che un approccio strategico e di sicurezza debba totalmente cedere il passo a una cooperazione idilliaca e irrealista. Occorre invece trarre spunto dagli embrioni di crisi ambientale che si sono già manifestati: essi potrebbero contrapporre gli interessi di Stati diversi ma, per lo più hanno contrapposto gli apparati statuali alle loro popolazioni. Moti, signori della guerra, crescita di periferie urbane governate dall’illegalità emergeranno molto prima di qualsiasi decisione governativa di aggressione.

Gli apparati statuali dovrebbero pertanto riconoscersi accomunati dall’interesse di tutti loro di permanere funzionali a protezione delle proprie comunità, piuttosto che nutrire l’illusione di soddisfare – o ammansire – ciascuno la propria cercando i frutti della competizione di potenza. Sarebbe ragionevole un’alleanza degli Stati per mantenersi in sella: ovviamente non “contro” le popolazioni bensì a loro protezione, anche perché gli interessi particolaristici e diversi da quello di tutelare la comunità si insinuano molto più facilmente nelle dinamiche di disordine, potentato illegale e sommossa che negli equilibri legali degli Stati. Se questi vogliono sopravvivere come strumento necessario per i propri popoli devono evitare di contrapporsi, e invece allearsi per prevenire e controllare assieme forme di destabilizzazione interne alle loro società e, a sparigliare ulteriormente le carte, quasi sempre avviate a saldature transfrontaliere.

Non avrebbe ovviamente grande esito un sodalizio degli Apparati in funzione puramente repressiva e di controllo: internalizzare invece di internazionalizzare il disordine, comunque, li porterebbe a giocare ugualmente il ruolo di volano acceleratore del caos. Si tratta invece di agire sulle cause del previsto malessere e sull’adattamento, inquadrando con lucidità l’interesse strategico della collaborazione. Le dinamiche di disordine e conflitto, se nascono presso le popolazioni, non rispettano le frontiere e quel che comincia in una comunità più fragile e lontana può facilmente innescare catene di ripercussioni che travolgono anche i meno fragili. Una priorità solidale e transnazionale alle comunità più a rischio ovunque si trovano – versione geostrategica della legge economica dell’utilità marginale – si profila quindi come l’investimento a più elevata utilità per tutti.

Ma guardiamo oltre, non si può più rimandare; assume una valenza concreta, non solo etica e idealista, una prospettiva nuova: come prima ineludibile condizione di tutela dell’umanità, e persino degli interessi nazionali, è urgente una tregua universale per il pianeta.

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