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I migliori inviati di guerra sono i migranti che sbarcano sulle nostre coste. Sono loro, la loro carne, i loro volti a raccontare le guerre che ci sono e la pace che non c’è. Ma quanto raccontiamo davvero le loro storie, quelle dei Paesi dai quali drammaticamente fuggono alla ricerca di una speranza? Per raccontare queste storie ci sarebbe bisogno di andare, ascoltare e parlare, tre verbi che ha usato papa Francesco in tre diversi messaggi per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. La notizia è quella che cerchiamo, troviamo, raccontiamo. Non è la nostra faccia in primo piano, ma quella di chi vive la mancanza di pace.

I migliori inviati di guerra sono i migranti che sbarcano sulle nostre coste. Sono loro, la loro carne, i loro volti a raccontare le guerre che ci sono e la pace che non c’è. Ma quanto raccontiamo davvero le loro storie, quelle dei Paesi dai quali drammaticamente fuggono alla ricerca di una speranza? Spesso l’informazione racconta il viaggio, col suo carico di violenze, i naufragi, i salvataggi, gli sbarchi. Molto poco la partenza, quei luoghi dove la pace non c’è, spesso da decenni. E dove invece la guerra è da decenni vita, e morte, quotidiana.

Ma per raccontare queste storie ci sarebbe bisogno di andare, ascoltare e parlare, tre verbi che ha usato papa Francesco in tre diversi messaggi per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. “Per poter raccontare la verità della vita che si fa storia è necessario uscire dalla comoda presunzione del “già saputo” e mettersi in movimento, andare a vedere, stare con le persone, ascoltarle, raccogliere le suggestioni della realtà, che sempre ci sorprenderà in qualche suo aspetto”. E Francesco dà veri consigli operativi a noi giornalisti. “La crisi dell’editoria rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più “consumare le suole delle scarpe”, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni”. È quella frase che amava ripetere il grande inviato di guerra Ettore Mo, morto pochi mesi fa: “Il giornalismo si fa coi piedi”.

Perché, riprendiamo sempre le parole del Papa, “nella comunicazione nulla può mai completamente sostituire il vedere di persona. Alcune cose si possono imparare solo facendone esperienza. Non si comunica, infatti, solo con le parole, ma con gli occhi, con il tono della voce, con i gesti”. E dunque “ciò che rende la comunicazione buona e pienamente umana è proprio l’ascolto di chi abbiamo di fronte, faccia a faccia, l’ascolto dell’altro a cui ci accostiamo con apertura leale, fiduciosa e onesta”. Invece, spesso, “ci si parla addosso”. Questo è sintomo del fatto che, più che la verità e il bene, si cerca il consenso; più che all’ascolto, si è attenti all’audience.

La buona comunicazione, invece, non cerca di fare colpo sul pubblico con la battuta ad effetto, con lo scopo di ridicolizzare l’interlocutore, ma presta attenzione alle ragioni dell’altro e cerca di far cogliere la complessità della realtà”. Difficile? Faticoso? Bergoglio come suo solito non usa mezze misure. “Non si fa buon giornalismo senza la capacità di ascoltare. Per offrire un’informazione solida, equilibrata e completa è necessario aver ascoltato a lungo. Per raccontare un evento o descrivere una realtà in un reportage è essenziale aver saputo ascoltare, disposti anche a cambiare idea, a modificare le proprie ipotesi di partenza”. È il “non fermarsi alla prima osteria” che ci hanno insegnato i nostri “maestri” di giornalismo (ma ci sono ancora maestri?).

Solo così, ed è il terzo passaggio di Francesco, è possibile “parlare con il cuore”. È il cuore che ci ha mosso ad andare, vedere e ascoltare ed è il cuore che ci muove a una comunicazione aperta e accogliente”. È quello che lui chiama “comunicare cordialmente” che dovrebbe portare i giornalisti a ricercare e raccontare “la verità con coraggio e libertà, ma respingendo la tentazione di usare espressioni eclatanti e aggressive”. Un parlare al cuore “oggi quanto mai necessario per promuovere una cultura di pace laddove c’è la guerra; per aprire sentieri che permettano il dialogo e la riconciliazione laddove imperversano l’odio e l’inimicizia”.

Perché “è urgente affermare una comunicazione non ostile. È necessario vincere l’abitudine di screditare rapidamente l’avversario, attribuendogli epiteti umilianti, invece di affrontare un dialogo aperto e rispettoso. Abbiamo bisogno di comunicatori disponibili a dialogare, coinvolti nel favorire un disarmo integrale e impegnati a smontare la psicosi bellica che si annida nei nostri cuori”. Per questo, conclude con un appello purtroppo attualissimo, “va rifiutata ogni retorica bellicistica, così come ogni forma propagandistica che manipola la verità, deturpandola per finalità ideologiche. Va invece promossa, a tutti i livelli, una comunicazione che aiuti a creare le condizioni per risolvere le controversie tra i popoli”.

Ma è necessario “in particolare il senso di responsabilità degli operatori della comunicazione, affinché svolgano la propria professione come una missione”. Rileggendo queste vere e profonde parole di Papa Francesco mi domando quanto giornalismo ci sia oggi con queste qualità. Che non sono speciali, eccezionali, ma la base stessa della professione. Quanti consumano la suola delle scarpe? Pochi, troppo pochi. Tanti, troppi, pensano che bastino un computer, qualche sito, le agenzie e, peggio, i social. Un “sentito dire” più tecnologico, ma sempre “sentito dire”, non esperienza diretta. E spesso non verificato e non verificabile. E questo è ancora peggio quando il tema è la guerra, le violenze, la negazione dei diritti, la “non pace”.

Solo vivendo, condividendo queste realtà è possibile veramente raccontarle. Lì dove i drammatici fatti avvengono e lì dove ne possiamo toccare con mano le conseguenze. Però non basta “consumare la suola delle scarpe”. In questi ultimi anni di “guerra a pezzi” abbiamo visto tanti giornalisti in prima linea o dove le bombe portavano morte e distruzione. Bene. Ma non tutto è uguale. C’è un giornalismo “enbedded”, dove vai dove scelgono altri o vedi quello che vogliono altri. Questo vale per gli eserciti dei “potenti”, ma anche per gli avversari dei potenti. Giornalismo ideologico, forse, sicuramente che parte già sapendo tutto, avendo capito tutto. Che, quindi, cerca e vede solo conferme alla propria tesi. E così non vede altro. Giornalismo alle volte un po’ fanatico, col giubbotto antiproiettile e il casco in bella vista. Che sottolinea i rischi, ma i propri. Ma non siamo noi la notizia, non è il nostro modo di lavorare, più o meno pericoloso.

La notizia è quella che cerchiamo, troviamo, raccontiamo. Non è la nostra faccia in primo piano, ma quella di chi vive la mancanza di pace. Certo in un mondo dell’informazione sempre più precario, si è tentati di andare oltre, alla ricerca dello scoop che ti faccia conoscere. Ma il rischio, appunto, è che sia poi il giornalista la notizia e non quello che racconta. Con l’ulteriore rischio di sbagliare fonte, informatore, di scegliere chi conferma le nostre idee o di affidarsi a chi ha altri fini. E alla fine di essere usati, condizionati, arruolati. Magari sbandierando la libertà di stampa.

Un tempo i grandi inviati non erano facce note, non giravano le tv come opinionisti. Giravano invece il mondo a raccontare, correvano rischi (e morivano) ma senza pretendere scorte o solidarietà sbandierata come una medaglia. Sapevano (e molti ancora lo fanno) scegliere le fonti e sapevano osservare, ascoltare, e comunicare cordialmente. Anche fare quel passo indietro che non vuol dire rinuncia alla verità che insieme alla libertà dovrebbero essere i pilastri dell’informazione, quelli per i quali essere anche “uomini di parte”, dalla parte cioè della verità e della libertà. Rifiutando, come ci invita Francesco, “ogni retorica bellicistica, così come ogni forma propagandistica che manipola la verità, deturpandola per finalità ideologiche”.

Il bene e il male vanno raccontati bene; entrambi. Per riconoscere che sono tali, bisogna vederli bene, toccarli con mano. Non basta definirli da lontano, con le proprie convinzioni, vanno visti, sperimentati. Per poi comunicare bene cosa sono il bene e il male. In quel luogo e in quel tempo. Due grandi uomini di pace come Alex Langer e don Tonino Bello, andarono a Sarajevo, non si accontentarono di denunciare dall’Italia, da lontano, il dramma che stava accadendo in quella terra martoriata. Andarono, videro, incontrarono, parlarono, ascoltarono, vissero la vita e la morte, e tornarono senza quelle certezze di tanti che invece non vanno mai e parlano di queste vicende come di una partita di calcio o di uno scontro elettorale. Senza quelle certezze tornarono tormentati, un tormento che espressero anche in modo inaspettato per parte di un mondo che alcune volte sceglie da che parte stare a prescindere e parla e scrive di pace solo in modo teorico e non incarnato nei drammi delle persone.

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