Articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Preambolo del Trattato Nord Atlantico
Gli Stati che aderiscono al presente Trattato riaffermano la loro fede negli scopi e nei principi dello Statuto delle Nazioni Unite e il loro desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i governi. Si dicono determinati a salvaguardare la libertà dei loro popoli, il loro comune retaggio e la loro civiltà, fondati sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sulla preminenza del diritto. Aspirano a promuovere il benessere e la stabilità nella regione dell’Atlantico settentrionale. Sono decisi a unire i loro sforzi in una difesa collettiva e per la salvaguardia della pace e della sicurezza. Pertanto, essi aderiscono al presente Trattato Nord Atlantico.
Articolo 1
Le parti si impegnano, come stabilito nello Statuto delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in modo che la pace e la sicurezza internazionali e la giustizia non vengano messe in pericolo, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite.
Articolo 5
Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali.
75 anni di vita dell’Alleanza Atlantica. Un primo sguardo, tra ieri e oggi
Il 2024 è un anno che segna una ricorrenza di grande rilevanza. Coincide, infatti, con l’anniversario della firma a Washington dell’alleanza transatlantica 75 anni fa.
Dei 12 paesi che il 4 aprile 1949 hanno sottoscritto il Trattato Nord Atlantico, nel corso dei decenni e soprattutto con il post-1989, la ritrovata democrazia politica competitiva in Europa Orientale e lo scioglimento del Patto di Varsavia(1), con il progressivo allargamento, la Nato è giunta oggi a ricomprendere ben 32 nazioni (2).
Ultime ad aderire al Patto sono state recentissimamente la Finlandia e la Svezia, sicuramente “Occidentali” per ispirazione e cultura, ma finora nazioni neutrali e protagoniste l’una di una neutralità dai tratti particolari in politica estera per la sua storia e vicinanza con Mosca, animata per anni dai leader Urho Kekkonen e Juho Kusti Paasikivi (3) e l’altra di una interpretazione estremamente attenta e sensibile alle tematiche del “Terzo mondo”, ispirata da una socialdemocrazia che ha dominato gran parte del panorama politico svedese lungo tutto il secolo scorso.
Resiste, invece, neutrale in centro Europa, l’Austria. La “neutralità perpetua” di Vienna è fissata anche nella apposita Dichiarazione costituzionale, frutto del Trattato di Stato del 1955 tra le grandi potenze, al tempo della “Coesistenza pacifica” kruscioviana e del dialogo con l’Amministrazione Kennedy.
Come vedremo oltre, peraltro, l’allargamento dell’area atlantica è stato – dopo anni di tribolazioni tra i partner su struttura e operatività dell’Alleanza -, una conseguenza inattesa e non prevedibile dell’altissima preoccupazione emersa in quei due paesi nordici non solo nei suoi vertici politici e militari, ma soprattutto in larghi strati dell’opinione pubblica, a seguito dell’improvvido attacco russo all’Ucraina del 22 febbraio 2022.
Una crisi, quella russo-ucraina, sfociata in guerra aperta, risultato gravissimo di una frattura interna ed una interstatale tra le due ex Repubbliche sovietiche che viene da lontano. Una guerra convenzionale inattesa che si è scatenata nuovamente nel cuore dell’Europa, dopo l’esperienza della crisi dall’altra parte dell’Adriatico con le violenze interetniche seguite alla dissoluzione della Jugoslavia post-Tito e l’attacco – con qui protagonisti la Nato e l’Italia – in nome del diritto internazionale umanitario. Un’azione determinata a piegare il presidente serbo Slobodan Milosevic, per cessare la repressione contro la popolazione schipetara del Kosovo negli anni ‘90.
Peraltro, tornando all’oggi, le visioni politico-militari sul “che fare?” da parte europea, dell’Alleanza Atlantica e dell’Occidente nel suo insieme, oltre il massiccio aiuto in armamenti e sostegno politico-economico a Kiev, resta una questione aperta e assai dibattuta nelle Cancellerie del Vecchio Continente ed anche oltreoceano, dove la campagna presidenziale Harris vs Trump registra posizioni e approcci ben diversi.
Infatti, sulla questione ucraina molte formazioni politiche e culturali, associazioni, movimenti pacifisti, ma anche analisti e ex alti gradi militari in molti paesi, reputano insufficiente indirizzarsi esclusivamente sull’aspetto delle forniture per la difesa kieviana, non registrando un impegno concreto verso la diplomazia e le trattative, in direzione se non di una pace giusta, almeno di una tregua.
Specularmente, in relazione allo scacchiere mediorientale, rimane anche una questione aperta e foriera di nuove tensioni – anche se esula dal presente paper e dall’impegno Nato -, la drammatica vicenda umanitaria a Gaza con le azioni belliche a tutto campo condotte del governo di tel Aviv (ed ora anche in Libano), dopo il tremendo atto terroristico compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023.
Gli inizi. Il difficile Secondo Dopoguerra tra divisione politico-ideologica e esigenze di sicurezza europea e transatlantica
Innanzitutto, il Patto Atlantico, indipendentemente dalle sue declinazioni e interpretazioni, attività, opzioni e concetti strategici susseguitisi, politici, militari e accademici nei diversi paesi e all’interno delle differenti formazioni politiche nazionali, dal tempo della sua costituzione e fino ai giorni nostri, costituisce un’alleanza che sorge inevitabile dopo la divaricazione politica, ideologica e geostrategica tra gli ex alleati – peraltro molto differenti – della lotta antinazista e antifascista tra il 1939 e il 1945, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica. E, naturalmente, la Francia libera gaullista.
La fine dello spaventoso conflitto segnerà, infatti, l’avvio della “Guerra fredda” con la divisione dell’Europa e del mondo in sfere di influenza ripartite tra le due grandi potenze, Usa e Urss, plastica riconferma delle decisioni delle conferenze di Jalta e Potsdam, rispettivamente nel febbraio e luglio-agosto 1945.
Questi vertici dei “Grandi” – poi membri permanenti del Consiglio di sicurezza con diritto di veto nella nuova Organizzazione delle Nazioni Unite, successora della fallita Società delle Nazioni – saranno prodromici al successivo sorgere in Europa della Nato e del Patto di Varsavia, ma anche altrove con alleanze regionali formalizzate e non, in altre aree del mondo. Come, ad esempio, avverrà con la nascita della Seato, la Southeast Asia Treaty Organization, nel 1955 in chiave anti comunista o con i Trattati di amicizia e cooperazione conclusi tra Urss e diversi singoli paesi, dall’Egitto nasseriano alla Siria, all’Iraq ed altri.
Ma non vi sarà soltanto questa divisione e competizione tra i due blocchi: numerose nazioni saranno ulteriormente divise statualmente e politicamente con l’emersione di linee di frattura al loro interno e con periodiche alternanze di aperture dialogiche o repressione da parte del potere, in contrapposizione alle dissidenze sotterranee o alle opposizioni aperte di tipo politico, ma anche etniche e religiose, perlomeno in Europa Orientale.
Fratture che, invece, a Ovest saranno talora visibili con altrettanto periodiche pulsioni securitarie e irrigidimenti legislativi delle libertà politico-sindacali, con misure punitive contro le forze non conformiste, quelle “antisistema” o semplicemente contestatrici dello status quo.
In alcuni casi, le crisi interne – e/o ispirate dall’esterno – giungono all’estremo, manifestandosi con l’intervento mascherato o diretto, con l’arrivo al potere di militari golpisti o esecutivi civili-militari che azzerano o limitano le libertà civili e democratiche, come in Grecia nel 1967 o nell’estremo fianco Sud Orientale dell’Alleanza Atlantica, in Turchia (1960, 1971, 1980 e i tentativi di colpo di Stato del 1997 e ancora nel 2016).
Un’azione repressiva che invece a Est avverrà con interventi soft e cambiamenti sotterranei o repentini nei Partiti-Stato dominanti con il Cremlino ispiratore, passando per il buio del comunismo staliniano, il “ritorno alla legalità socialista” di Nikita Krusciov o il dogmatismo brezneviano con il rifiuto delle esigenze di libertà di coscienza e sociale.
È un dipanarsi complesso tra processi politici con condanne capitali o la messa in ombra e ai margini di molti dirigenti di Stato e di partito (da László Rajk a Imre Nagy, da Rudolf Slansky fino al “revisionista” Wladyslaw Gomulka, invece “riabilitato” in vita e repentinamente passato dal carcere alla leadership del Partito Operaio Unificato Polacco (4) e acclamato popolarmente nelle giornate dell’ottobre 1956) al non superamento della “linea del sangue” nella lotta politica di vertice con il “disgelo kruscioviano” fino agli interventi militari diretti o indiretti per bloccare l’indisciplina, come in Germania Est (1953), Ungheria (1956), nella Cecoslovacchia dubcekiana del socialismo dal volto umanistico (1968) o l’autogolpe in Polonia nel dicembre 1981 del generale Wojciech Jaruzelski, poi protagonista con il sindacalista Lech Walesa della transizione alla democrazia “senza aggettivi” nel 1989-90.
Un’evocazione non solo simbolica: la questione tedesca, le due Germanie. Berlino: il cielo diviso
La Germania, occupata a Ovest dalle forze statunitensi, britanniche e francesi e a Est dall’Urss, poi divisa e eretta in due stati con sistemi politici ed alleanze militari contrapposte a Bonn (5) e Berlino Est,(6) ha rappresentato il simbolo della divisione postbellica in Europa per 28 anni, dal 13 agosto 1961 al 9 novembre 1989.
La ex capitale dello scomparso Reich è lo snodo di una continua serie di tensioni internazionali che parte e tocca lo zenit con la allarmante crisi Usa-Urss, allorquando Mosca (e la sua “zona”, la nascitura Repubblica Democratica Tedesca) bloccherà i collegamenti di Berlino Ovest con il resto del mondo dal 24 giugno 1948 per quasi un anno.
Poi, l’altro momento clou: l’erezione del muro il già ricordato 13 agosto 1961, decisa dal leader tedesco-orientale Walter Ulbricht per bloccare l’afflusso di cittadini della DDR verso l’Ovest. Per poi ancora acuirsi alla fine degli anni ‘70 e nel decennio successivo con la crisi degli Euromissili, SS-20 sovietici versus Pershing 2 e Cruise, poi smantellati grazie agli accordi tra gli Usa e la nuova dirigenza gorbacioviana.
Ma questo difficile dialogo tra le superpotenze su Berlino e i loro protetti, oltre che negli altalenanti rapporti inter tedeschi è sempre proseguito, sia pur spesso negletto.
Un punto di svolta nel senso della détente, la distensione Est-Ovest, fu però il 1972 con il Trattato fondamentale, il reciproco riconoscimento tra le due Repubbliche tedesche e l’anno successivo con l’adesione contemporanea alle Nazioni Unite, dopo anni di crisi tra aspirazione all’unificazione e la netta separazione, invocata dal nuovo leader tedesco-orientale, Erich Honecker.
Tutto questo lasciando, però, ancora inevasa da parte della Repubblica Federale la questione del riconoscimento formale delle frontiere orientali post belliche, con la linea Oder-Neisse. Riconoscimento, tra l’altro, ancora rifiutato negli anni ‘80 dall’Unione democristiana e accettato da Helmut Kohl solo a chiusura della questione tedesca con il leader sovietico Mikhail Gorbaciov. Ma, si può ben sottolineare che non solo nel Continente europeo, ma anche altrove, in altri scacchieri del mondo, altrettanto forieri di crisi e di perduranti tensioni internazionali, sono sorte nazioni divise in due: la Corea, il Vietnam, lo Yemen.
Il Secondo Dopoguerra vedrà, quindi, per decenni il cleavage principale in Europa rappresentato dalla “questione tedesca” e una alternanza dell’acuirsi delle tensioni internazionali con le variegate dinamiche dei rapporti tra le due superpotenze ed i rispettivi alleati, più o meno disciplinati, ma anche il sopirsi delle stesse, con il paziente dialogo politico-diplomatico e altresì i buoni uffici di molti “uomini di buona volontà”, come al tempo della “coesistenza pacifica” e della distensione Est-Ovest, con la Ostpolitik tedesca del Ministro degli Esteri e poi Cancelliere socialdemocratico della Piccola coalizione social-liberale, Willy Brandt (e futuro prestigioso presidente di una ancora importante Internazionale Socialista); o l’azione della Chiesa cattolica da Giovanni XXIII a Paolo VI fino a Karol Wojtyla con soprattutto la tessitura del Cardinale Agostino Casaroli: o di giornalisti-ambasciatori informali tra partiti e stati come Leo Bauer (vero “link” tra Brandt e il Pci dal lontano 1967) oppure di sindaci impegnati, come Giorgio La Pira.
Solo negli anni ‘70 e alle soglie degli Ottanta, si potrà registrare in realtà il culmine di una possibile competizione-collaborazione positiva, anche se partendo da sistemi, alleanze e ideologie differenti e contrapposte, con la Csce, la Conferenza per la sicurezza e cooperazione in Europa (oggi Osce), che aperta nel 1973 si chiuse poi nel 1975 con la firma dell’Atto finale di Helsinki, favorendo finalmente e faticosamente l’apertura di brecce nel campo delle libertà, del dialogo e dell’interscambio Est-Ovest, e i primi Trattati per la non proliferazione nucleare o la limitazione degli armamenti Salt e Start.
Una nuova fase in Europa
Alla fine del 1945, come precedentemente ricordato, a conflitto appena concluso emergono nella comunità internazionale due sole (super)potenze, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, autentiche protagoniste dei decenni successivi, ora in via di ingaggiare uno scontro-confronto-competizione per la massima influenza globale.
Una delle storiche potenze europee e mondiali, il Regno Unito, nonostante il prestigio churchilliano a Downing Street e la strenua resistenza politica (e popolare) antinazista dei britannici, così ammirevole e commovente, era, in effetti, ora nettamente declinante nella sua leadership e nel suo dominio marittimo e coloniale.
La Cina popolare maoista, e poi denghista, è invece ancora nascente e ben al di là dal consolidare un proprio ruolo, che avverrà solo dagli anni ‘60 sul piano della leadership ideologico-politica intracomunista – a parte lo spettacolare debutto con il “gioco” kissingeriano-nixoniano del 1971-72 – e più arditamente dal decennio ‘90, ed ancor più negli anni 2000, in chiave non solo geostrategica ma economico-commerciale.
Si è ricordato la progressiva tensione tra i Grandi, in primis per la questione del futuro della Germania e di Berlino, la preoccupazione delle democrazie occidentali, la “stretta” di Mosca sulle nuove “democrazie popolari” alleate, ispirate e progressivamente instaurate nei “suoi” paesi dell’Est.
È da questo quadro preoccupante di diffidenza e timore tra gli oramai ex alleati anti hitleriani che spicca il discorso allarmato del premier britannico, Winston Churchill, del 5 marzo 1946 a Fulton sulla discesa del “sipario di ferro”, la cortina tra Est e Ovest, quella “Iron curtain” che cala in Europa, tra Stettino e Trieste, e che segnerà un rapido cambio di scenario nel Vecchio Continente.
In Occidente, se le democrazie vincitrici (Washington, Londra, Parigi) correttamente evitano il gravissimo errore del Primo Dopoguerra con le condizioni-capestro imposte a Berlino con il Trattato di Versailles nel 1919 e pensano a come associare e vincolare in chiave democratico-costituzionale – e particolarmente sul piano difensivo e della sicurezza – i paesi vinti (Italia e Germania e Giappone), nelle stanze del Cremlino di Stalin emerge tutta la preoccupazione per una rapida rinascita e il possibile protagonismo (e soprattutto per il sicuro riarmo di Bonn che avverrà nel quadro Nato) nelle terre della nascente Repubblica Federale in Germania Ovest.
Ma il punto cardine, prefigurante poi la futura alleanza difensiva transatlantica, ideato in primo luogo anche per affermare la leadership di Washington sarà innanzitutto l’assistenza statunitense per la ricostruzione economica europea, in primis il Piano Marshall.
Inevitabilmente, con il crescere delle tensioni, questo piano per la ripresa economica-sociale del Vecchio Continente, e i nuovi, più intensi legami politici euro-americani comporterà la progressiva emarginazione delle forze di sinistra marxiste e di tutti i simpatizzanti e compagnons de route dell’Urss dai governi di unità nazionale in Europa Occidentale.
In Italia, in particolare, oltre ai comunisti e apparentati, anche i socialisti nenniani alleati del Pci togliattiano non troveranno più posto nel 1947 nel nuovo esecutivo, il quarto, del leader democratico cristiano Alcide De Gasperi. Ma ancora, si registrerà un diverso e ulteriore tipo di aiuto e indirizzo da parte della Casa Bianca anche sotto il profilo politico-istituzionale, al fine di redigere le nuove Costituzioni e un rinnovato quadro delle formazioni politico-parlamentari e associative in chiave democratica di alcuni dei paesi sconfitti, come avverrà, ad esempio, a Bonn e a Tokyo.
L’European Recovery Program, ideato dal segretario di Stato del presidente Harry Truman, George Marshall, e discusso nella Conference on European Economic Cooperation a Parigi il 12 luglio 1947, peraltro era formalmente proposto a tutta l’Europa. Anzi, inizialmente darà il proprio assenso anche il leader e primo ministro comunista Klement Gottwald in Cecoslovacchia, che sarà poi indotto da Stalin a rifiutare l’Erp.
L’evidente realtà, però, era una soltanto: il panorama internazionale virava oramai inevitabilmente in una direzione: serrare i ranghi, stringere i bulloni, allestire un’alleanza tra simili: le liberaldemocrazie contro le nuove “dittature del proletariato”.
Come affermò poi il primo segretario generale della Nato, Hasting Lionel Ismay, bisognava “tenere l’Unione Sovietica fuori, gli americani dentro e i tedeschi sotto”. Di lì a poco si sarebbe posta la questione dirimente delle alleanze politico-militari.
Il “serrare i ranghi” nei rispettivi campi. L’Italia verso il Patto Atlantico, vagheggiando un’impossibile neutralità
La “cortina di ferro” evocata da Churchill diventava sempre più realtà.
A Est, le elezioni si risolvevano in Fronti “democratici e patriottici” o “popolari” e governi egemonizzati dal futuro Partito-Stato di ispirazione comunista e filosovietica; epurazioni anche fisiche e non solo dei capi delle formazioni concorrenti non marxiste ridotte ad ancelle del Pc dominante, ma anche dei medesimi dirigenti comunisti “non allineati”, tra misure economiche pianificatorie, nazionalizzazioni e collettivizzazione, sicurezza sociale per i cittadini-proletari, operai e contadini, e una nuova disciplina-irreggimentazione “socialista”. Ciò, mentre sul piano internazionale, i nuovi leader orientali stipulavano – volente o nolente – Trattati di mutua assistenza economica e difensiva con Mosca, anche prefigurando la futura organizzazione commerciale del Comecon, specchio delle nuove realtà comunitarie dell’Ovest, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) nel 1951 e la Cee e euratom nel 1957.
In parallelo, in Occidente, i partiti e le forze democratiche centriste, moderate e socialiste o social democratiche anche marxiste ma non filosovietiche, evocando e sperimentando agitazioni di massa, il “pericolo rosso” tra contestazione e sovversione, la lotta alle “quinte colonne dei sovietici” e pur divise tra governo e opposizione, tutte progressivamente si orientano verso la necessità dell’accettazione della proposta di un’alleanza transatlantica, sia pur come risposta agli stretti legami instaurati tra Urss e le capitali dell’“altra Europa”.
L’Italia, paese sconfitto ma che sta ritrovando la sua via e nuove istituzioni democratiche, resta sempre nel novero delle nazioni dell’Occidente europeo. Ma, come per le altre Capitali, anche Roma deve porsi molto presto la questione della propria dimensione e proiezione internazionale e del “campo” di appartenenza.
Le forze politiche e culturali italiane, permeate o meno anche dall’imprescindibile fattore religioso e dalla presenza della Chiesa cattolica, se erano unite dalla lotta di Liberazione nazionale contro il fascismo e collaborando proficuamente nei governi post fascisti e post bellici, nell’immediato Dopoguerra devono ora scegliere, tenendo obbligatoriamente conto del rapido mutamento della situazione internazionale.
Le grandi formazioni politiche popolari che emergono dal voto del 2 giugno 1946 e ancor più dopo il 18 aprile 1948, la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista Italiano e il Partito Comunista Italiano, ma anche i partiti laici minori come i repubblicani, i liberali e il nascente Partito socialista democratico (inizialmente Psli) di Giuseppe Saragat sono tutti chiamati a fare una scelta di campo. E ancor più con sullo sfondo il “colpo” di Gottwald che a Praga emarginò i partner governativi non comunisti.
Ma le forze politiche dovranno scegliere non solo quando l’Amministrazione statunitense presenta il già ricordato Erp, il piano Marshall per l’assistenza e la ricostruzione economica europea, ma immediatamente a stretto giro, non appena viene posta la questione dell’alleanza politica e militare con gli Stati Uniti.
Una scelta di campo, già ben presente a De Gasperi dopo il viaggio negli Stati Uniti del gennaio 1947 e che si consoliderà vieppiù in lui, che susciterà passioni e pulsioni diverse e contraddittorie nei partiti e nelle personalità, ai vertici e alla “base” in periferia, tra adesione piena e consapevole o ripulsa e rifiuto, provocando dibattiti, riflessioni. O suscitando dubbi che però dovranno essere superati da alcuni anche con dolorose crisi di coscienza, finanche conducendo alla separazione dai propri partiti.
L’idea di una posizione di neutralità dell’Italia era, in effetti, diffusa nei vertici dei partiti, in primis nelle sinistre socialista e comunista e, inizialmente, anche in Vaticano, pur non essendo in dubbio l’essere pienamente Roma nell’area occidentale. Ma la questione del “campo” suscitò notevoli inquietudini e tensioni particolari nel primo partito, la formazione di ispirazione cristiana oramai architrave del governo e del Paese, la Democrazia cristiana. Sarebbero, infatti, emersi in diversi esponenti Dc di prestigio una serie di dubbi che si riproporranno poi qualche anno più tardi, in occasione del possibile varo del pilastro interamente europeo in materia di sicurezza, la Ced. Quella Comunità Europea di Difesa, poi abortita poco tempo dopo, nel 1954, e presentata come Piano Pleven dall’eponimo presidente del Consiglio francese, René Pleven, il 24 ottobre del 1950.
In effetti, a parte il leader Alcide De Gasperi, che fu presto convintamente risoluto sull’adesione al Patto Atlantico, in diversi settori democristiani vi fu insofferenza, come innanzitutto in Giuseppe Dossetti – che abbandonerà la politica per una scelta personale religiosa nel 1951 – con il suo gruppo “Cronache sociali”, e poi – anche se mantenute sotterranee – in singoli esponenti di altre correnti, come in “Iniziativa democratica” dei professorini di Amintore Fanfani.
Nelle sinistre, Pci e Psi, che dal 1948 auspicavano una politica estera di indipendenza nazionale e una “neutralità attiva” e paventavano i rischi della nuova alleanza come ostacolo alla pace e alla concordia internazionale – nonostante l’evidente e rivendicato riferimento politico e sentimentale all’Urss -, quel rifiuto iniziale della Nato negli anni e nei decenni successivi si modificherà nettamente. Un rifiuto che evolverà nella posizione di non modificazione unilaterale della collocazione internazionale del Paese, che avrebbe rotto l’equilibrio dei blocchi contrapposti, e in una partnership leale con il senior partner statunitense e gli altri associati.
Il dibattito nel Paese e in Parlamento, però, sul finire degli anni ‘40 andrà così svolgendosi tra enfasi e agitazione, allarmismo o autoconfortante determinazione, e con tratti di raro ostruzionismo a Montecitorio e Palazzo Madama poi nel marzo 1949 e fino alla firma formale a Washington tra i paesi aderenti, nell’aprile successivo, e con la nuova battaglia parlamentare per la ratifica del Trattato.
In quel momento, ma già nel ‘48, con il Psi e il Pci uniti dalla pulsione-convergenza unitaria e dalla solidarietà de facto con l’Urss, il leader socialista Pietro Nenni in un colloquio con il suo omologo del Partito Repubblicano, Ugo La Malfa, e riportato dall’allora ambasciatore a Mosca, Manlio Brosio (che sarà poi molti anni dopo Segretario generale della Nato e del Pli) affermava di «temere la guerra» grandemente e che ciò lo portava naturaliter a essere nello stesso fronte di classe e internazionalista con Togliatti. L’ex e futuro vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri insisteva poi affinché l’opposizione si impegnasse nel «non dare tregua al governo» almeno per rendere il Patto Atlantico «inoperante» e passare alla distensione, ma intesa come «lotta di classe» internazionale.
Ma non solo tra i cattolici e ancor più nello schieramento di sinistra vi erano inquieti e dissenzienti: tra i parlamentari di spicco che si opposero all’ordine del giorno per l’adesione al Patto vi furono Piero Calamandrei e, tra gli astenuti, due ex presidenti del Consiglio, Francesco Saverio Nitti e Vittorio Emanuele Orlando, ma anche il deputato Dc Giuseppe Rapelli, aclista e già segretario generale per l’area cattolica nella Cgil ancora unitaria. Dossetti e altri democratici cristiani o votarono contro o si astennero nelle istanze di partito, ma furono assai disciplinati nei voti parlamentari.
Le fasi dell’accettazione della nuova alleanza furono, invece, come accennato, alquanto differenti nella scansione temporale per le diverse anime della sinistra italiana.
Per il Psi ci fu un ripensamento soltanto con la drammatica crisi ungherese dell’ottobre-novembre 1956 e manifestato apertamente soprattutto osservando la brutale repressione moscovita contro Budapest e il suo premier comunista-democratico, Imre Nagy. Nenni con il gruppo dirigente – a parte i cosiddetti “carristi” – iniziò una faticosa e complessa revisione della posizione socialista sull’alleanza transatlantica, in parallelo al progressivo distacco dall’alleato Pci in un senso sempre più autonomistico.
Il Partito Comunista Italiano, peraltro, in quell’«indimenticabile 1956» come ricorda lo storico Paolo Spriano, iniziò anch’esso la revisione in senso nazionale delle proprie posizioni in politica estera con la declinazione della “via italiana al socialismo” e una prima riflessione critica sulla natura dell’Urss dopo la denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin, l’intervista a “Nuovi Argomenti” e l’articolato memoriale di Jalta, lascito di Palmiro Togliatti.
Un distacco comunista che avverrà ancor più risolutamente con il segretario generale Luigi Longo nell’agosto del 1968, con la tragedia dell’occupazione “dei Cinque” della Cecoslovacchia di Alexander Dubcek, per giungere fino ai primi anni ‘70 con l’accettazione piena della Nato da parte del nuovo leader comunista, Enrico Berlinguer, risaltata in una famosa intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera. E ancor più nel 1977 a Mosca davanti ai gerontocrati del Pcus, e poi condannando con durezza nel 1981 la proclamazione della legge marziale in Polonia e la mancanza di libertà nell’Urss brezneviana.
L’Alleanza Atlantica e la sua evoluzione. Sfide globali tra terrorismo e guerre asimmetriche, diplomazia dei popoli e movimenti per il disarmo
Può ben dirsi che il Trattato sullo stato finale della Germania concluso il 12 settembre 1990 tra le due Germanie, la Repubblica Federale di Bonn e la poi dissolvente DDR, la Repubblica Democratica Tedesca, e le quattro potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale in Europa, Stati Uniti d’America, Unione Sovietica, Francia e Gran Bretagna rappresenti il culmine della svolta nella storia europea, vissuta rapidissimamente nell’incredibile 1989, con una coda nell’anno successivo.
Lo scioglimento nel 1991 del Patto di Varsavia tra le ex “democrazie popolari” ed il Cremlino, inizialmente tutti avviati sulla strada della transizione democratica e della costruzione dello Stato di diritto, sarà un ulteriore suggello del cambio di regime a Est, con la fine della “dittatura e il totalitarismo comunista”, verso una concordia globale e pacifica in chiave liberal democratica e capitalistica. E con il timbro ultimativo dell’idea fukuyamiana della «fine della Storia».
Non sarà e non è così, in realtà. Il 1985 aveva segnato il cambiamento nelle relazioni internazionali e tra i blocchi militari con l’arrivo al potere di Mikhail Gorbaciov in Unione Sovietica, avviluppata tra stagnazione economica interna e crescenti tensioni tra le nazionalità, dopo lo sfinimento della corsa agli armamenti, la “dottrina Sinatra” del nuovo leader nei confronti dei paesi alleati dava poi il via nell’Est alle “rivoluzioni pacifiche” con le Tavole rotonde potere-opposizione-forze sociali e poi la Wende in Germania Orientale, ma perdendo la sfida nel confronto-competizione con la Casa Bianca conservatrice e poi “aperturista” di Ronald Reagan e di George Bush. Successivamente il “nuovo” faticherà a emergere, con la unipolarità statunitense seguita alla dissoluzione dell’Urss, l’irrompere sulla scena di Pechino come potenza commerciale mondiale, il terrorismo politico islamista, le minacce di guerre asimmetriche e ibride con la fase multipolare e anarcoide attuale.
Se allora vi erano fattori anche di stabilizzazione nell’”equilibrio del terrore”, con le truppe e gli armamenti schierati massicciamente dall’Atlantico agli Urali e nelle basi sparse in altri scacchieri del globo, si è passati ad un panorama internazionale oramai senza sicuri punti fermi. E ciò nonostante talora vi fossero squilibri imprevisti o la presenza di alleati indisciplinati ma tollerati.
Basti ricordare la Francia del generale Charles De Gaulle che nel 1966 addirittura uscì dal Comando integrato della Nato obbligando a spostarne la sede da Parigi a Bruxelles o la irrequieta Romania nazional-comunista di Nicolae Ceausescu insofferente verso il Cremlino – e che rifiutò di partecipare all’occupazione cecoslovacca rivendicando la non ingerenza negli affari interni anche dei paesi socialisti e la propria sovranità assoluta – allora molto apprezzata a Washington da Richard Nixon e successori, così come in tutto l’Occidente.
A conclusione della Guerra fredda, dopo la notevole mobilitazione in Occidente di qualche anno prima contro il riarmo e gli Euromissili, molti ambienti e movimenti per il disarmo auspicavano un nuovo sistema di sicurezza internazionale, affidabile e basato non solo sulle Nazioni Unite – a tutt’oggi ancora alle prese con una mai attuata autoriforma del Consiglio di Sicurezza e della capacità di intervento nei teatri di crisi e guerra – oppure sulla Csce, poi Osce, ma questa ipotesi è apparsa sempre più irrealistica.
Infatti, da subito gli ex satelliti di Mosca emancipati dopo il 1989-91 hanno inteso tutelarsi da nuove e future minacce del grande vicino orientale richiedendo l’adesione alla Nato (e anche all’Unione europea), collocando così in un futuro lontano e imprecisato quell’auspicio, pur nobile, dei militanti pacifisti.
L’Alleanza Atlantica, come detto, ha quindi ampliato progressivamente confini e partner, rimanendo l’unica grande comunità difensiva mondiale, modificando il proprio concetto strategico negli anni – l’ultimo varato al vertice Nato di Madrid del 2022 in cui sono stati delineati i tre “core tasks”: deterrenza e difesa, prevenzione e gestione delle crisi e sicurezza cooperativa – e allargando altresì con una interpretazione nuova ed estensiva i suoi compiti e principi, a partire dalle sfide del terrorismo internazionale.
Gli interventi nella ex Federazione Jugoslava negli anni ‘90 e l’applicazione, per la prima volta, dell’articolo 5 che stabilisce la solidarietà degli alleati in occasione dell’attacco terroristico a New York dell’11 settembre 2001 con l’intervento armato in Afghanistan segnano questo ampliamento interpretativo del profilo di “aggressione”, estesa a “ogni attacco armato sul territorio di Alleati, proveniente da qualsiasi direzione”.
Una svolta che che segnerà una nuova fase per la Nato, e peraltro, terrà in relativo conto la peculiarità di quel paese – già sperimentata dall’Urss brezneviana con il suo «aiuto fraterno» a Kabul nel 1979 – e dove poi improvvisamente nel 2022 vi sarà il disimpegno Usa e la rentrée al potere degli odiati Talebani. Un ulteriore esempio sarà la creazione della Forza di intervento rapido, operativa in qualunque area critica del mondo e non solo nell’Atlantico del Nord, decisa nel summit di Praga del 2002.
L’alleanza, però, andrà scricchiolando pericolosamente con la presidenza di Donald Trump tra il 2017 e il 2021. Pur ribadendo l’impegno per la difesa del Vecchio Continente, Trump considerava – e considera – esagerata l’ingente spesa Usa con la pressante e insistente richiesta d’oltreoceano agli europei di contribuire finanziariamente almeno con il 2 per cento del Prodotto interno lordo – così come era stato stabilito nel 2014 nel vertice Nato di Newport in Galles – di fronte a una Nato secondo lui del tutto «obsoleta».
Una valutazione che, connessa anche alle non facili relazioni con diversi leader omologhi delle capitali alleate, fu in parte condivisa crudamente anche dal presidente francese Emmanuel Macron. Nel novembre 2019 in un’intervista all’Economist, il capo dell’Eliseo manifestava l’insofferenza per aver incentrate le ultime riunioni dell’Alleanza quasi esclusivamente sull’esigenza trumpiana di ridurre il contributo statunitense, dichiarando che “stiamo vivendo la morte cerebrale della Nato”. Questo requiem per la Nato, o il suo declino che appariva quasi dato per certo non si è affatto verificato.
Infatti, pur non essendo coinvolta come organizzazione collettiva, l’attacco militare russo a Kiev e un differente approccio della nuova Amministrazione Biden, ha portato ad accenti diversi soltanto tre anni dopo quelle dichiarazioni apodittiche. Il conflitto russo-ucraino ha, al contrario, rivitalizzato l’alleanza, provocandone anzi il suo nuovo allargamento.
La presenza e garanzia della Nato ad oggi permette protezione certa in primis a baltici e polacchi, evitando sconfinamenti e la possibilità di escalation bellica sul fronte Est, svolgendo manovre militari congiunte ad hoc e opportune ridislocazioni delle forze armate alleate.
Dinanzi all’azione putiniana, questo ridispiegamento può destare preoccupazione nell’opinione pubblica, ma il carattere necessariamente dissuasivo è giustificato dalla tensione ininterrotta sul fianco orientale, riflesso inevitabile del 22 febbraio 2022. Anche in passato, regolarmente comunicate agli avversari e ai vertici dei rispettivi blocchi militari, esercitazioni e manovre militari su larga scala avevano luogo anche in tempi di crisi. Sia quelle periodiche dei sovietici e degli ex alleati, Sojuz e Zapad, proseguite anche dalla Russia odierna post sovietica, come anche le esercitazioni del blocco atlantico, la cui ultima e più rilevante per impiego e dimensioni è stata Steadfast Defender 2024.
Appare evidente, in questi tempi convulsi, nella comunità internazionale e nelle opinioni pubbliche più avvertite, la necessità di comprendere il bilanciamento tra sicurezza interna e collettiva e la naturale ricerca della pace o, quanto meno, l’assenza di guerra.
L’allarme in alcuni settori sociali e tra gli esperti dei movimenti per il disarmo è attualmente alto, dal momento che si calcolano nel mondo oltre 50 conflitti in corso – alcuni pluridecennali e assai incancreniti -, secondo il Global Peace Index 2024 ed anche una spesa globale in armamenti, rilevata dal Sipri, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma, giunta ad un livello di quasi 2.300 miliardi di euro.
È pleonastico che non ci si possa limitare ragionevolmente all’equazione meno spesa per la difesa uguale più pace o più welfare. La distensione, la concordia e anche la riconciliazione tra le parti in conflitto, l’azione diplomatica e dialogica delle cancellerie e dei movimenti organizzati e spontanei, come la Comunità di Sant’Egidio (animatrice e protagonista degli Accordi di pace per il Mozambico, per la Repubblica Centrafricana o i tentativi per il Sud Sudan) o i Centri studi e di ricerca ufficiali o quelli associativi sorti dal basso, devono procedere e viaggiare di pari passo, in un possibile combinato disposto, allestendo e infondendo tra le parti in conflitto soprattutto un supplemento di elementi di fiducia reciproca. E sono infatti importanti, a questo proposito, sempre se condotti con perizia e rigoroso coordinamento, i Tracks of Diplomacy (ToDs), con gli attori giusti collocati nelle varie tappe.
Volendo indirizzarsi ad una conclusione, ovviamente parziale, del presente paper, sarebbe utile e necessario sicuramente valorizzare ogni impegno e in ogni direzione per elevare il livello di conoscenza e consapevolezza dei popoli e delle opinioni pubbliche; stimolare l’equilibrio nelle posizioni politiche dei governanti e dei parlamentari, evitando estremismi verbali e fattuali e apoditticità parossistiche; comprendere e far capire la reale importanza del settore della difesa e della sicurezza statale in chiave patriottica – come richiamato dalla nostra Carta costituzionale – ed inscindibile dalle proprie Forze armate, impiegate altresì ripetutamente in chiave dual use – l’ambito militare proprio, nonché tutte le necessità e emergenze dell’area civile; e ancora, riconoscere il dato, storicamente determinato nel nostro Paese, dell’appartenenza ad una Alleanza liberamente scelta, Occidentale, condivisa con una costellazione di paesi democratici. Patto che ha comunque contribuito, sia pur con inevitabili distinguo e contraddizioni, all’esercizio delle libertà e garantendo la nostra sicurezza esterna.
E tutto questo nell’auspicio di una maggiore, umana e umanistica risolutezza per unire, comporre le volontà individuali e collettive per evitare la discordia, l’acuirsi delle crisi, il conflitto estremo, la guerra. Evitando, per l’appunto, l’attuale «guerra mondiale a pezzi», come efficacemente rilevato da Papa Francesco. Evitando, infine, con Carl Von Clausewitz che la guerra sia ancora «la continuazione della politica con altri mezzi».
NOTE
1. Il Trattato di amicizia, cooperazione e assistenza reciproca fu firmato il 14 maggio 1955 nella capitale polacca dall’Urss e dai suoi sei alleati a “democrazia socialista”: Albania (che ne uscirà de facto nel 1968), Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania e Ungheria. La Repubblica Democratica Tedesca (Ddr Rdt) aderirà l’anno successivo. Il Patto di Varsavia si sciolse il 1° aprile 1991.
2. I paesi fondatori sono Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti d’America. Hanno poi aderito Grecia e Turchia (1952); Repubblica Federale Tedesca (1955); Spagna (1982); Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia (1999); Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia (2004); Croazia e Albania (2009); Montenegro (2017); Macedonia del Nord (2020); Finlandia (2023) e Svezia nel 2024.
3. La cosiddetta “finlandizzazione” (suomettuminen), paventata in Occidente, era spesso evocata per un possibile status per una Germania unita in varie fasi del Dopoguerra.
4. Il Poup, Pzpr, Polska Zjednoczona Partia Robotnicza era il partito comunista dominante, ma diviso da sempre in correnti tra i dogmatici (le cosiddette “teste di cemento”) e i riformatori timidamente “aperturisti” e che governò la Polonia dal 1948 (dal 1945 come Partito Operaio Polacco, Polska Partia Robotnicza, Ppr).
5. La Repubblica Federale di Germania fu proclamata il 23 maggio 1949. La Costituzione di Bonn, la Grundgesetz, la Legge Fondamentale è anche oggi vigente, aggiornata con l’adesione dei ricostituiti Länder (gli Stati-regione) della ex RDT. Il 9 maggio 1955 la RFT entrò nella Nato.
6. La Repubblica Democratica Tedesca, dominata dalla SED, Sozialistische Einheitspartei Deutschlands, il Partito Socialista Unitario “marxista-leninista di nuovo tipo”, frutto dell’unione obbligata tra comunisti e socialdemocratici dell’Est, nasce il 7 ottobre 1949 e aderisce al Patto di Varsavia nel 1956.
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