Ringraziamo Nello Scavo, giornalista e inviato speciale di Avvenire, per averci concesso questa intervista in tempi certamente non facili, per chi, come lui, racconta la guerra dal campo dove si subiscono le principali conseguenze.
Cosa significa fare il giornalista, informare sulla guerra e inserirsi in questo tipo di contesto per raccontarla?
Il principio di base per chi fa questo mestiere è che il giornalista, al tempo di internet e della bulimia informativa, deve tornare a essere un giornalista di prossimità, che significa guardare le cose ad altezza d’uomo; di conseguenza deve andare sul posto il più possibile, deve accostarsi alle storie, alle persone; e, se è il caso, anche correndo dei rischi. Ma soprattutto il giornalista deve dare un contesto ai fatti, perché oggi, proprio di fronte al bombardamento comunicativo, siamo travolti da tanti singoli eventi che non riusciamo più a metterli in collegamento tra di loro.
La nostra responsabilità è, che si tratti di un incidente stradale per il cronista locale o che si tratti di uno scontro a fuoco in una zona di guerra, provare a dare un contesto a questi fatti e capire perché accadono le cose, chi sono i personaggi coinvolti, che storia c’è dietro, quali legami ci sono. Per fare questo è importante provare a capire attraverso la viva voce delle persone che subiscono i conflitti, non solo come li vivono e li affrontano, ma anche come si sono preparati, se ne avevano raccolto qualche sintomo in precedenza, se si sono sentite inascoltate dalla comunità internazionale o anche dagli stessi giornalisti. Penso alla guerra in Ucraina, della quale, in realtà, i segnali c’erano tutti ormai da parecchio tempo e poi, in qualche modo, siamo stati colti molto di sorpresa.
Sei appena rientrato a casa. Dove sei stato e perché? Cosa ci puoi dire sulla situazione che hai visto in Medioriente?
È forse la sesta o la settima missione in Medio Oriente dall’inizio della guerra. In quest’ultimo periodo avevo fatto prima il Libano e poi di nuovo Israele e Palestina e devo dirti prima di tutto una sensazione personale, anche se i giornalisti non dovrebbero andare a sensazione: ho provato una grandissima frustrazione per non essere riuscito a entrare ancora una volta a Gaza, perché non ci vengono dati i permessi. Con il contagocce l’esercito israeliano consente alcune volte a un piccolo numero di giornalisti di entrare a Gaza, scortato dallo stesso esercito in una profondità molto relativa, per alcune centinaia di metri, per fare movimenti molto limitati e poi tornare indietro. Questo è problematico, ma sarebbe già qualcosa poter entrare, vedere almeno le macerie, anche se poi sappiamo benissimo che, quando si va embedded, è tutto molto filtrato, ma al momento non c’è nessuna possibilità.
Abbiamo fatto richiesta insieme a tante testate internazionali di entrare a Gaza assumendoci noi la responsabilità dei rischi, che vuole dire sapere di entrare e non essere sicuri di uscire, però la risposta è sempre variabilmente “no”. La questione è che Gaza, e questo dovrebbe aiutare a capire di più e meglio il conflitto, non è uno di quei luoghi nei quali la guerra accade lì e poi intorno c’è una situazione di preoccupazione ma di stasi. La guerra è a Gaza, ma è anche in Cisgiordania, dove sono stati già più di 500 i morti dal 7 ottobre a causa delle occasioni di scontro con le autorità militari israeliane, soprattutto per effetto delle retate in quei territori.
C’è poi il Libano, dove i morti sono stati già più di 200 solo sulla fascia meridionale, che è quella che loro chiamano confrontation line, in cui si misurano le forze Hezbollah con l’esercito israeliano, per quanto vi sia all’interno un corridoio controllato da UNIFIL (la missione internazionale delle Nazioni Unite). La stessa guerra ha provocato una reazione dell’Iran che promette ancora vendetta per gli omicidi mirati di Tel Aviv fuori dal territorio israeliano. Quando sei lì capisci che sei dentro a un contesto gigantesco: stiamo parlando di un quadrante in cui, mentre la Palestina e Israele insieme non riescono a superare i 12-13 milioni di abitanti (solo una stima perché molti si sono spostati all’estero e non hanno intenzione di rientrare), quello che accade lì sta movimentando una regione con oltre 480 milioni di persone, perché ci sono anche attacchi che arrivano dallo Yemen attraverso gli houthi, l’Iraq che è di nuovo in subbuglio, la Giordania che vive molta preoccupazione perché ha una numerosa e fervente comunità di profughi palestinesi. Quindi noi parliamo della guerra a Gaza, che è una guerra che non vediamo purtroppo direttamente, però in un contesto in cui c’è una situazione di conflitto e di tensione molto alta, che talvolta viene sottovalutato, a dispetto di quello che accade a Gaza che invece, giustamente, deve essere raccontato.
Veniamo ora alla tua recente pubblicazione: «Kiev». Questo libro racconta la guerra in Ucraina come un diario di incontri accompagnato ad una lucida analisi delle cause geopolitiche più recondite. Ci puoi spiegare le dinamiche di questa tua esperienza e l’incontro con le persone?
In realtà questi conflitti apparentemente lontani sono in realtà molto collegati: le armi utilizzate, come i droni iraniani con cui è stato attaccato Israele alcuni mesi fa, mentre ero lì a Gerusalemme (nessuno di noi pensava che potesse essere attaccata addirittura Gerusalemme), quando sulla testa ci siamo trovati gli stessi droni che, regolarmente, mi trovavo sulla testa a esplodere in Ucraina. Sono coinvolti gli stessi paesi in una certa misura, nel senso che Israele non è coinvolta direttamente nel conflitto in Ucraina, anche se ha fornito della tecnologia alle forze ucraine. Ma è molto presente anche la Russia: fino a poche settimane prima dell’attacco del 7 ottobre in territorio israeliano, funzionari di Hamas erano stati a Mosca. L’Iran è il principale fornitore di armi, soprattutto di droni e altra tecnologia militare utilizzata dalla Russia in Ucraina, ed è il grande sponsor delle milizie contro Israele come Hezbollah in Libano, gli houthi nello Yemen e alcune forze sciite in Iraq, che attaccano le basi americane, le quali lavorano a sostegno di Israele. Quindi in realtà questi conflitti sono molto collegati.
Ci sono, naturalmente, delle differenze: in Ucraina è stata ed è una guerra “classica”. Da tempo noi non vedevamo più guerre di quel tipo, cioè un esercito di un paese contro l’esercito di un altro paese e non milizie o falangi armate. Fin dall’inizio, sono state utilizzate tipologie di armi in Ucraina, che non abbiamo mai visto in altri contesti di guerra, penso in particolare ai missili ipersonici, le armi iperbariche e ci siamo trovati in un contesto di guerra come mai se ne erano visti dal secondo dopoguerra in avanti. Le differenze ci sono in riferimento al tipo di armi adoperate e, soprattutto, al luogo, perché l’Ucraina è un Paese enorme con un territorio vastissimo.
Ricordiamo che le forze russe erano entrate ormai alla periferia di Kiev nei primi giorni di guerra e io mi trovavo lì da tre giorni prima che scoppiasse il conflitto. Ho visto questa trasformazione di una città bellissima, vivace, in un luogo di guerra, in un paese che viene devastato e ho voluto raccontare queste prime settimane di conflitto; in forma anche di diario di guerra, senza nessuna ambizione o senza voler anche solo evocare i diari di guerra dei grandi reporter della storia; però con l’intenzione di provare a spiegare anche che cos’è il lavoro del corrispondente di guerra, per certi versi smitizzandolo, perché non siamo dei supereroi svalvolati che vanno senza paura e senza macchia incontro ai campi di battaglia, ma per spiegare che siamo persone che hanno delle competenze, delle paure, delle famiglie e che, però, sentono la responsabilità di esserci laddove le cose accadono e, attraverso quello che vediamo, possiamo essere voce di chi la voce non ce l’ha in guerra, soprattutto i civili vittime del conflitto.
Soffermandoci sui rapporti e le differenze che rilevi tra i due scenari di conflitto, quali elementi ci puoi riferire riguardo alle popolazioni che li vivono?
Le differenze sono minime ed enormi allo stesso tempo. Minime perché quando sei sotto un bombardamento, la paura, la preoccupazione, le vie di fuga sono poche per tutti, con la differenza che l’Ucraina è un Paese che, anche urbanisticamente, consente maggiori vie di fuga, cosa che invece a Gaza non ci sono. Entrambe hanno covato una diffidenza reciproca per il vicino di casa, in questo caso Russia con Ucraina e Ucraina con Russia e, dall’altra parte, a Gaza, nel rapporto difficile con Israele. La differenza enorme è orografica, perché mentre in Ucraina i confini sono molto porosi, se non altro perché geograficamente parliamo di un paese che prevalentemente è una gigantesca pianura e in parte anche molto boscosa, Gaza è un posto di 40 km di lunghezza per 12 di larghezza, molto stretto, in cui ci stanno due milioni di persone con la densità abitativa più alta del mondo e letteralmente reclusi dentro a una muraglia di cemento armato. L’unica via di fuga sarebbe il mare, ma anch’esso è controllato. Così se in Ucraina sei inseguito dalle bombe, mai hai la speranza di poter trovare un posto sicuro, a Gaza questo non ce l’hai e non è un aspetto secondario; oltre al fatto che stiamo parlando di paesi, nei quali, mentre in Ucraina si sa chi comanda, pur con tutti i problemi e lo stesso in Russia, a Gaza la situazione è molto complicata perché ci sono anche diverse fazioni. Noi parliamo genericamente di Hamas, ma sappiamo che poi Hamas ha un suo braccio armato, vi sono altre falangi che si sono coalizzate per il conflitto, ma non è detto che continueranno ad andare avanti in maniera molto compatta.
Anche la presenza internazionale è molto diversa: noi abbiamo visto in Ucraina una condanna molto forte delle autorità internazionali e dei singoli Capi di Stato per i crimini commessi dalle forze russe. Quello che accade, invece, a Gaza è una preoccupazione internazionale, ma anche una prudenza lessicale nel condannare le occasioni di conflitto. Abbiamo anche osservato un certo strabismo: se un ospedale viene colpito in Ucraina è un crimine internazionale contro cui tutti si scagliano. Se viene colpito a Gaza sento molte volte dei distinguo; quando in Ucraina la Corte Penale Internazionale ha deciso di emettere un mandato di cattura per Vladimir Putin si è alzato un coro di plauso da tutto il mondo, con l’Europa che ha incoraggiato la giustizia internazionale; quando la giustizia internazionale ha aperto un’inchiesta sui crimini a Gaza commessi da Hamas contro la popolazione israeliana, ma anche dall’esercito israeliano contro la popolazione civile a Gaza (crimini presunti, perché ancora siamo in fase di indagine) c’è stata molta freddezza o addirittura ostracismo di quegli stessi leader che invece applaudivano al mandato di cattura per Putin. Ecco, ci sono evidentemente delle contraddizioni e il mio timore è che anche in questo caso, come accade altrove, i diritti umani e il diritto internazionale vengano interpretati a seconda di certe convenienze.
La tua sensibilità nel fare informazione è sempre stata attenta alle persone migranti, che hai avuto modo di seguire sulle rotte per terra e per mare. Ci puoi dare delle chiavi di lettura per leggere i rapporti tra gli sviluppi bellici e le migrazioni?
Sono molto collegati, basta dire che secondo l’UNHCR dopo la guerra in Ucraina e, successivamente, anche a causa di quella Gaza, il numero di profughi di guerra nel mondo ha superato i 100 milioni ed è un numero che, secondo molti osservatori, potrebbe essere perfino superiore al totale dei profughi di guerra della Seconda guerra mondiale (a quel tempo non c’erano statistiche affidabili). Il punto è che nel tempo in cui noi pensavamo di vivere in un contesto di pace, con alcuni conflitti, invece, scopriamo che la Terza guerra mondiale, combattuta a pezzi, denunciata tante volte da Papa Francesco, è un fatto. I profughi ucraini sono circa 12 milioni tra profughi esterni e sfollati interni. Poi ci sono due milioni di persone a Gaza e arriviamo a 14, possiamo arrotondare a 15. Allora la grande domanda è: «dove stanno gli altri 85 milioni di profughi di guerra e da quali guerre scappano?» quando vai a guardare dentro ai numeri e alle questioni, per questo parlavo all’inizio di necessità di dare un contesto ai fatti, scopri che ci sono molti conflitti dimenticati e altri che, invece, abbiamo voluto dimenticare per rimuovere anche le nostre responsabilità dirette.
Un esempio: la guerra in Afghanistan. Nel 2001 si dichiarava guerra all’Afghanistan per sconfiggere i talebani, Al Qaida e Bin Laden. Noi siamo scappati un paio di anni fa con gli aerei militari e tutti ricorderanno le immagini della gente che si attaccava al carrello degli aerei per scappare da Kabul e moriva in questo modo, perché noi siamo andati via con la coda tra le gambe. Quindi abbiamo perso la guerra, anche se nessuno si è preso la responsabilità di usare le parole che andavano adoperate, giusta o sbagliata che fosse. Premesso che non credo che esistano guerre giuste, ce ne siamo andati, ma quel conflitto dal 2001 a oggi ha prodotto più di 15 milioni di profughi, che vivono fuori dall’Afghanistan e bisogna considerare che più di metà di questi profughi, in realtà, sono nati fuori dall’Afghanistan; quindi, è gente che non ci ha mai messo piede nel Paese d’origine. È ovvio che adesso chiedono, vengono a bussare alle porte d’Europa, soprattutto attraverso la rotta balcanica e noi abbiamo deciso di chiudere queste porte, senza però assumere la responsabilità di domandarci, o almeno aprire un dibattito per dire: quando nel 2001 abbiamo deciso di andare in Afghanistan per fare una guerra, abbiamo considerato che questa guerra avrebbe prodotto dei profughi? Oggi che noi, “civiltà” occidentali, abbiamo perso, nonostante la nostra potenza di fuoco, la guerra in Afghanistan e i talebani hanno preso il potere e siamo dovuti scappare, per quale ragione queste 15 milioni di persone dovrebbero tornare in Afghanistan per farsi schiacciare dai talebani? Allora è ovvio che proveranno ad andarsene e sperare in una vita migliore.
Nel dibattito pubblico non vedo questa capacità di mettere in connessione diretta i fatti e allora si tengono separati i temi: l’invasione del migrante e i talebani che stanno in Afghanistan, come se fossero fatti separati e non collegati. Lo stesso vale anche per l’Africa. Concludo dicendo che non sono di quelli che sostengono che tutti i migranti che si trovano, per esempio, sulle coste libiche debbano venire in Europa. Non ho mai detto né scritto questo, per quanto si tratti di numeri sopportabilissimi da un continente di 400 milioni di persone. Però non posso accettare che per tenere queste persone ferme, bloccate sulle coste libiche, per impedirgli di raggiungere l’Europa, noi paghiamo letteralmente i trafficanti di uomini, le mafie e le organizzazioni criminali nordafricane, in particolare quelle libiche, perché trattengano queste persone, disinteressandoci del modo con cui sono trattate.
Sono più di 20 i rapporti della Corte Penale Internazionale sui crimini commessi contro i migranti in Libia dalle autorità libiche, non quindi da trafficanti nascosti in un casolare, ma dalle autorità libiche che sono legittimate e finanziate dall’Italia e dall’Europa. Perciò quando si dice come in queste settimane ascolto: “è diminuito il numero delle partenze dalla Libia”, io posso anche pensare che sia una buona notizia, ma devo anche farmi una domanda successiva: chi non parte in che condizione si trova? Se io fossi al corrente del fatto che il denaro delle tasse degli italiani viene utilizzato per trattenere le persone in Libia in condizioni di rispetto dei diritti umani minimi fondamentali, probabilmente non ci sarebbe più il dibattito. Purtroppo, il dibattito c’è perché le persone continuano a essere torturate, abusate, schiavizzate, nel nostro interesse e io penso che noi abbiamo il dovere di continuare a denunciare questo corto circuito.
Sulla scorta degli incontri che hai fatto, quali questioni, anche antropologiche, sono in gioco nella guerra e nel migrare?
Spesso i due tipi di esperienza sono sovrapponibili. Ci sono questioni antropologiche che riguardano noi; penso, ad esempio, al fatto che l’Europa, così come la conosciamo, nasce e rifiorisce dopo la Seconda guerra mondiale, rifondandosi sulle convenzioni internazionali per i diritti dell’uomo e questo poi ha declinato tutta una serie di politiche nel nostro continente. Oggi questi diritti fondamentali sono messi in discussione da chi dovrebbe invece proteggerli, tutelarli, promuoverli, rafforzarli e ciò inevitabilmente comporta anche una trasformazione antropologica dei popoli, perfino nelle religioni, perché abbiamo visto agitare i rosari in alcune situazioni per giustificare delle politiche totalmente anticristiane. Questo continua ad accadere e ha a che fare molto con l’antropologia e con quello che saremo un domani se non riusciremo a renderci conto di quale danno stiamo facendo al nostro tempo e soprattutto al tempo futuro.
Lo stesso vale per i contesti di conflitto, perché questi conflitti, perduranti, dicono due cose, sbagliate, però le dicono alle popolazioni che le vivono: la guerra è una modalità di vita; penso a zone di conflitto come la Somalia, dove da più di quarant’anni non c’è un solo giorno in cui non si spara e, quindi, vuol dire che il 70% della popolazione somala è nata e ha vissuto sotto un tempo di guerra. Questo comporta, evidentemente, anche nelle scelte di vita, nelle relazioni quotidiane, il convincersi che non c’è altra via che non sia quella del conflitto e, laddove i conflitti vengono utilizzati come mezzo per risolvere le contese, trasforma le comunità locali, che in qualche modo arrivano a ritenere che quando c’è un problema lo si possa risolvere solo con la violenza; lo stiamo osservando soprattutto in Ucraina, dove tantissimi giovani (noi ne conosciamo centinaia) si sono trasformati perché sono diventati dei combattenti; dei combattenti che, a malincuore all’inizio e adesso qualche volta quasi con giubilo, ritengono che uccidere sia l’unica soluzione. In realtà bisogna distinguere tra chi lo fa e decide di uccidere perché ritiene che la guerra sia una strada e chi, invece, come è successo per esempio ai nostri partigiani, si è sentito costretto a uccidere per difendersi e per proteggere una comunità e promuovere anche un altro e un alto ideale. La differenza è tutta qui.
Pensare che il nostro Paese a quasi 80 anni dalla Seconda guerra mondiale non ha ancora chiuso del tutto i conti con la storia, dovrebbe farci riflettere su che cosa sarà in tutti quei paesi che stanno vivendo i conflitti oggi che, in parte, sono figli di quell’epoca e di quel mancato esame di coscienza collettivo dalla Seconda guerra mondiale ad oggi. Certamente queste esperienze determineranno le scelte politiche, la vita quotidiana delle singole persone, delle famiglie, perché chiunque ha avuto a che fare con un reduce e, basterebbe chiederlo, per esempio, alle tante donne italiane che hanno dovuto poi misurarsi con questi compagni e mariti che tornavano da anni sui campi di battaglia, sa che questa, inevitabilmente, condiziona anche la vita delle società. È questo che mi preoccupa di più dei conflitti, perché poi le guerre, qualche volta, finiscono ai nostri occhi, perché giriamo pagina, ma, in realtà, per chi la guerra l’ha fatta, le guerre non finiscono mai.
Un’ultima domanda: Conoscendo le ACLI e quello che fanno, dal tuo punto di vista, quali prospettive vedi percorribili per un’azione che possa coinvolgere le persone e le istituzioni a lavorare per la pace?
Ho un fortissimo senso del limite, per cui dico sempre che un giornalista deve limitarsi a fare il giornalista. Già è una responsabilità gigantesca quella di chi scrive le prime bozze della storia, poi, essendo bozze, come può succedere, si possono anche cestinare. Bernardo Valli, un grande inviato di guerra del ‘900 e che, ultranovantenne, ancora ci regala le sue riflessioni quando può, ha titolato «la verità del momento» un suo libro di raccolta di reportages. Quindi noi già abbiamo una responsabilità gigantesca che è quella di provare a raccontare e a testimoniare la verità del momento.
Non mi sento di dire che cosa altri possano e debbano fare, però, se penso alle ACLI, penso che il custodire e tramandare la memoria che tante volte vedo negli incontri quando vengo invitato nei circoli e l’incontro tra generazioni che si scambiano e si tramandano la memoria io lo trovo essenziale, perché mi ha sempre dato una prospettiva di futuro; anche il coraggio che hanno avuto le ACLI in alcuni momenti di dire “no, noi queste cose non le facciamo, perché non ci interessa avere una tessera in più o un circolo vivace in più se poi dobbiamo scendere a compromessi con chi magari promuove i saldi per i diritti umani fondamentali”; già questo credo che sia un’opera importante.
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