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Numeri alla mano, le spese europee in armamenti, senza cioè la Gran Bretagna, sono già il triplo di quelle russe. Una razionalizzazione del settore dovrebbe comportare una drastica riduzione di spese assieme all’eliminazione della concorrenza tra i Paesi europei sempre in prima fila nelle fiere di armi. Investire in armi, inoltre, non conviene in termini occupazionali e di ricerca tecnologica come mettono in evidenza studi approfonditi che meritano un discussione pubblica. Ma l’argomento resta un tabù anche se in materia è stato avviato da alcune associazioni e centri di ricerca un laboratorio di riconversione per una politica industriale di pace. Per non essere velleitari sulla guerra e sulla pace, occorre mettere in discussione le scelte strutturali del “sistema Paese”.

La politica industriale del nostro Paese è determinata dalle grandi imprese controllate dal capitale pubblico. Lo dimostra l’incidenza sulla politica energetica da parte dell’Eni guidata da oltre un decennio da Claudio De Scalzi. La storia di Finmeccanica, rinominata Leonardo nel 2017, è contrassegnata da una progressiva dismissione di attività produttive di alta tecnologia in campo civile a favore del comparto delle armi. Una volontà politica trasversale esercitata a partire dalla fine del secolo scorso.

Prendiamo degli esempi recenti. L’Ansaldo Breda e l’Ansaldo Sts, che operavano nel settore ferroviario e metropolitano, rispettivamente nella costruzione treni e nei sistemi di segnalamento e automazione, sono state cedute dalla Leonardo alla multinazionale giapponese Hitachi nel 2015.

A giugno 2024 Leonardo e Invitalia (agenzia di proprietà del Ministero dell’Economia), hanno svenduto l’Industria Italiana Autobus controllata congiuntamente dal 2018, rinunciando al rilancio pubblico di una produzione nazionale decisiva per la mobilità urbana sostenibile. La nuova proprietà conta su un socio cinese per il rilancio dell’attività.

I numeri del Sipri di Stoccolma hanno registrato, di anno in anno, la crescita dell’Italia nella classifica mondiale dei primi 10 Paesi esportatori di armi nel quadro del riarmo progressivo arrivato alla svolta epocale del 24 febbraio 2022. L’aggravarsi della controversia tra Kiev e Mosca fino all’invasione militare russa dell’Ucraina, ha trovato le parti pronte ad affrontarsi in un conflitto di logoramento con migliaia di vittime e la necessità di una costante fornitura di armi.

La guerra annunciata nel cuore dell’Europa non ha trovato preparati, invece, i vertici Ue e dei maggiori Paesi a proporsi come attori credibili di mediazione e risoluzione del conflitto. Un solo giorno più di orrore offre ragioni per non tornare più indietro. Proposte ragionevoli come quelle di autorevoli ex diplomatici italiani non si sono sottratte al pregiudizio, dominante nei principali media, di concorrere a riprodurre il complesso di Monaco 1938, il cedimento delle democrazie liberali verso Hitler.

La particolare congiuntura storica del febbraio 2022 ha trovato in Italia un presidente del Consiglio che si è fatto interprete di un europeismo fortemente atlantista. Mario Draghi ha parlato di «un cambiamento di paradigma nella geopolitica» in cui Unione europea e Stati Uniti esprimono «un legame senza tempo che ci rafforza entrambi». E nel discorso pronunciato a Washington l’ 11 maggio 2022 in occasione del ricevimento dell’ Atlantic Council Distinguished Leadership Award, ha ribadito la necessità di continuare a sostenere l’esercito ucraino che ha «obbligato la Russia a un conflitto più lungo e logorante, grazie anche alla nostra assistenza militare» fino a quando gli ucraini stessi decideranno i termini di una pace giusta. Draghi parlava in quel momento di “un vantaggio strategico di Kiev”.

Il venir meno di questa certezza, secondo gli analisti dell’Istituto Affari internazionali, costituisce un motivo in più per aumentare le forniture belliche all’Ucraina. Secondo questa tesi occorre evitare lo sfondamento possibile dei russi verso un Paese della Nato, l’indicibile punto di non ritorno.

Il governo italiano ha negato ogni coinvolgimento possibile con l’invio di truppe nel conflitto in corso in Europa centrale, ma lo stesso ministro della Difesa, Guido Crosetto, riconosce che il momento storico attuale «sembra un ritorno in chiave tecnologicamente evoluta agli orrori dei conflitti mondiali del secolo scorso». Come ha affermato a gennaio 2023, davanti alle commissioni parlamentari esteri e difesa, non è più possibile confinare il nostro intervento militare solo nelle missioni internazionali di pace ma anche, «secondo l’evoluzione dottrinale della Nato», nella capacità operativa multi dominio ovunque siano minacciati i nostri interessi vitali e dell’alleanza di cui siamo parte.

Secondo il ministro, già presidente dell’Associazione delle aziende la Difesa e aerospazio, gli investimenti nel settore sono un «formidabile volano di crescita per il Paese». A chi obietta che la spesa in armi sottrae risorse a quella sociale e della salute, Crosetto risponde di chiedere all’Ue di estromettere gli investimenti in armi dal computo del patto di stabilità ripristinato in Europa.

«Mettere l’economia in assetto di guerra» è la direttiva riassunta esplicitamente dal presidente del Consiglio d’Europa Charles Michel per indicare la linea ribadita con Ursula von der Leyen confermata alla presidenza della Commissione europea dopo le elezioni europee di maggio 2024. Nel rapporto sulla competitività europea redatto su incarico della von der Leyen, Mario Draghi ha ribadito la linea della crescita degli investimenti nel settore della difesa orientando in tal senso le politiche di prestito della Banca europea degli investimenti. Solo in tal modo l’Ue potrà poter «tenere il passo con i suoi concorrenti globali».

Numeri alla mano, tuttavia, le spese europee in armamenti, senza cioè la Gran Bretagna, sono già il triplo di quelle russe. Una razionalizzazione del settore dovrebbe comportare una drastica riduzione di spese assieme all’eliminazione della concorrenza tra i Paesi europei sempre in prima fila nelle fiere di armi come la World Defense Show che si è tenuta in Arabia Saudita nel febbraio 2024.

Investire in armi, inoltre, non conviene in termini occupazionali e di ricerca tecnologica come mettono in evidenza studi approfonditi che meritano un discussione pubblica. Vedasi il dossier “Economia a mano armata” di Sbilanciamoci e Geenpeace e il dossier di Simoncelli – Alioti «Più armi più lavoro? Una falsa tesi».

Ma l’argomento resta un tabù anche se in materia è stato avviato da alcune associazioni e centri di ricerca un laboratorio di riconversione per una politica industriale di pace. Una prospettiva alternativa a quella promossa con altri strumenti dalla Fondazione Med-Or di Leonardo con la partecipazione di numerosi accademici. In precedenza aveva avuto vita breve il centro studi promosso, negli anni 80 dalla Cattolica di Milano per sostenere l’applicazione della legge 185/90 nella parte i cui prevede la riconversione industriale dal militare al civile. Quella legge nata per porre un divieto all’esportazione di armi nei Paesi in guerra è stata più volte aggirata in tanto modi ma ha permesso a partire dal 2019, grazie ad una mobilitazione dal basso, di fermare l’invio in Arabia Saudita di missili e bombe prodotte in Italia da una società controllata dalla tedesca Rheinmetall defense. Il divieto è stato rimosso a maggio 2023 dal governo Meloni nel clima generale di riarmo che vede la multinazionale germanica tra i beneficiari della svolta operata in tal senso dal cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz.

Lo svuotamento della legge 185/90, nata con il sacrificio dei lavoratori obiettori alla produzione bellica, è uno degli obiettivi di ambienti politici e imprenditoriali.

Come ha messo in evidenza Massimo Cacciari in un dibattito promosso su La Stampa, «la domanda da porre alle nostre leadership è questa, molto semplice, ed esse dovrebbero rispondere altrettanto nettamente: ritenete che la situazione attuale non presenti alternative alla escalation?». In caso di risposta positiva secondo il filosofo ed ex sindaco di Venezia, ne consegue che «se guerra ha da essere che guerra sia». Altrimenti l’Europa dovrebbe essere per gli Usa un «vero alleato e non un obbediente vassallo, capace di porre con realismo alcune questioni strategiche e di cercare insieme risposte altrettanto realistiche».

Esiste un soggetto politico capace di assumere questo ruolo? Serve a poco limitarsi a citare papa Francesco. Sul piano delle scelte strutturali resta sempre valida una domanda posta da Federico Caffè nel 1983 su Il Manifesto che spiega molto dell’isolamento vissuto dal grande economista “scomparso” nel 1987: «in definitiva, si tratta di stabilire se il nostro Paese «ritardatario» debba proporsi e perseguire ideali amministrativi di bonifica ambientale, di eliminazione del persistente sfasciume geologico, di elevazione del grado di qualificazione professionale dei giovani in cerca di lavoro, di ricerca impegnata di nuove possibilità di impiego; o se intenda essere pedina di altrui imperialismi, svolgendo inoltre questo ruolo di sovranità limitata con la ben nota «cupidigia del servilismo» di cui già altra volta gli è stato mosso addebito».

Per non essere velleitari sulla guerra e sulla pace, occorre mettere in discussione le scelte strutturali del “sistema Paese”.

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