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“C’è chi insegna guidando gli altri come cavalli, passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto così guidato.
C’è chi insegna lodando quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.
C’è pure chi educa senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo,
aperto ad ogni sviluppo ma
cercando d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato” (Danilo Dolci, Poesia diversa, 1974)

Nella seconda parte della “Poesia Diversa” e nelle qualificazioni professionali secondo me c’è tutto quello che c’è da dire su Danilo Dolci (nella foto presa da: https://www.facebook.com/danilodolci/) e sulla sua eredità, a cento anni dalla sua nascita.

Dico subito che non so quanto la mia lettura sia filologicamente attendibile ed aggiungo che è fortemente condizionata dai miei interessi attuali e dagli interrogativi che mi ha posto Danilo da una decina d’anni ad ora e da quel che potuto vedere nel Belice nel 1968 e nell’estate del 2016 insieme a Lorenzo Bottiglieri che raccoglieva il materiale per la sua tesi in architettura all’Università di Torino. Ho organizzato il mio contributo intorno a cinque parole chiave, per ciascuna delle quali sono più gli interrogativi aperti per noi che non una eredità da raccogliere. Le cinque parole sono: poesia, Maieutica ed educazione, Non violenza, Fondare città, la Regola.

Poesia

Al primo posto tra le qualifiche di Danilo e delle qualifiche di un educatore che voglia seguire il suo metodo c’è la poesia, quella lirica che intendo come il risultato di una visione contemplativa, quello stato di muta adesione tra soggetto e oggetto tra chi guarda e chi è guardato, quello stato che consente di stabilire legami tra persone e cose che vanno oltre la pura razionalità che vanno oltre il rapporto che, come lo descrive Hegel, è violento tra il soggetto ed il concetto da un lato e la “materia” dall’altro. Quel tipo di connessioni che vivono anche nel sogno e nel desiderio e consentono una comunicazione interumana autentica e quindi – come chiarirò nel seguito – lo sviluppo di pensieri generativi.

La contemplazione e l’attività poetica, lungi dall’essere negazione dell’azione, sono attività generatrici di un tipo di azione che modifica principalmente il soggetto che le compie piuttosto che puntare alla trasformazione delle cose. Attività “aperta ad ogni sviluppo,” il centro di un sapere aperto basato sulla consapevolezza di sé , che è franco a se stesso e all’altro e fa i conti con il mondo, con l’assurdo che è nel mondo. La poesia e il sogno hanno lo stesso ruolo del desiderio: pensare gli altri e il mondo come oggi non sono.

Helen Christie dell’Istituto Waals di Oslo il 5 febbraio 2000, riferendo ai Maestri di strada su “Gruppi a valenza terapeutica con bambini e adolescenti traumatizzati o a rischio” disse tra l’altro che la loro unità di strada comprendeva un “poeta” oltre ad uno psicologo ed un videomaker.

Nella prospettiva di Danilo sognare le persone e le cose come oggi non sono è una idea del tutto nuova rispetto alle tesi marxiane dello sviluppo come rottura – anche violenta – delle forze produttive contro le catene dei rapporti di produzione basati sul dominio. Dolci si occupa di come le persone prendono coscienza di sé, di come imparano che è possibile compiere imprese complesse, che le classi dominanti non solo non compiono ma in relazione alle quali hanno anche inculcato nei sudditi l’idea che siano impossibili e comunque fuori della portata dei poveri e degli analfabeti.

Nelle azioni di lotta di Danilo non c’è mai solo la rivendicazione, ma la costruzione, la generatività, la presa di coscienza che qualcosa che oggi non c’è non solo è possibile ma che si ha il potere di generarla, vederla e progettarla. Valga per tutti l’esempio dello sciopero alla rovescia: lavorare alla trazzera di Partinico è un momento di presa di coscienza della pochezza del potere e della forza generatrice dei braccianti e lo capiscono molto bene anche le autorità che cercano a tutti i costi di criminalizzare l’iniziativa.

Maieutica ed educazione

Dove e come crescono le idee che partoriamo? Socrate propone tre caratteristiche per il saggio: conoscere sé stesso, dialogare, e l’arte maieutica. Rileggendo oggi queste tre posizioni indipendentemente dalla sovrastruttura filosofica del tempo possiamo chiederci, quale è la fonte della conoscenza? La risposta più ovvia è l’esperienza. E cosa ci impedisce di apprendere dall’esperienza? Sono gli ostacoli interni. Il fatto che non conosciamo abbastanza noi stessi per renderci conto di quali ostacoli la nostra psiche oppone ad apprendere. La coscientizzazione di Dolci risponde almeno in parte a questa domanda.

Il dialogo, interrogare ed ascoltare l’altro è fonte di vera conoscenza, perché possiamo vedere nell’altro quello che non riusciamo a vedere in noi stessi. Bisogna avere una fiducia sconfinata che l’Altro, per quanto sia diversa la sua esperienza e la sua cultura è abbastanza simile a noi da poterci fornire nuove chiavi di lettura dell’esperienza.

Mi piace a questo proposito citare un altro autore che è stato importante nella formazione dei Maestri di Strada, Andrea Canevaro. Interrogato su un possibile mito fondativo per l’educazione di oggi, dice che questo potrebbe essere quello del viandante, come lo si ritrova in molte religioni, nelle storie che si raccontano ai bambini e nella singolare esperienza dei ‘coureur de bois”: «…. francesi che giravano l’America del nord e venivano chiamati “coureur de bois” … coloro che andavano in giro per i boschi … e sapevano che la loro sopravvivenza era legata al fatto che potessero trovare qualcuno con cui fare amicizia …. non c’era l’idea “incontro dei nemici…… umani che sono umani fino ad un certo punto” …. ma devo incontrare qualcuno con cui fare amicizia. … un viandante che non entra in contatto per colonizzare, per fare il padrone ma al contrario … per prendere le misure di un territorio a lui sconosciuto dove poteva incontrar qualcuno che invece conosceva quel territorio. Ecco il viandante diventa un mito fondatore formidabile che si ritrova in moltissime storie…» (Canervaro).

Pedagogie del viandante “aperto ad ogni sviluppo” perché viandante è propriamente colui che non ritorna sui suoi passi. “Io sono un viaggiatore e un navigatore e ogni giorno scopro una regione nuova nella mia anima” (Kahlil Gibran).

Nell’esperienza di Dolci, il dialogo sono le inchieste popolari, è andare insieme a vedere quale è il punto più adatto alla diga sullo Iato, fare insieme il censimento delle colture più adatte, della collocazione delle strade. Tecnicamente oggi si direbbe che il dialogo è basato sull’esistenza di una “comunità di pratica” in cui ciascuno sente attraverso la pelle un’esperienza significativa.

Nella foto il tavolo del dialogo nel Borgo di Dio a Trappeto. La forma circolare piuttosto che quella classica del tavolo che fronteggia il pubblico fa capire anche spazialmente che il dialogo e la maieutica nell’esperienza di Danilo sono esperienze circolari, che attraverso la reciprocità fondano una comunità.

 

 

Il dottor Bion fece la pima esperienza dei gruppi durante la seconda guerra Mondiale con ufficiali traumatizzati dall’esperienza della guerra e da importanti ferite nel corpo. Da questi gruppi ad un certo punto veniva fuori una visione che consentiva a ciascuno di riprendere se stesso ed il proprio posto nel gruppo. Bion usa espressioni inusitate come “far accadere il pensiero” “un’idea fluttua nell’aria in attesa che qualcuno la prenda” ”pensieri senza pensatore”.

Maieutica, arte della levatrice, aiutare la nascita. È l’ultimo atto di un processo di gestazione, di un processo generativo. Il dialogo, l’indagine, il confronto nel gruppo e nel gruppo dei gruppi è fondante del processo generativo. Nel lavoro di gruppo c’è una fecondazione reciproca; se usiamo come metafora i processi naturali, si tratta di una fecondazione anemofila, ossia prodotta dal vento, nel nostro caso “il vento” è una atmosfera onirica, Il tentativo di tradurre il sogno in progetto reale. La tensione creativa si stabilisce quando il sogno incontra il gruppo.

Dolci usa spesso l’espressione “quello che oggi non è”, sognare quello che non è significa progettare quello che non è. Il processo creativo non è la prosecuzione di quello che è ma la creazione di quello che non è. “Quello che non è” deve essere pensato, sognato ed è quello che accade quando attraverso l’azione il singolo si rende conto di avere dei poteri, quando rimuove gli ostacoli interni che gli impediscono di immaginare qualcosa che oggi non è. Le azioni di lotta hanno lo scopo principale di ottenere un cambiamento nelle coscienze. È qualcosa che somiglia da vicino all’operazione che è alla base del teatro dell’oppresso ed è alla base delle multivisioni adottate dai Maestri di Strada: rimuovere gli ostacoli interiori che impediscono il pensiero. Il principale alleato dell’oppressore è la mente dell’oppresso.

Nella metodologia dei Maestri di Strada l’ascolto delle voci dal campo à diventato metodo fondato insieme sui principi della ricerca-azione e sulla psicoanalisi dei gruppi derivata da Bion e Balint. In questo metodo si fondano insieme il “conosci te stesso”, il dialogo, l’arte maieutica che consente di generare pensieri trasformativi.

Ciascuno cresce solo se sognato”

Santa Parrello, responsabile delle attività di pensiero dei maestri di strada e prof.ssa dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, ha tenuto una memorsbile conferenza al terzo congresso internazionale della trasformazione educativa, che si è tenuto a Vera Cruz (Messico), nell’agosto 2017. Voglio riportare alcuni passaggi che ritengo particolarmete significativi.

«Nella la società ipermoderna, si moltiplicano le periferie, luoghi in cui viene collocato ciò che la società non vuole vedere, i “resti” dei processi socioeconomici spietati. Povertà, degrado, violenza vengono confinati nelle periferie e se vi rimangono non fanno scandalo. Chi vive in periferia tende a interiorizzare la marginalità, crede spesso di meritarla e che non vi sia rimedio: non aspira ad altro.

Come organizzare un lavoro educativo efficace in questo contesto?

L’ipotesi di partenza della ricerca-azione dei MdS è che per riattivare il desiderio di apprendere e di scegliere in adolescenti che hanno disinvestito dalla scuola, occorre:

  1. a) aver cura delle relazioni dentro e fuori la scuola, quindi aver cura di chi cura (genitori, insegnanti, maestri di strada) oltre che degli stessi adolescenti
  2. b) scovare e costruire la bellezza in ogni contesto, anche il più degradato (ad esempio utilizzando laboratori artistici: fotografia, pittura, musica, teatro)
  3. c) sognare gli adolescenti e il mondo “come ora non sono”: non fornendo sogni preconfezionati ma alimentando il sogno di ogni adolescente, facendo attenzione alla sua “sostenibilità”.

Fulcro della metodologia è l’utilizzo del gruppo, dispositivo per aver cura dell’intersoggettività, dell’interdiscorsività, del pensiero. Ogni settimana gli operatori di MdS si incontrano all’interno del gruppo multivisione, ispirato al tipo di gruppo che Balint mise a punto per sostenere il lavoro usurante dei medici.

Nella relazione educativa può accadere all’educatore quanto Balint aveva descritto per il medico, cioè che si può trasformare da rimedio in veleno, diventando dannoso per sé e per i suoi allievi. Se poi la relazione educativa si svolge in contesti e situazioni intrisi di ingiustizia, sofferenza, violenza, il carico delle emozioni è davvero eccessivo per il singolo educatore»,

Antonella Zaccaro, una delle psicologhe che lavora nei gruppi riflessivi di Maestri di Strada, presenta molto bene la metodologia della multivisione che consente di apprendere dall’esperienza, dalla strada. “Il Gruppo Multivisione predispone i protagonisti della relazione educativa a non agire senza ascoltare e senza riflettere sulle emozioni che provano, promuovendo il pensiero tramite “un’atmosfera di libertà tale da permettere a ogni membro di esprimere non solo il proprio parere, ma tutte le impressioni, gli entusiasmi, gli scoraggiamenti, i dubbi e i timori, senza alcuna preoccupazione e senza alcun affanno di giungere a conclusioni ben definite. […] Scopo del lavoro di gruppo è approfondire la comprensione della situazione problematica e non trovarne la soluzione. I partecipanti al gruppo saranno quindi […] disincentivati a fare domande dirette e a dare consigli pratici” (Pergola, pp. 34-35).  (Nella foto – Multivisione dei Maestri di Strada – 21 dicembre 2021)

 

Nel Gruppo Multivisione

  • L’invito è a “non parlare di ciò che si sa ma di ciò che si sente” L’oggetto della discussione proviene -… da interventi orali elaborati sulla base delle suggestioni provenienti dal gruppo o dai resoconti dell’osservatore.
  • I racconti sono frutto di quel pensiero narrativo che permette di dare senso alle azioni, collocando il Sé, personale e professionale, entro una trama individuale e insieme intrisa di cultura, strutturata e stratificata, ma anche aperta a nuove spiegazioni e possibilità (Bruner, 1996; 2002). Essi costituiscono lo strumento privilegiato per attivare la riflessività del gruppo
  • Il Gruppo Multivisione, dunque, attiva un pensare che sostiene le fragili identità professionali degli operatori dell’educazione e il loro difficile lavoro sul campo, ma attiva anche un sognare che è indispensabile per chiunque voglia crescere e fare crescere.

Non a caso il verso di Danilo Dolci “ciascuno cresce solo se sognato” accompagna i maestri di strada fin dalla nascita del Progetto E-vai.

  • «Il gruppo viene così addestrato ad apprendere dalla propria esperienza, a rinunciare alle spiegazioni rassicuranti e a tollerare il dispiacere di non riuscire a capire e di non sapere che cosa fare, almeno fino al momento in cui diventi possibile avere una più chiara comprensione della situazione. Questo è ciò che Balint ha chiamato il “coraggio della propria stupidità”».
  • Il conduttore, come un direttore d’orchestra (Ancona, 2004), svolge una funzione di contenimento promuovendo e proteggendo il clima di fiducia, cerca di attivare la comunicazione sostenendo i pensieri trasformativi.

Dolci per dieci anni insieme ai contadini e agli analfabeti, intorno al tavolo circolare del Borgo di Dio e ai cinque centri studi che ha costituito con i soldi del Premio Lenin per la pace, ha costruito il “piano di sviluppo organico” delle tre valli della Sicilia occidentale. Sviluppo organico non è altro che il nome dato da Danilo alla complessità, un progetto in cui tutto si tiene, le dighe, gli acquedotti, la scelta delle colture, l’equilibrio tra seminativi, colture irrigue, ortaggi, frutta, foraggi e il sistema stradale e in generale le infrastrutture e i servizi, tutto sottoposto all’inchiesta popolare, allo studio minuzioso del territorio… C’è un’idea diversa di città: una “città territorio” in cui le funzioni urbane sono distribuite piuttosto che accentrate.

Nella notte del 15 gennaio 1968 il terremoto con 296 morti, 1000 feriti, 100 mila senza tetto interrompe il processo di elaborazione ma non quello di mobilitazione se è vero che dopo appena 46 giorni il 2 marzo del 1968 i terremotati, dopo un lungo viaggio in treno, vanno in Piazza Colonna, davanti al Parlamento, incontrano gli studenti che hanno dato inizio alla loro rivolta e chiedono al Presidente del Consiglio Aldo Moro una legge per la ricostruzione e assediano il parlamento finché non viene approvata la legge ancora oggi vigente. Danilo su quel treno non salì. Ci fu una polemica che dura tuttora, con spiegazioni dietrologiche che non voglio neppure prendere in considerazione.

Dolci, come mi ha riferito Lorenzo Barbera nell’intervista dell’agosto 2016, considerò quella manifestazione una premessa della violenza. Barbera protesta che mai la violenza fu usata o semplicemente evocata. La questione secondo il mio punto di vista non è questa.

Nonviolenza

La domanda non è quando si vuole usare la violenza ma quando è che un discorso diventa violento. Il momento in cui viene chiesto “da che parte stai” è un momento violento perché ci vuole trascinare nella logica binaria della guerra. La pace non può essere sequestrata da una delle parti in lotta come per troppo tempo è accaduto – ed il Premio Lenin per la pace, conferito dall’Unione Sovietica, è parte sostanziale di quella stagione -non appartiene all’ordine del discorso ma all’ordine della convivenza, parla ad entrambi i contendenti e vorrebbe educarli, vorrebbe che si tirassero fuori dai pensieri coatti, cattivi, che li hanno portato allo scontro.

Ma c’è di più il discorso, in greco logos che istituisce “l’ordine del discorso” è di per sé violento perché concettualizzare l’esperienza significa amputare l’esperienza stessa delle sue connotazioni emozionali, personali e relazionali. Chi si arroga il diritto di “fare sintesi” si arroga il diritto di esercitare un certo grado di violenza sulla complessità del reale per ficcare il reale in un contenitore concettuale. Ma si arroga anche il potere di interrompere quel flusso continuo di interazioni e reciprocità tra i soggetti viventi e la realtà.

Nel quadro della maieutica così come l’ho appena descritta credo di capire perché Dolci ha ritenuto che la lotta per la ricostruzione, per come si andava strutturando nell’inverno del 1968 fosse una operazione violenta, Nella mia lettura – violenza non ha il senso letterale della violenza verso le istituzioni o i loro rappresentanti – la violenza è contro il movimento stesso perché ha operato una rottura del processo educativo per concentrarsi sulle azioni “contro”, perché dichiarando fuorilegge i governanti, aveva stabilita la linea rossa che sul campo di battaglia separa irrimediabilmente amici e nemici.

Il successivo impegno di Danilo concentrato sulla poesia e sull’attività educativa – l’esperimento pedagogico della scuola di Mirto – è il segno preciso di una volontà di concentrarsi sui processi di crescita personale piuttosto che sui processi “rivendicativi”. Nell’intervista dell’agosto 2016 Lorenzo Barbera dice: “noi non potevamo non fare quello che abbiamo fatto, perché non era la mia volontà ma quella di un popolo”.

Il terremoto del 68 viene dopo dieci anni di lavoro maieutico, ma la levatrice della ricostruzione non è l’assemblea popolare, ma un “meritorio” movimento di piazza coordinato da sindacalisti, politici, intellettuali “illuminati” .

Marx nel capitolo 24 de “Il Capitale” aveva detto: «la violenza è la levatrice di ogni vecchia società gravida di una società nuova» e sappiamo che questo è storicamente fondato, che la violenza rompe i rapporti sociali precedenti quando questi impediscono la “vita”. In questo caso è lo Stato stesso che si riappropria del suo ruolo decisionale “violento”, che gli stava sfuggendo di mano negli anni del Piano di Sviluppo Organico, usando le richieste stesse del movimento. E questo è un interrogativo che ci resta: ha ragione Lorenzo Barbera quando dice che non si poteva non fare, e ha ragione Danilo Dolci quando dice che è un’azione violenta.

Quando i bisogni materiali prendono il sopravvento, quando emozioni violente sovrastano la possibilità di articolare un discorso razionale, è possibile proteggere il processo creativo?

Secondo l’analisi critica della violenza: La violenza è l’illusione del finito prodotta dall’incapacità dell’intelletto di cogliere la totalità del processo.” Ed è proprio quello che è successo nel Belice quando ad un “piano di sviluppo organico” basato sulla interdipendenza, sulla partecipazione e sulla complessità si è sovrapposta una “banale” legge di ricostruzione.

C’è un detto orientale, di cui non saprei rintracciare l’origine, che più o meno recita: non uccidere, ma se proprio sei costretto a farlo, non strappare il nemico dal tuo cuore. E leggo questo aforisma tenendolo a confronto con una osservazione di Vittorio Morfino – che è professore di Storia della filosofia nel Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione Riccardo Massa della Bicocca – contenuta nell’articolo “La sintassi della violenza tra Hegel e Marx” e che rimanda alle posizioni di Ernst Bloch: “la violenza “accade” per “una contingenza attraversata da una necessità superiore”. “Nemmeno per un attimo Hegel si sofferma su ciò che la violenza distrugge, su ciò che dalla sua azione è cancellato per sempre, perché l’ordine del discorso vieta la disperazione di fronte all’abisso del dolore, di una perdita secca non recuperabile alla dialettica del processo, che la violenza provoca”.

Ci sono momenti in cui è necessario forzare la mano, in cui una “necessità superiore” impone la sua forma al reale, ma non bisogna mai dimenticare le ragioni dell’altro, non bisogna dimenticare che la cosa più importante di tutte non è la vittoria sul nemico ma sono i processi di partecipazione e presa di coscienza delle persone.

Nel Belice il dopo terremoto ha imposto una “necessità superiore” provocando nei fatti un cambio di leadership: dalle assemblee popolari ai sindaci illuminati, agli artisti, agli architetti che hanno costruito nuove città le cui piazze oggi il più delle volte hanno l’aria smarrita e desolata di una piazza di De Chirico.

La valle brulla e polverosa che ho visto nell’estate del 1968 nel 2016 è una valle verde di uliveti e vigneti, terra di vini doc, di frutta ed ortaggi, ma in quella che fu la sala delle assemblee popolari a Trappeto, nel 2016 ho visto crescere l’erba (oggi non è più così, in questi otto anni Daniela Dolci, l’ultima figlia di Danilo e Vincenzina sta ricostruendo il centro a partire da una fondazione da lei stessa costituita a Basilea) ma quella partecipazione non ritorna, l’acquedotto è passato definitivamente in mani “pubbliche” ma in realtà private che non rispettano le esigenze dei contadini, nella scuola di Mirto i banchi invece di guardare fuori a carrubi, ulivi, viti e i fiori che si alternano nelle stagioni, sono rivolti verso il muro dove campeggia la cattedra e il gande poster di un abete alpino.

La poesia e l’educazione sono la resistenza dell’umano contro l’avanzata inevitabile delle “necessità superiori” (“le magnifiche sorti e progressive” aveva detto Leopardi) e credo che Danilo ne fosse estremamente consapevole se ha scelto la poesia e l’educazione invece di salire su quel treno.

Sono sempre più convinto che il lavoro educativo oggi e particolarmente la sua componente relazionale e psicologica sia necessario per sostenere l’umano, per aiutare la vita di persone attaccate al tempo stesso dalla razionalità tecnica imperante e dall’assurdo e dalla violenza di cui è disseminata la strada della storia umana.

Sono convinto che le culture dominanti in Italia non siano in grado di accogliere questo messaggio di Danilo, tant’è che sono ancora alla ricerca di spiegazioni dietrologiche ad un fatto che mi appare linearmente evidente; non è in grado di accogliere il messaggio di Dolci, il popolo di sinistra schiavo dell’idea che le “necessità superiori” – peraltro organizzate secondo la bella trovata del “centralismo democratico” – possano e debbano essere immuni della disperazione del dolore; convinto che trovarsi dal “lato giusto della storia” giustifichi tutto. E non è in grado di comprendere il suo messaggio il popolo che una volta era organizzato nella DC perché anch’esso ha fatto proprio il principio delle “superiori necessità – ragion di Stato” – quando ha partecipato alla condanna a morte di Aldo Moro (era lui l’interlocutore del treno del Belice!) decretando la propria auto distruzione; tanto meno lo è il popolo di destra che pretende di rappresentare la razionalità economica e l’Autorità dello Stato incarnandone il volto violento che altri preferiscono preservare nello stato di immanenza.

Forse oggi nel terzo settore e in alcune correnti sindacali attente agli sviluppi della società civile, si va sviluppando una visione diversa quella del bene comune che non è l’interesse generale “sintetico” ma ciò che insieme uomini diversi curano ciascuno a modo proprio arricchendosi delle differenze. Una simile proposta era del tutto assente nel panorama politico e culturale del tempo. Forse oggi ci sono più spazi e più risorse per accogliere il messaggio di Danilo.

Fondatore di città

Un aspetto abbastanza trascurato nella conoscenza di Danilo Dolci è il suo ruolo nella costruzione di Nomadelfia. Anche in quel caso Danilo dopo aver costituito nella Maremma toscana l’avamposto della nuova Nomadelfia che si sarebbe traferita lì dopo essere stata sfrattata dall’ex campo di concentramento di Fossoli, lascia la comunità. L’occasione immediata è una disputa riguardante alcuni operai che hanno contribuito ad edificare Nomadelfia: richiedono di essere pagati perché le loro famiglie vivono fuori della “comunità”, ma Don Zeno non vuole perché a Nomadelfia non devono circolare soldi. Dolci sostiene le ragioni degli operai, ma soprattutto è il momento in cui dar riposta al suo cruccio di sempre: «Dopo un anno e mezzo di questa esperienza, fondamentale, in cui mi ero come ripulito ed essenzializzato, pur comprendendo come Nomadelfia non poteva crescere che ad un certo ritmo per mantenere le proprie qualità, la sentivo come un’isola, un nido troppo caldo che rischiava di compiacersi di sé. Incoscienza ed ispirazione si mescolavano in me quando mi domandavo: e il resto del mondo? »

Così, seguendo anche un consiglio del padre che era stato capostazione a Trappeto, se ne va a dormire sulla spiaggia di uno dei paesi più poveri della Sicilia.

A Nomadelfia ha cominciato da zero: costruendo per prima cosa un forno per la calce, organizzando la raccolta della legna per alimentare durante 7-8 giorni la calcara (30 mila fascine per una carica!) e reclutando operai per insegnare ai suoi compagni a costruire con la pietra locale piuttosto che non i mattoni come erano abituati. In questa operazione concettualmente semplice ma organizzativamente molto complessa c’è rappresentato un modo di affrontare i problemi in cui il sapere del luogo assume un ruolo importante anche nelle scelte tecniche ed insieme dimostra che l’attenzione alle piccole cose si collega immediatamente ad una visione del tutto, e della complessità che avrà pieno sviluppo durante il soggiorno in Sicilia.

Sul colle di Cefarello, Danilo resta per prima cosa un mese da solo – in contemplazione direi – e poi inizia il progetto cominciando dai luoghi sociali: la sala della Cultura e l’Agape. Come nella fondazione delle antiche città greche ed in quelle del medioevo, la città cresceva intorno all’edificio sacro (Ricordo in proposito i bellissimi libri illustrati di Lewis Mumford di cui quello della Cattedrale è uno dei più belli. Mumford è un irrequieto disciplinare ed è uno degli ispiratori di Danilo e suo sostenitore).

Quello che Dolci ha realizzato prima sul colle del Cefarello poi su quello di Trappeto non è una semplice opera urbanistica – quella del Cefarello restata incompiuta – ma è il rito fondativo di una comunità, che stabilisce il primato della civitas sull’urbe, che istituisce la comunità oltre i confini della città. È il Borgo di Dio, quello in cui – credenti o non credenti – alloggia una entità superiore, non l’istanza di superiori necessità ma l’istanza della popolazione di un territorio, come diciamo oggi noi maestri di strada “è il fuoco del villaggio che alimenta i focolai domestici e non il viceversa”. Costituire oggi piccoli e grandi luoghi comunitari corredati di una adeguata ritualità è l’unico modo per fare in modo che le nuove generazioni si sentano accolte e protette.

La “Regola”

Di fronte alle rovine della sala grande di Borgo di Dio e dopo aver visto grandiosi cambiamenti nell’intera valle ho formulato l’ultimo interrogativo: come è possibile mantenere in vita un metodo quando scompare il fondatore e l’animatore. È l’interrogativo che si sono posti i fondatoci dei grandi ordini monastici; il momento in cui veniva deciso il destino dell’ordine era quello in cui “il Santo” dettava la “Regola”. Danilo aveva dettato la sua regola: l’inchiesta, il dialogo, la maieutica, ma già quando era in vita non ci sono stati gli uomini in grado di applicare a se stessi e agli altri in modo rigoroso questa regola. Si dice che nella sua ultima cena Dolci abbia chiesto ad amici e collaboratori se avevano voglia di salvare il mondo.

Bisogna avere questa ambizione per ricevere la sua eredità. Ma temo che oggi nessuno possa confessare di avere una ambizione così grande senza finire in manicomio. Oppure possiamo pensare che per gli educatori “salvare il mondo” è l’unico compito realistico. Chiudo con Hannah Arendt: «L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti» (Hannah Arendt).

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