Secondo la più celebre massima del pensatore prussiano Carl von Clausewitz, la guerra non sarebbe altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi. Oggi, questa celebre definizione potrebbe essere integrata con la constatazione che la guerra è il fallimento della politica, in tutti i suoi mezzi, meno – per l’appunto – quello militare. A livello internazionale, ciò significa che il fallimento dell’ordine interstatale – quello che comunemente viene chiamato sistema internazionale – apre quasi inesorabilmente la strada a uno stato di guerra aperta. Naturalmente, la guerra può avvenire anche all’interno di un sistema internazionale o come conseguenza di esso.
Gli interventi armati deliberati dalla Santa Alleanza nella prima metà del XIX Secolo in vari stati europei, penisola italiana compresa, furono autentiche misure di polizia internazionale volte a preservare il sistema piuttosto che a decretarne il fallimento. Sulla stessa falsariga si possono leggere altri conflitti più recenti, quali gli interventi militari statunitensi in America Latina (Grenada, Panama) e Medio Oriente e Nord Africa (Afghanistan, Iraq, Libia), la cui radice affondava nella volontà della superpotenza leader del sistema internazionale di rimuovere regimi giudicati turbativi del suddetto ordine. Mentre la fattispecie di questi conflitti risulta interessante, ciò che deve riguardare maggiormente le preoccupazioni di chi si preoccupa per la pace mondiale sono i conflitti tra le grandi potenze. È in riferimento a questi che si è parlato prima di “fallimento del sistema internazionale” quale causa di guerra.
Nel corso della sua esistenza, l’Uomo si è dato vari tipi di ordine, basati su fondamenta differenti: legali, culturali, storiche, religiose. Ciò che tuttavia questi diversi tipi di ordine hanno avuto in comune è che la loro violazione ha aperto inevitabilmente la porta a fasi di violenza, conclusesi generalmente con l’assestamento di un nuovo ordine. Le relazioni internazionali non sono state esenti da questa tendenza. Con la conclusione delle guerre napoleoniche, l’Europa ha vissuto quattro decenni di relativa pace finché la Guerra di Crimea non ha rivisto le grandi potenze scontrarsi sul campo di battaglia. Ne sono seguiti vent’anni di conflitti ininterrotti, finché la disastrosa sconfitta francese nella Guerra Franco-Prussiana ha gettato le basi del “sistema bismarckiano” che ha stabilizzato il Vecchio Continente per altri quarant’anni. Il venir meno di quell’ordine innescò lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, a cui seguì il “sistema di Versailles” già debole e infragilito dalle rivalità delle potenze firmatarie. In capo a due decenni tale ordine entrò inesorabilmente in crisi sfociando in un’altra tragedia di proporzioni planetarie.
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, la nascita delle Nazioni Unite rispose alla percepita necessità di creare un sistema internazionale capace di evitare una nuova deflagrazione bellica mondiale. Ma, sebbene ammantata coi migliori principi del liberalismo internazionalista americano, l’assioma fondamentale alla base dell’ONU era sostanzialmente un accordo consortile tra le Grandi potenze. Un meccanismo simile, dunque, a quelli impiegati per pacificare l’Europa all’indomani delle guerre napoleoniche e della Guerra franco-prussiana. In questo contesto, l’aspetto organizzativo delle Nazioni Unite doveva tradursi nella formalizzazione effettiva di quella che il ministro degli Esteri britannico Castlereagh, parlando del Congresso di Vienna, aveva definito diplomacy by conference.
Nel dibattito corrente questo aspetto cruciale viene usualmente trascurato. Si parla dunque di quanto le “Nazioni Unite non funzionino”, non vedendo come queste ultime siano contenitore e non contenuto. L’ONU nasce fin dal principio come mezzo per aiutare gli stati a esprimere le proprie posizioni e ad articolarle in maniera costruttiva, non per determinare le politiche di questi. In altre parole, il miglior funzionamento delle Nazioni Unite è assicurato dalla cooperazione – o, almeno, dalla rivalità costruttiva – delle Grandi potenze. Tale è stato, per esempio, nell’immediatezza del secondo conflitto mondiale, quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica determinarono gli assetti post-bellici dell’Europa e dell’Asia. In assenza di questo accordo – di quell’intesa strategica generale che nelle parole dei politologi americani prende il nome di Great bargain –, aspettarsi una qualche azione di successo duratura da parte delle Nazioni Unite o delle organizzazioni sorelle appare quantomeno irrealistico.
La necessità di un accordo tra le maggiori potenze per negoziare un assetto internazionale stabile contiene già in sé la risposta alla ricorrente questione, se l’attuale ordinamento debba essere considerato unipolare o multipolare. L’unipolarismo a guida statunitense che ha seguito la conclusione della Guerra fredda, se mai c’è stato, è da considerarsi come una fase momentanea e anomala della storia delle relazioni internazionali. Conseguita non tanto con una vittoria schiacciante ma per il provvidenziale forfeit del grande competitor sovietico, quella vicenda generò un equivoco di fondo nella lettura occidentale degli eventi, venendo concepita come una conferma ideologica dell’inevitabilità del modello liberale americano, piuttosto che come una transizione geopolitica, caratterizzata momentaneamente dall’assenza di rivali di pari livello ma destinata inevitabilmente a vedere l’emergere di nuovi rivali. Tale erronea interpretazione ha conferito agli avversari dell’ordine americano un vantaggio sostanziale in termini di narrativa, permettendogli di presentarsi come alfieri del multilateralismo in contrapposizione all’unilateralismo unipolare a stelle e strisce.
L’ascesa del gruppo BRICS+ come format di cooperazione tra potenze molto diverse fra loro – e in alcuni casi persino rivali, come India e Cina – indica chiaramente tale sviluppo, che va a contrastare invece con la traiettoria intrapresa dall’Alleanza Atlantica all’indomani della conclusione della Guerra Fredda. Persa la sua missione – proteggere l’Europa occidentale dalla minaccia sovietica – la NATO non ha saputo trovare il coraggio per ripensare la propria funzione, limitandosi a offrirsi ambiguamente come cappello della politica estera americana. Tale mancanza di vocazione, che nel 2019 spinse il Presidente francese Emmanuel Macron a definire l’organizzazione “cerebralmente morta”, è stata parzialmente colmata con lo scoppio della Guerra in Ucraina. Compensazione, tuttavia, che sconta una sostanziale mancanza di fantasia, limitandosi a riesumare la propria vecchia funzione (difendere l’Europa da Mosca), senza però definire che cosa è e – di conseguenza – cosa vuole l’Occidente ad oggi, in uno scenario profondamente mutato rispetto al 1991.
Questa difficoltà di saper pensare, prima ancora di praticare, modi nuovi di bilanciare le relazioni tra le diverse realtà ha incancrenito quelle «gravi carenze strutturali» del sistema internazionale citate in precedenza. Una vacuità che non si è, purtroppo, tradotta in un banale esercizio intellettuale ma ha segnato le più recenti e tragiche vicende mondiali. È difficile, infatti, non vedere nei disastrosi conflitti che segnano intere nazioni, dall’Ucraina alla striscia di Gaza, un fallimento politico profondo almeno quanto l’abisso di disperazione in cui le popolazioni locali sono precipitate, loro malgrado.
Mentre le potenze mondiali moltiplicano i loro piani di guerra – fatti filtrare o annunciati apertamente, con evidente scopo intimidatorio –, poco o nulla si muove sul piano della progettazione della pace. Pace che non si significa mera cessazione delle ostilità, giacché dall’alba dei tempi i trattati possono fermare forse le armi, ma non i pensieri e i rancori che impedirebbero a ogni ostilità di scomparire, bensì pensiero di un nuovo assetto, di nuovi orizzonti e format di coinvolgimento degli attori interessati. Questa rimozione non può che richiamare quella «eclissi del senso dell’umano» citata da Papa Francesco quale radice di una politica globale sempre più in affanno nella sua ricerca di soluzioni alle crisi contemporanee.
La perdita della dimensione umana delle cose ha ridotto la politica da sostanza a forma, come la peripatetica ricerca di definizioni, etichette, format per negoziati che non lasciano le stanze delle loro riunioni. Un focus sullo Jus ad bellum, il diritto di guerra, sul come e quando combattere, pur doveroso, ha finito per offuscare lo Jus post bellum, il diritto post-bellico, quel principio ordinatore che dovrebbe orientare la ricostruzione di un assetto che possa offrire stabilità dopo la conclusione del conflitto.
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