I filosofi che si riconoscono nel Nuovo Realismo mettono in luce il privilegio attribuito al concetto nella costruzione dell’esperienza. Nella seconda metà del Novecento si sosteneva che non si incontrano percezioni ma credenze; Goodman scriveva che si costruisce il mondo così come si costruisce un’opera. La svolta linguistica sembrerebbe essere stata una svolta concettuale: quello che noi siamo e il nostro modo di vivere risulterebbe- ro fatti di storia, di linguaggio, di tradizioni, di culture. Quello che c’è nel mondo non può esserci mostrato dai sensi, ritenuti ingannevoli e imprecisi, bensì̀ dai paradigmi, dalle costruzioni concettuali. Le intuizioni, le percezioni, senza concetto sarebbero cieche, inutili. Il costruttivismo sembrerebbe nascere dall’esigenza di rifondare, attraverso la costruzione, un mondo considerato non più̀ stabile. I tratti concettuali sono alimentati e sostenuti per dare ordine e definizione alle magmatiche esperienze di realtà̀. Il contatto, il riconoscimento, la considerazione di quello che c’è sono messi da parte, talora rimossi, per porre in evidenza la centralità̀ dell’epistemologia, di quello che sappiamo nel merito di quello che c’è. In questa prospettiva si sviluppa una delle idee guida della postmodernità̀: la realtà̀ è socialmente costruita.
Per i filosofi del Nuovo Realismo affermare che tutto è socialmente costruito e che non ci sono fatti bensì̀ interpretazioni non è decostruire ma, al contrario, formulare una tesi che rischia di lasciare tutto come prima. Austin precisa le ragioni che portano ad assorbire nella “rappresentazione” le peculiarità̀ della “percezione”, squalificandola proprio perché non è riconosciuta per quello che è, viene ricondotta e ridotta a pura illusione:
L’argomento dell’illusione mira prima di tutto a convincerci che in certe situazioni occasionali e anomale, ciò̀ che percepiamo – almeno direttamente – è un dato sensoriale, ma dopo c’è un secondo stadio, nel quale siamo condotti ad ammettere che ciò che percepiamo (direttamente) è sempre un dato sensoriale, anche in circostanze normali (Austin, 1987, p. 57).
Il contenuto fenomenologico, non concettuale può essere anche più fine di ciò che è stato pensato e rappresentato. Riguardo alla percezione Maurizio Ferraris (De Caro, Ferraris, 2012, p. 155) mette in luce che sono proprio le linee di resistenza (di inemendabilità) che importano nella percezione e il significato ontologico dell’estetica come aisthesis. Perché i sensi non solo costituiscono l’inizio delle conoscenze (come ammettono tutti i filosofi) ma anche ciò̀ che, talvolta, smentisce le nostre teorie. Questo è a mio avviso il tratto saliente della sensibilità̀: il suo non confermare, non realizzare, ma smentire le nostre aspettative e il nostro sapere, rivelando con chiarezza che c’è qualcosa di distinto e separato.
Il dibattito filosofico è acceso: sembrerebbe scontato riconoscere lo stato di realtà a oggetti che esistono a prescindere dalla nostra percezione o rappresentazione, più impegnativo il riconoscimento del processo conoscitivo che può ancorarsi di più a movimenti analitici, a concettualizzazioni deterministiche, a valorizzazioni di fatti indipendenti dal nostro pensiero, da precise definizioni disciplinari. Non cerco di fissarmi in una posizione, mi pare significativo, piuttosto, iniziare a interloquire: come trattiamo la realtà quando siamo impegnati nel governo delle organizzazioni, nella progettazione di intraprese formative, di consulenza?
La riflessione filosofica sembra che incoraggi a cogliere l’utilità di fare riferimento a ipotesi conoscitive articolate, probabilmente non ancora del tutto messe a fuoco. La maggior parte degli investimenti formativi e organizzativi risponde a una logica divulgativa, parzialmente istruttiva: la realtà può essere conosciuta e compresa proponendo idee adeguate e facendo in modo che si affermino. Spesso queste idee sono presentate come tesi: per risparmiare l’azienda “deve tagliare” il 30% del personale e il 10% delle spese inattive; per vincere l’appalto il consorzio di imprese ha bisogno di controllare almeno il mercato locale, per poi vedere come affrontare la competizione dei soggetti che arrivano da altri territori italiani. L’intelligenza sembrerebbe consistere nell’applicare alla realtà schemi e concetti conoscitivi ritenuti validi e forti; in questo senso la realtà non sarebbe da incontrare, bensì soltanto da osservare per poi intervenire. In questa logica non possiamo fare entrare troppo la realtà nei nostri pensieri, “dobbiamo”, piuttosto “domarla”, “istruirla”, affinché risponda alle nostre esigenze, alle attese di crescita economica, sociale, produttiva. In questa realtà̀ sembrerebbe meglio non addentrarsi troppo, diventa preferibile scegliere, optare per una o più risoluzioni valutate pertinenti.
La concettualizzazione dell’esperienza avviene, talvolta sembrerebbe collocarsi al servizio della trasmissione di contenuti che possono poi diventare utili in tanti altri contesti. Si tratta di movimenti interessanti eppure offrono spazio solamente a logiche orientate al rimettere ordine, al dedurre che cosa fare in relazione con pensieri prevedibili e attentamente divulgati, nella direzione delle buone prassi, dello scambio di esperienze, dei modelli di riforma istituzionale o organizzativa. Probabilmente la realtà̀ non è solo da osservare, è anche da attraversare, da incontrare, da percepire, da ascoltare, da annusare, da distanziare e da riavvicinare. La densità del reale emerge in differenti tempi e luoghi, tra opacità e improvvisi accecamenti, tra durezze ostacolanti e morbidi movimenti di comprensione.
Le condizioni di incontro con la realtà vanno pensate, progettate, agite, non semplicemente considerate come esistenti e normalmente date. Lo sguardo volto alla realtà non è solo concreto e fattivo, gli occhi guardano anche a quello che non vedono, i pensieri ricercano soprattutto quello che non afferrano, che produce fastidio e frustrazione. L’incontro con la realtà ci mette nel bel mezzo di sollecitazioni contraddittorie, di analisi oggettive che non aiutano a capire e progettare, di pressioni decisionali, frutto di paure incontrollate, che sospingono verso derive improduttive e spaesanti. Riprendere il filo della realtà̀ è impegnativo: è sia da percepire sia da incontrare con le ipotesi che ci siamo costruiti, è sia da osservare e analizzare, sia da sfidare con intraprese pensate e incerte.
Le riflessioni riguardo alla realtà, al tentativo di definirla, offrono interrogativi interessanti nel merito del rapporto tra i fatti, gli accadimenti e la percezione, la rappresentazione emotiva e mentale. La voglia di scindere gli oggetti della conoscenza dall’attività conoscitiva con i suoi riferimenti soggettivi e culturali potrebbe prendere il sopravvento, ancora una volta alla ricerca di un porto sicuro: oggi c’è il sole è indubitabile, il responsabile dell’unità operativa dell’azienda in cui lavoro non è competente, è un fatto!
Invochiamo la realtà̀, spesso facendola coincidere con il reale, quando percepiamo distanza dalle questioni che a noi sembrano vere, gravi, da trattare. “Questa è la realtà” diventa un modo per affermare un fatto, una fatica, una sofferenza, un dubbio, qualcosa che va visto e riconosciuto con urgenza, al di là di quello che possono pensare le altre persone, i differenti interlocutori.
In letteratura il realismo è per sua natura schiettamente romantico, esprime il modo diretto e appassionato di entrare in contatto con il mondo. Nell’Europa di fine Ottocento il realismo diede rilievo ai problemi sociali, guardare alla realtà divenne sintomo di attenzione alle situazioni e alle persone che non avevano la possibilità di esprimersi, di raccontare le loro complicate e travagliate vicende di vita. Ancora oggi la vicinanza alla realtà sembra sollecitare interesse per l’approfondimento dei problemi importanti del nostro vivere, alla ricerca di idee e di azioni significative. Eppure l’attenzione alla realtà può coglierci impreparati riguardo alle intensità emotive, agli accecamenti che può favorire. Senza vicinanza e sensibilità non riusciamo a comprendere, senza emozionarci, almeno un po’, non possiamo conoscere, se assolutizziamo questi tratti rischiamo di idealizzare la realtà̀, di cercare illusioni che sostengano l’idea che ci siamo fatti delle situazioni, delle persone. Nella psicoanalisi il rischio di eccedere nelle interpretazioni, a scapito dei racconti, dei testi dei pazienti, fu considerato e dibattuto. La realtà, evidenzia Lacan, permane indipendentemente dalla nostra volontà̀ e ci coinvolge. E il reale? Per Freud lo incontriamo negli incubi. L’incontro con il reale è il contatto con un limite che ci scuote, con qualcosa che ci impedisce di continuare a dormire.
Il reale diventa ciò da cui non si può fuggire; per Lacan è associato a un trauma che introduce nella nostra vita una discontinuità̀ che spezza il sonno routinario della normalità della realtà. Il reale non coinciderebbe con la realtà, sarebbe, piuttosto, ciò che la scompagina. La realtà̀ tenderebbe d essere il velo che ricopre l’asperità scabrosa, “inemendabile” del reale. Con questo approccio la realtà̀ si costituirebbe socialmente per neutralizzare il trauma del reale.
Nel rapporto tra i fatti e le interpretazioni mi paiono interessanti le questioni che muovono la riflessione: a forza di interpretare rischiamo di anestetizzarci, diventiamo facilmente parlanti, ma non comunicanti, non dialoganti. Le rappresentazioni che abbiamo della realtà̀, delle situazioni, se non si misurano con tratti altri ed essenziali di contatto, di interrelazione, rischiano di precluderci una visione sufficientemente articolata e viva. La deriva è in agguato: spiegazioni didatticamente ineccepibili, eppure scarsamente interessanti e intense, l’idea di pensare e offrire contenuti di valore, che però le persone, i gruppi, le organizzazioni non capiscono. Sarebbero gli altri, il contesto a essere disattenti e non motivati a capire. Mi pare che anche il rapporto stretto con la realtà, con i suoi dati, le sue informazioni porti con sé dei rischi: è reale quello che motiviamo, argomentiamo, dimostriamo, come se potessimo controllare davvero la realtà in ogni sua parte; solo il reale conta, il resto sono storie non vere, questioni inventate e irrilevanti. Diventiamo più realisti del re e quindi piuttosto accaniti e intransigenti, non accogliamo la comprensione tenera e riflessiva, non riusciamo a rendere utili la rabbia, l’aggressività, la paura. Rischiamo di diventare implacabili e imperturbabili, in nome della nostra presunta conoscenza e diagnosi della realtà.
Forse abbiamo bisogno di percepirci parziali e mancanti in qualcosa per entrare in contatto con il mondo, con la complessità̀ del reale, per guardare alle altre persone e situazioni con sufficiente interesse e comprensione. Ci sono di aiuto le idee, le interpretazioni, le diagnosi di realtà, le osservazioni se le collochiamo in un processo conoscitivo che accoglie il limite, l’opacità, il non senso, il frammentato, il non ancora afferrabile. Mi pare realistico lo sguardo che accoglie molteplici attenzioni, che si interroga sulle derive che sta correndo, che si lascia andare alle comprensioni sentite lucide e appassionanti, sapendo che forse c’è anche altro di differente e di significativo. In questo senso percepirci parzialmente mancanti non è un fatto grave, né un vuoto da colmare, è, piuttosto, la condizione di realtà e quindi anche di possibilità conoscitiva e di azione intraprendente, perché fa vedere che cosa ci sembra reale, che cosa non lo è, ma potrebbe diveltarlo, che cosa ignoriamo, perché non ne abbiamo la capacità, né la voglia. L’accanimento ci allontana dalla comprensione della realtà, perché ci fa mettere in luce quello che manca alle altre persone, ai contesti, alle organizzazioni, ci fa diventare pieni di ragioni, eppure deboli nella interlocuzione.
Quello che pensiamo può certamente essere sufficientemente vero e reale, perché siamo competenti, abbiamo sviluppato esperienze che confermano le nostre ipotesi. Questo non vuole dire che sia utile insistere a oltranza per divulgare i nostri preziosi pensieri, possiamo soffermarci sulle parti di con- tenuto che meno vengono considerate, possiamo continuare a progettare e costruire nella direzione che ci pare sensata, così facendo interagiamo, conosciamo, apriamo spiragli di comprensione nella realtà con altre persone e gruppi. Possiamo differenziarci e precisare la nostra idea della realtà, delle situazioni sociali, economiche, organizzative, senza perdere interesse per altri modi di vedere o ignorare la complessità del mondo, delle comunità territoriali, delle imprese. Dire cosa manca è facile, comprendere come interloquire e costruire con quello che c’è è impegnativo, talvolta frustrante, incerto, eppure altrettanto significativo e appagante. (…)